ELEZIONI REGIONALI. Nella Sardegna profonda, dove i piccoli paesi rischiano
l’estinzione e gli ultimi echi della campagna elettorale arrivano smorzati.
Crisi profonde nel settore industriale, soffrono agricoltura e pastorizia.
Disoccupazione al 12%. Le scuole chiudono per i tagli decisi a Roma, i
trasporti sono da incubo.
Sul manifesto del 24 febbraio 2024
https://ilmanifesto.it/sardegna-lisola-nascosta-in-cerca...
Tuili è un paese alla fine del mondo. Novecento abitanti nel cuore della
Giara di Gesturi, nel cuore della Sardegna. È lontano dalle città, lontano
dalle coste della monocoltura turistica. Il ministro della Difesa Crosetto lo
ha messo nella lista dei siti che potrebbero ospitare il deposito nazionale
delle scorie radioattive.
Chi li vede qui i veleni delle vecchie centrali dismesse che nessuno vuole?
A Tuili ogni anno da parecchi anni i morti sono più dei nati. Se va avanti
così, dicono i demografi, nel giro di una sessantina di anni Tuili diventerà un
paese fantasma, del tutto disabitato.
E non è il solo in Sardegna a rischiare l’estinzione. Ce ne sono altri
trenta di piccoli centri che hanno un tasso demografico negativo. Si chiama
spopolamento.
A Tuili non vorrebbero le scorie radioattive. Vorrebbero servizi. Perché se
non ci sono scuole, se non ci sono ambulatori, se non ci sono uffici postali,
se non c’è un cinema o una biblioteca, per quale motivo la gente non dovrebbe
fuggire a Cagliari o prendere un traghetto e andarsene sul continente?
ANCHE A TUILI DOMANI si vota per eleggere il nuovo governatore dell’isola.
Ma gli echi della campagna elettorale arrivano smorzati ai bordi della Giara. A
pochi chilometri il profilo monotono dell’altopiano è spezzato dalle torri
della regia nuragica di Barumini. Pietre millenarie, il tempo circolare delle
società tradizionali.
Cagliari e Roma qui sono distanti non solo per numero di chilometri. E però
è proprio per questo che è utile guardare alla Sardegna profonda ora che
brillano, un po’ mesti, gli ultimi fuochi di una battaglia politica dura, con
il centrodestra che s’è messo nelle mani di un nostalgico del Duce e un
centrosinistra diviso.
Mentre ieri a Cagliari Alessandra Todde per l’alleanza Pd-M5S e Renato Soru
per la Coalizione sarda chiudevano le rispettive campagne elettorali ripetendo
le argomentazioni sulle quali hanno battuto per due mesi e dandosele ancora di
santa ragione, e mentre il fedelissimo meloniano Paolo Truzzu nel suo comizio
finale ripeteva che la vittoria del centrodestra è sicura, Tuili guardava e
giudicava.
Guardava e giudicava dalla solitudine delle zone interne, dalla quale
giovani donne e giovani uomini scappano per avere un futuro.
La situazione non è molto diversa in tante altre parti della Sardegna. Se
ne sa poco, oltre Tirreno, di che cos’è quest’isola.
Si sa poco ad esempio, di che cosa sta accadendo nel Sulcis, Sardegna
sud-occidentale. Le miniere di carbone hanno chiuso da tempo e il distretto
metallurgico di Portovesme è in crisi profonda. Le fabbriche vendute dallo
Stato negli anni Novanta alle multinazionali dell’alluminio sono tutte a un
passo dalla chiusura, con migliaia di posti di lavoro a rischio. E nessuna
risposta.
Difficile fare politica industriale se a prevalere, alla fine, è sempre la
logica del mercato. Persino la famiglia Moratti ha mollato. È della scorsa
settimana la notizia che il gruppo milanese ha venduto lo stabilimento
petrolchimico di Sarroch alla holding svizzero-olandese Vitol. I sindacati sono
in allarme: sanno che cosa può succedere quando le proprietà si spostano fuori
dai confini nazionali.
MA NON È SOLTANTO il settore industriale a soffrire. Vanno male agricoltura
e pastorizia, alle prese con una crisi strutturale che ha dimensioni europee e
alla quale l’assenza di visioni di lungo periodo impedisce di trovare rimedi
che tengano insieme tutela dei redditi e transizione ecologica.
L’amministrazione pubblica è in stallo, penalizzata dalla lentezza con la
quale la politica regionale gestisce l’altra decisiva transizione, quella
digitale.
La scuola è in sofferenza: gli istituti chiudono per i tagli decisi a Roma
(il dimensionamento scolastico) e la Sardegna è tristemente al primo posto
nella classifica dei ragazzi che abbandonano gli studi prima di terminare il
corso obbligatorio.
I trasporti sono da incubo. Sali su un treno e ti sembra di entrare in una
macchina del tempo, su binari che seguono le tratte progettate dai pionieri
delle ferrovie nell’Ottocento e con tempi di percorrenza da scoraggiare
chiunque: per arrivare da Cagliari a Sassari – 220 chilometri – si impiegano
tre ore e mezza.
Restano le strade, ma anche quelle sono un disastro. La statale 131, che
percorre da Nord a Sud la regione, è una delle arterie più pericolose d’Italia,
interrotta com’è da eterni cantieri di manutenzione. E le strade provinciali,
su vecchi e tortuosi tracciati, abbandonate da decenni sono un colabrodo di
buche.
Per non parlare dei collegamenti con la penisola: con le politiche della
destra, che privilegiano il mercato, i biglietti degli aerei e quelli dei
traghetti sono diventati salatissimi. E che dire dei poligoni?
Un recente studio di un gruppo di economisti dell’università di Cagliari ha
dimostrato che le zone occupate dalle basi sono quelle che in Sardegna hanno
avuto i tassi di crescita più bassa: reddito sotto la media regionale e
dinamismo imprenditoriale prossimo allo zero.
Soltanto il turismo va bene, in Sardegna, aiutato da salari vergognosamente
bassi e dalla diffusione del precariato e del lavoro nero.
LA CONSEGUENZA di tutto ciò è che nell’isola il tasso di disoccupazione è
al 12%, 5 punti in più della media nazionale. E con la disoccupazione riparte
l’emigrazione. I sardi se ne vanno via e se le cose non cambiano si prepara,
per i prossimi decenni, uno scenario demografico nerissimo.
Questa è la Sardegna in cui domani si vota. Un quadro rispetto al quale le
responsabilità della destra al governo negli ultimi 5 anni sono forti ed
evidenti. Ma i problemi hanno radici che affondano ben al di là nel tempo. E
sono in pochi a potersi dire assolti.
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