(di Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Michele Bocci, Antonio Fraschilla – repubblica.it)
Liste d’attesa infinite, medici che lasciano gli ospedali,
malati di tumore che non riescono a fare esami ed interventi in tempo utile per
salvarsi la vita. E, ancora, pronto soccorsi diventati dei gironi infernali. La
sanità pubblica italiana sta morendo e ha bisogno di soldi per sopravvivere.
Eppure, il governo non sembra averne consapevolezza. Vanta infatti di aver
incrementato il fondo sanitario nazionale (che effettivamente sta crescendo) ma
finge di ignorare che intanto il suo valore percentuale rispetto al Pil sta
calando. Il che significa che il finanziamento e pure la spesa, anche
confrontati con l’inflazione, di fatto si stanno riducendo. Un chiaro segnale
di disinvestimento.
Le grida
d’allarme ormai arrivano da ogni parte: dai sindacati, dalle Regioni, dai
medici, dagli infermieri e dagli stessi cittadini prigionieri delle liste di
attesa. In generale, da chiunque abbia a cuore un sistema che ha regalato agli
italiani un’eccellenza pubblica praticamente unica in Occidente. Il numero di
letti ospedalieri diminuisce e sul territorio non si creano servizi adeguati ad
assistere chi non viene ricoverato. Ci sono medici che fuggono da alcuni
reparti nei quali non vogliono andare neanche i camici bianchi appena assunti.
L’offerta specialistica rallenta e i cittadini che non vogliono aspettare
devono spendere altri soldi per comprare le prestazioni sanitarie. Il privato
così cresce e nei prossimi anni continuerà a farlo con ancora più forza, fino a
diventare un pezzo fondamentale del sistema di assistenza. Chi non potrà pagare
resterà tagliato fuori dalle cure. O le avrà di peggiore qualità.
Il vuoto
In questi
venti anni, con i governi di Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte,
Draghi e ultimo Meloni, c’è stata una continua erosione del sistema. Si è
creato un grande vuoto, perché la domanda di salute e di cure è incrementata a
causa dell’aumento della popolazione di due milioni di persone, della crescita
dell’età media e del venir meno del tessuto di relazioni familiari. Così la
sanità privata si è radicata sempre di più dalla Lombardia alla Sicilia e,
guarda caso, ha rafforzato i suoi rapporti con la politica con un continuo
entra ed esci da porte girevoli: ci sono grandi patron della sanità privata
sbarcati in politica, come Antonio Angelucci, e politici diventati oggi
presidenti di gruppi importanti della sanità privata, come l’ex ministro
Angelino Alfano. C’è un modello, quello di Roberto Formigoni in Lombardia,
sposato ormai da un bel pezzo del Paese, dai governi Cuffaro in Sicilia a
quelli del centrodestra e del centrosinistra in Calabria, Puglia e Lazio.
Ma questo
riempire il vuoto ha un costo che qualcuno paga ogni giorno: chi non ha
assicurazioni sanitarie, chi non ha redditi elevati da permettersi migliaia di
euro per esami e interventi. Non i poveri, anzi non solo i poveri, ma una buona
parte delle famiglie italiane che rinunciano ormai ad altre spese per curarsi.
Perché non solo nella costosa e ricca Milano dei colossi della sanità privata,
dall’Humanitas al San Raffaele, ma anche nell’ospedale pubblico del più
profondo dei Sud occorre pagare per avere cure in tempi accettabili. Le
segnalazioni di cittadini costretti a spendere per fare prima non si contano e
arrivano da tutto il Paese.
Invertire la
tendenza si può ma non bastano gli incrementi da 2 miliardi del fondo sanitario
(sui 128 di quest’anno) sventolati dalla destra al governo come un successo. Va
alzata la percentuale della spesa sanitaria rispetto al Pil, diretta mestamente
verso un misero 6,1% a detta dello stesso esecutivo. Appunto, ci vogliono
grandi investimenti. Un piano per la sanità da almeno 18 miliardi. Ma sarebbe
meglio da 25.
65 mila posti letto perduti
C’è il
piccolo ospedale di città che non aveva ragione di esistere, perché si trovava
vicino a centri più grandi, ma c’è anche la struttura che in una zona isolata
garantiva assistenza ai cittadini. In vent’anni In Italia gli ospedali pubblici
sono passati da 777 a 516, mentre il numero di quelli privati accreditati è
stabile e adesso le cliniche sono quasi lo stesso numero dei centri pubblici. E
mentre la sanità si è ritirata, la popolazione è cresciuta, passando dai 57
milioni del 2001 agli attuali 59. Tra il 2001 e il 2019 i posti letto sono
diminuiti quasi di un terzo, cioè di 65 mila. Nel 2020 con il Covid si è stati
costretti ad aprirne 40mila, destinati a chiudere di nuovo in questi anni.
Anche in questo caso, lo sbalzo per il privato è stato meno importante.
Dietro alla
riduzione di ospedali e letti c’è prima di tutto un miglioramento clinico e tecnologico
della sanità, che ha portato a ridurre le degenze e, ad esempio, ad operare
in day surgery problemi che un tempo richiedevano il ricovero.
La medicina cresce, le strutture diminuiscono. Fin qui non ci sarebbero
problemi. “Sì, certo, questo è vero – spiega Carlo Palermo, presidente del
principale sindacato degli ospedalieri, Anaao – La medicina è cambiata ma se ci
paragoniamo a tutte le altre grandi nazioni il calo del numero di letti da noi
è stato troppo accentuato”. Soprattutto, secondo il sindacalista, non è andato
di pari passo con la crescita di altre attività di cura: “Penso all’assistenza
territoriale. Basta vedere l’accesso spropositato ai pronto soccorso di persone
con problemi banali, che andrebbero seguite altrove, per capire che qualcosa
non torna. E nel frattempo aumentano i malati cronici che finiscono nei reparti
di emergenza e non hanno un letto dove essere ricoverati”. Per Palermo “mancano
tutte le strutture intermedie, i famosi ospedali di comunità. Ma siamo anche
senza assistenza domiciliare, strutture di fisioterapia. A sviluppare tutto
questo dovrebbe pensarci il Pnrr ma il problema è che manca il personale. Ecco,
chi lo fa viaggiare il nuovo sistema?”.
Il numero
dei camici bianchi negli ultimi 20 anni è stabile, intorno ai 108 mila. “Il
punto – dice Palermo – è prima di tutto che i dottori italiani sono tra i più
anziani. Il 56% ha più di 55 anni mentre in Inghilterra non raggiungono il 20%.
Succede quindi che ogni anno vadano in pensione più persone di quelle che
entrano nel sistema. Poi non basta vedere il totale ma bisogna andare nei
reparti. Pronto soccorso, anestesie, chirurgie generali, pediatrie hanno ormai
ben noti problemi di personale. Ci sono settori, come l’emergenza, dai quali i
colleghi scappano, magari per mettersi in proprio e lavorare a gettone. È stata
sbagliata la programmazione nel decennio precedente e ora è difficile
recuperare. I ministri alla Salute Giulia Grillo e Roberto Speranza hanno
incrementato in modo consistente i contratti di formazione ma ci vorrà ancora
un po’ di tempo prima di vedere gli effetti, visto che per specializzarsi ci
vogliono 4 o 5 anni”.
Liste di attesa
Sono la
spina nel fianco, la dimostrazione della crisi di organici e organizzazione del
sistema pubblico, il motivo che spinge migliaia di persone ogni giorno verso il
privato. Le liste di attesa non si riescono ad alleggerire, malgrado i piani,
le riforme e le strategie che tengono continuamente impegnate le Regioni.
Quello che è accaduto a causa del Covid descrive bene la situazione. Nel 2019
in Italia il sistema sanitario faceva quasi 230 milioni di visite ed esami
specialistici, dicono i dati di Agenas, l’Agenzia sanitaria nazionale degli
enti locali. Con la pandemia l’attività è calata e in molte persone hanno
saltato gli accertamenti: consulti, risonanze, ecografie, tac. Così, nel 2021
la domanda è aumentata. Ebbene, il sistema non è stato in grado di rispondere a
questa crescita. In quell’anno infatti le prestazioni specialistiche sono state
194 milioni, cioè il 15% in meno rispetto al periodo precedente alla pandemia.
Con un’offerta così ridotta, e la domanda che addirittura è aumentata, le
attese sono cresciute, portando molte persone a chiedere una risposta rapida
pagando, magari per avere la libera professione intramoenia dei camici bianchi
pubblici.
Le attese
riguardano anche gli interventi chirurgici. I tumori, in base alle indicazioni
ministeriali, vanno operati entro 30 giorni nel 90% dei casi. È l’obiettivo che
è stato dato a tutte le amministrazioni locali. Se si guarda quello alla
prostata, la gran parte delle Regioni non raggiunge assolutamente la
sufficienza. Il Piemonte si è fermato al 40%, il Friuli al 32%, la Liguria al
29% e l’Umbria addirittura al 18%. Significa che molti di coloro che hanno quel
tipo di cancro, il più diffuso tra gli uomini, aspettano due, tre, quattro o
addirittura cinque mesi prima di entrare in sala operatoria. Qualcuno ha
difficoltà a rispettare i tempi anche per il tumore al polmone. In Campania si
opera in 30 giorni solo nel 45% dei casi. Va meglio, in tutte le Regioni, con
la mammella. Poi c’è il problema degli screening oncologici perduti, e non
recuperati, a causa del Covid. Si tratta di circa 2,5 milioni di prestazioni
che si cercano di recuperare. Un’operazione nella quale ha detto di volersi
impegnare anche il ministro alla Salute Orazio Schillaci.
È di questi
giorni la storia di un uomo fiorentino che ha già fatto la visita pre
operatoria ma aspetta da oltre 90 giorni che gli venga rimosso proprio il
tumore della prostata a Careggi. Parliamo di un paziente che vive in una
Regione considerata tra le migliori per la sanità. Lui non ha scelto
l’intramoenia. È stata costretta a farlo invece M.F., una signora che da mesi
attende di essere chiamata per una delicata operazione alla schiena. Stanca di
non potersi più muovere, ha messo mano al portafoglio e chiesto all’equipe del
primario che l’aveva presa in carico all’ospedale Cannizzaro di Palermo di
essere operata in libera professione: 11 mila euro con un medico dello staff
del primario, 20 mila euro con il primario. Per magia le è stato fissato
l’intervento in 10 giorni. Poi ci sono gli esami. La tac per un sospetto tumore
alla prostata fissata, sempre in Sicilia, per ottobre di quest’anno, subito
ottenuta pagando, oppure l’esame istologico di una donna di 36 anni che non
arriva da tre mesi e spinge i Nas ad avviare un’indagine sull’anatomia
patologica di Gallipoli. Chi ha un’assicurazione è fortunato. A Roma una donna
malata di tumore al colon è stata operata in una clinica privata in cinque
giorni dall’esame diagnostico perché aveva una copertura sanitaria grazie al
suo lavoro, all’Asp di Roma solo per fare l’esame l’attesa era di diversi mesi.
Parliamo di vita o di morte.
Ma sono
esempi che raccontano solo una parte minima del problema. Nessuna Regione,
forse nessuna struttura sanitaria, è risparmiata dalle attese.
La spesa scende
I numeri
raccontano una storia di ritirata dello Stato e contemporanea avanzata dei
privati. Secondo i dati appena pubblicati dall’ufficio studi della Camera, nel
2001 la spesa sanitaria pubblica ammontava a 70 miliardi di euro, con un incremento
del dieci per cento rispetto all’anno precedente: un aumento quindi molto
maggiore dell’inflazione. Dal 2002 l’incremento annuale si è stabilito
mediamente sempre sotto l’inflazione (ad eccezione di un balzo nel 2005)
attestandosi a quota 115 miliardi di euro nel 2019, l’anno prima della
pandemia. Scrivono i tecnici della Camera: “L’andamento della spesa sanitaria
pubblica in Italia, in base ai dati dell’Istituto nazionale di statistica ha
fatto registrare tra il 2000 e il 2008 un aumento di circa il 3%, superiore
all’aumento del Prodotto interno lordo. Il rapporto di tale spesa rispetto al
Pil si è attestato oltre il 6%. Dal 2009 al 2017, il tasso di variazione medio
anno rispetto al Pil era gradualmente sceso attestandosi intorno allo 0,1%, il rallentamento
della componente pubblica della spesa sanitaria fino al 2019 ha avuto
ripercussioni sulla crescita della spesa sanitaria privata sostenuta dalle
famiglie, aumentata in media di circa il 2,5%”. Dove non arriva il pubblico
arrivano le tasche degli italiani insomma.
Anche
l’Università Cattolica, non certo un covo di statalisti, nell’ultima relazione
sulla spesa sanitaria dell’Osservatorio conti pubblici, scrive: “Gli aumenti
moderati e comunque inferiori all’inflazione degli anni successivi possono aver
creato problemi in vari ambiti a fronte delle esigenze crescenti legate
all’invecchiamento della popolazione e all’elevato costo dei nuovi farmaci e
nuove tecnologie. […] Gli aumenti registrati in questo periodo non sono stati
sufficienti a tenere il passo con l’inflazione. Se si valuta la spesa in
termini reali, si registra un calo che l’ha riportata attorno ai valori del
2004”. Insomma, la spesa sanitaria negli ultimi venti anni alla fine tra
accelerazioni e frenate si è ridotta e di molto. E il raffronto con gli altri
Paesi è impietoso: secondo l’Oecd Health Data nel 2020 la spesa pubblica
nominale pro-capite nel Regno Unito è stata pari a 5.019 dollari, in Germania
6.939, in Francia 5.468 in Italia 3.747.
I privati e i miliardi che mancano
I soldi
pubblici in sanità non bastano. E soprattutto non basteranno nei prossimi anni.
L’Italia non solo investe meno di Paesi come Francia e Germania per finanziare
l’assistenza ai suoi cittadini ma resta molto più in basso anche sommando a
quella dello Stato la spesa privata (che vale il 2,2% del Pil). E se nel 2021
la spesa pubblica è arrivata al 7,3% del Prodotto interno lordo il governo
Meloni ha stimato una riduzione, fino a scendere nel 2025 al 6,1%. Pochissimo.
Un dato che smentisce le parole di giubilo della maggioranza per i 2 miliardi
l’anno in più stanziati per il Fondo sanitario nazionale fino al 2025 .
E il calo è
ancora più pesante se si considera che nei prossimi anni i bisogni e le spese
sanitarie tenderanno a crescere. A spiegare il meccanismo è Mario Del Vecchio,
docente di Management sanitario all’Università di Firenze e direttore
dell’osservatorio sui Consumi privati in Sanità della SDA Bocconi. “La
popolazione invecchierà e inoltre ci saranno innovazioni tecnologiche e
farmacologiche. Ci sarà bisogno di più denaro per la sanità”. Del Vecchio stima
che nel prossimo decennio ci vorrebbe una crescita della spesa sanitaria di
1-1,5 punti di Pil, cioè tra i 18 e i 25 miliardi. Una bella cura ricostituente
per permettere al sistema pubblico di rispondere ai bisogni e alle attese dei
cittadini. “Già oggi abbiamo dei buchi rispetto ai diritti, un razionamento
implicito, del quale le liste di attesa sono un esempio. La sanità non dà
quello che promette. Ecco, figuriamoci cosa potrà avvenire tra qualche anno”.
Il problema è soprattutto politico. “A vedere le manovre di chi governa, ci
sono altre priorità nell’agenda della politica ma anche degli italiani. Si
punta sulla riduzione delle tasse o delle bollette, su trasferimenti monetari
sulle pensioni o sul reddito di cittadinanza. Non su aumentare il fondo
sanitario nazionale. E non parlo di uno o due miliardi di aumento. Bisogna
ragionare in termini di percentuali di Pil”.
Visto che lo
Stato non vuole mettere più denaro sulla sanità e i cittadini non vogliono
l’aumento delle tasse, il problema della mancanza di quei 18-25 miliardi cadrà
sul privato. “Una prima possibilità potrebbe riguardare un impegno del mondo
del lavoro, con i sistemi mutualistici – dice Del Vecchio – Ma anche qui mi
sembra che più di tanto non si voglia o possa crescere, visto che la priorità è
quella di un abbassamento del costo del lavoro. Allora resta la spesa del
privato per le prestazioni oppure per un’assicurazione o una mutua”. Si finisce
lì, a quella che qualcuno chiama seconda gamba del sistema sanitario, che in
Italia sta diventando sempre più importante. “Il punto è che in questo modo chi
non può pagarsi nemmeno un’assicurazione viene tagliato fuori. Di questo
rischio bisogna parlarne, per organizzare un sistema di protezione. Altrimenti
l’iniquità sarà molto più alta. Vanno evitate contrapposizione
pubblico-privato, aiutate le persone a spendere meglio i soldi per la sanità”.
L’argine così, però, è rotto. La politica e il sistema pubblico dovrebbero
porsi il problema di adeguare le attese alle risorse che la collettività è
disposta a investire. “Deve essere chiaro che con il 6,1-6,4% del Pil si può
assicurare un certo livello di risposta, ma non quello di Paesi come la Francia
e la Germania, che è il 50% in più”.
Il rischio catastrofe per le Regioni
Non è una
questione di destra o di sinistra. Le Regioni gestiscono la sanità, che
rappresenta l’80% del loro bilancio, e conoscono bene il problema dei
finanziamenti. In più, in questa fase storica, a dare una mazzata ai bilanci ci
si sono messe le spese extra per il Covid e quelle per le bollette. Così tutti
gli assessori alla Salute hanno scritto al ministro Orazio Schillaci usando
termini particolarmente pesanti per descrivere quanto sta accadendo. Parlano
del rischio di “conseguenze catastrofiche” per il sistema pubblico a causa
dell’insufficienza delle risorse economiche, della carenza di personale, dei
rincari di materie prime e consumi energetici. Evidentemente i 2 miliardi in
più di fondo sanitario stanziati ogni anno fino al 2025 dal governo anche
secondo loro non bastano. “La sostenibilità economico-finanziaria dei bilanci
sanitari è fortemente compromessa dall’insufficiente livello di finanziamento
del sistema sanitario nazionale, dal mancato finanziamento di una quota
rilevante delle spese sostenute per l’attuazione delle misure di contrasto alla
pandemia e per l’attuazione della campagna vaccinale, dal considerevole
incremento dei costi energetici sostenuti dalle strutture sanitarie e socio
assistenziali, pubbliche e private accreditate, dal continuo incremento dei
prezzi delle materie prime, dei materiali e dei servizi per effetto
dell’andamento inflattivo”, hanno scritto le Regioni.
A coordinare
gli assessori alla Salute nella Conferenza Stato-Regioni è Raffaele Donini
dell’Emilia-Romagna. La sua posizione dimostra come negli enti territoriali a
questo punto interessi giusto il colore di chi governa. “Da un lato dobbiamo
depoliticizzare la sanità – dice – Adesso è inutile stare a dire di chi è la
responsabilità del sottofinanziamento o buttarla in una contrapposizione
politica fine a se stessa. Sappiamo tutti che i problemi arrivano da almeno un
decennio di programmazione non adeguata. Però adesso al governo c’è Giorgia
Meloni. O il suo esecutivo si occupa, con urgenza, di garantire alla sanità la
sostenibilità finanziaria e di incentivare la formazione di nuovi medici,
oppure la sanità gli esploderà fra le mani”. Più chiaro di così. La sua
Regione, dice, per ora regge ma anche chi ha le spalle robuste di un servizio
regionale forte alla lunga, “dopo tre o quattro anni che reperisce risorse
proprie per far fronte a spese straordinarie del Covid e dell’energia” rischia
di cedere.
E poi Donini
aggiunge: “Da un altro lato dobbiamo politicizzare la questione, nel senso più
nobile del termine, facendo sì che la sanità pubblica universalistica torni al
centro dell’agenda nazionale. Noi Regioni abbiamo situazioni molto
diversificate ma su sostenibilità finanziaria e carenza di professionisti siamo
unite. Pensiamo al tema dell’urgenza. I medici mancano a tutti. Ce ne sono 12
mila e nei prossimi anni ne andranno in pensione 4 mila e tanti chiederanno di
essere trasferiti in altri reparti. A fronte di queste uscite, ne entreranno
solo 1.500. Ecco, questo è un problema nazionale”.
Anche
l’assessore dell’Emilia sa che se non arrivano più soldi il privato guadagnerà
spazio. “Allora però deve essere integrato, non competitivo con il sistema
pubblico. Ci dobbiamo confrontare affinché si collochino nelle traiettorie che
noi indichiamo come necessarie per la nostra sanità”. Forse la Regione di
Donini riuscirà a farlo ma non è detto che anche le altre riescano, o vogliano,
percorrere la stessa strada.
L’offerta privata
Il vuoto,
come detto, viene colmato sempre se la domanda resta uguale. Vale in politica,
vale in economia, vale in un settore che incrocia queste diverse sfere: la
sanità. Secondo l’ultimo rapporto Oasi dell’Università Bocconi dedicato al
sistema sanitario, se nel 2000 le strutture sanitarie territoriali accreditate
(che ricevono rimborsi dal sistema pubblico) come laboratori, ambulatori,
strutture residenziali e non, consultori, centri di salute mentale e altri
erano il 38,9 % dell’offerta sanitaria totale pagata dallo Stato, nel 2020
questa percentuale è salita al 58%. Con alcune Regioni che hanno subito una
esternalizzazione dell’offerta sanitaria enorme: nello stesso arco di tempo il
Piemonte è passato da una presenza di strutture accreditate sul totale di
quelle territoriali del 23,9 al 64%, in Lombardia si è passati dal 34 al 70%,
l’Emilia Romagna dal 31 al 57%, in Puglia dal 38 al 63%, in Sicilia, dove
la privatizzazione spinta è iniziata già nei primi anni Novanta con i governi
berlusconiani, è rimasta stabile al 61 %.
Oggi la
spesa sanitaria pubblica per l’assistenza privata accreditata, compresa quella
ospedaliera, vale il 17% del budget pubblico, 400 euro pro-capite a fronte di
una spesa del sistema sanitario pro-capite complessiva di 2.298 euro (nel 2019
la spesa per i privati era pari a 378 euro).
Sia chiaro,
il tema non è che i privati siano il male, il pubblico il bene. Il tema è, come
detto, che i buchi vengono colmati se la domanda resta uguale. E nel privato,
ma anche nel pubblico, chi paga ha una corsia preferenziale ormai del tutto
evidente.
Di certo c’è
che i grandi gruppi hanno visto incrementare i fatturati in questi anni e anche
di cifre importanti. Il gruppo San Donato della famiglia Rotelli, un colosso
del settore che da solo gestisce 19 ospedali compreso il San Raffaele di
Milano, nel 2014 fatturava 1,3 miliardi di euro, nel 2019, anno pre covid, ha
fatturato 1,7 miliardi. Il Policlinico San Donato, che fa parte del gruppo, nel
2016 fatturava 151 milioni, nel 2021 171 milioni. La società Humanitas
Mirasole, della famiglia Rocca fatturava 438 milioni nel 2019, nel 2021 la
cifra è salita a 534 milioni.
La spesa diretta per privati
Una fetta
importante della spesa sanitaria pubblica va ai privati accreditati. Ma a
questa cifra va aggiunta la spesa diretta delle famiglie italiane, cosiddetta
“out of pocket” proprio perché a carico dei cittadini. Una cifra cresciuta in
questi anni, di pari passo con il venir meno della risposta del servizio
pubblico. Secondo l’Istat la spesa diretta per privati (anche in regime di
intramoenia nelle strutture pubbliche) delle famiglie era pari a 34,4 miliardi
di euro nel 2012, nel 2021 è arrivata a quota 41 miliardi di euro. In questa
cifra c’è la spesa diretta e quella attraverso regimi assicurativi o di
finanziamento attraverso istituzioni senza scopi di lucro. Una crescita negli
ultimi dieci anni del 20%, pari a 7 miliardi di euro in più.
Ma per quali
settori gli italiani si rivolgono al privato? Oltre venti miliardi di euro sono
stati spesi per visite specialistiche, servizi dentistici, servizi di
diagnostica e per servizi paramedici (cioè infermieri, psicologi,
fisioterapisti ecc.). Altri 15 miliardi di euro sono stati spesi per l’acquisto
di farmaci, attrezzature terapeutiche e altri prodotti medicali come siringhe,
garze e così via. Quasi 6 miliardi di euro sono stati spesi per i ricoveri
ospedalieri e in strutture sanitarie di assistenza a lungo termine. Tutte
queste voci sono in costante crescita negli ultimi anni, e tendenzialmente
cresceranno ancora. E come detto riguardano anche il sistema di intramoenia
nell’ospedalità pubblica: cioè la possibilità di usufruire di strutture
pubbliche ma in regime “privato” diciamo così, pagando insomma: nell’ultimo
anno prima del Covid secondo il ministero della Salute in Italia la spesa
pro-capite per la libera professione intramuraria è stata pari a 14 euro, con
picchi in Emilia Romagna (23 euro), Toscana (22), Piemonte (21), Veneto e
Lombardia (17).
In generale
si tratta di spese che incidono direttamente nel bilancio delle famiglie al di
là delle tasse che già si pagano per l’assistenza sanitaria pubblica e
convenzionata. Secondo l’ultimo studio Oasi della Bocconi, la spesa privata
volontaria per servizi sanitari nel 2019 incideva per il 2,2% del Pil, nel 2021
la cifra è salita al 2,4%. Per fare un raffronto, in Germania nel 2021 la spesa
privata diretta è stata pari all’1,8% del Pil, in Svezia 1,6, nel Regno Unito
2,1, solo per osservare sistemi sanitari che hanno alla base una filosofia del
tutto diversa tra loro. In ogni caso la cifra è inferiore a quella italiana.
Questo a conferma che il mito della sanità pubblica è ormai tale: un mito
appunto. Gli italiani spendono molto di più di altri europei per la spesa
sanitaria privata diretta. E questo è un elemento nuovo nella storia di
questo Paese, fondata sul “mito” della sanità e dell’istruzione pubblica.
La crescita delle assicurazioni
Uno dei
fenomeni legati alle difficoltà della sanità pubblica è la crescita del ricorso
a forme sanitarie integrative. Oggi sono circa 20 milioni gli italiani che
hanno una copertura aggiuntiva. Si tratta di una buona parte dei lavoratori
dipendenti, ma anche autonomi, e di chi ha deciso comunque di tutelarsi anche
al di fuori della professione. Gli altri devono affidarsi al sistema pubblico
oppure pagarsi le prestazioni private senza alcun tipo di rimborso.
Sono molto
diversi i tipi di assistenza integrativa che si possono avere. Il primo, e il
più diffuso, riguarda una quindicina di milioni di persone assistite con il
welfare contrattuale e aziendale, che vale oltre 3 miliardi di euro l’anno. Nel
2013 gli assistiti erano 7 milioni, quindi c’è stata un’esplosione del settore.
È successo perché nel 2018 i decreti Turco e poi Sacconi hanno dato nuovo
slancio ai fondi sanitari, che si voleva si concentrassero su prestazioni non
garantite dal pubblico, come l’odontoiatria, l’assistenza socio-sanitaria e la
riabilitazione, ma poi si sono allargati. La normativa fiscale prevede la
deducibilità di quanto versato a enti o casse che si occupano di sanità
integrativa e man mano che venivano rinnovati i contratti collettivi veniva
inserito l’obbligo della sanità integrativa. Hanno così avuto un enorme
rilancio le mutue, soggetti no profit, che in cambio di una contribuzione
annuale garantiscono prestazioni in convenzione con le strutture sanitarie o
rimborsi. A queste si appoggiano i datori di lavoro o i lavoratori autonomi per
avere il welfare sanitario. Ovviamente le coperture variano molto a seconda di
quanto si versa. Ci sono contratti collettivi che prevedono 100 euro l’anno di
contributi, ma il ventaglio di prestazioni che spetta ai lavoratori è comunque
ampio anche se non tutti ne fruiscono.
Ma alle
mutue si può iscrivere anche chi non lavora, pagando sempre una quota annuale.
“Sono circa 1,5 milioni le persone che hanno scelto questa strada”, spiega
Massimo Piermattei, direttore della società di mutuo soccorso CAMPA e
presidente del Consorzio Mu.Sa., che raccoglie appunto le mutue specializzate
in sanità. Infine, ci sono le compagnie di assicurazione. Le polizze dei
singoli (sanitarie o infortuni) riguardano, stima Piermattei, circa 4 milioni
di persone. Il giro d’affari era di circa un miliardo nel 2021 e di meno di 700
milioni nel 2013. Anche in questo caso c’è stata una crescita, trainata da
persone che si possono permettere spese importanti, anche superiori ai mille
euro l’anno, per sottoscrivere una polizza. Non solo, il sistema del welfare
aziendale ha tirato dentro anche le compagnie di assicurazioni, alle quali
talvolta si rivolgono i Fondi di nuova costituzione che da soli non riescono a
gestire i grandi contratti di categoria con tanti dipendenti.
“Noi mutue
siamo diverse – spiega Piermattei – Siamo no profit, a chi ad esempio esce dal
mondo del lavoro continuiamo ad offrire assistenza dietro contribuzione
volontaria. Le polizze assicurative sanitarie di solito durano fino a 70 anni e
poi basta e comunque escludono la copertura di malattie preesistenti. Noi
cerchiamo di integrare il pubblico dove non arriva”. Il problema è che dietro
l’enorme sviluppo di questi anni delle forme integrative non c’è una regia e il
mercato non sempre è in grado di premiare i soggetti più virtuosi. “Il
sistema pubblico non può rinunciare al suo ruolo, ma il fenomeno della sanità
integrativa favorisce l’accessibilità alle cure sanitarie riducendo il divario
tra chi può spendere per fruire di prestazioni private e chi non ne ha la
possibilità”, dice Piermattei.
Il brutto esempio inglese
Al di là
degli aspetti economici c’è da farsi un’altra domanda riguardo
all’esternalizzazione di servizi sanitari ai privati. E cioè: come cambia la
qualità delle cure quando si coinvolge il privato in modo importante? Se lo è
chiesto la rivista Lancet, che ha pubblicato alcuni mesi fa uno studio a suo
modo dirompente. I ricercatori hanno valutato l’andamento della mortalità nel
Regno Unito, un Paese dove molti pezzi di sanità sono stati affidati al privato
dal 2012, quando il governo conservatore ha avviato una riforma (l’Health and
social care act) in base alla quale il “National health system” è stato
completamente ripensato. Si è osservato un periodo che va dal 2013 al 2020 e si
è visto che per ogni unità percentuale di attività sanitaria ceduta al privato
c’è stato in incremento di 0,38 cosiddetti “decessi evitabili” grazie a
tempestivi interventi sanitari, anche di prevenzione, ogni 100 mila abitanti.
Perché è
successo? Sempre secondo lo studio, tra l’altro, i fornitori a scopo di lucro
tendono a ridurre i costi, ad esempio abbassando il numero degli operatori.
Inoltre, ci potrebbe anche essere un meccanismo di selezione dei pazienti “più
redditizi” (per i quali il lavoro è meno complicato a parità di rimborso della
prestazione da parte del pubblico) creando di conseguenza una concentrazione di
casi complessi nel sistema sanitario nazionale. “Ricordiamo che tale meccanismo
strutturale è stato chiamato in causa nella situazione pandemica in Lombardia,
con una sanità privata di rilevante qualità, ma orientata ad attività
programmate e più remunerative e una conseguente debolezza delle strutture
pubbliche in cui si concentravano le attività intensive, con un conseguente
squilibrio fra domanda e disponibilità di posti letto”, spiega Marco Geddes da
Filicaia, esperto di sanità pubblica e collaboratore di Saluteinternazionale.
“Anche in Italia uno studio è arrivato a risultati analoghi: un incremento di
100€ pro capite di spesa sanitaria pubblica equivaleva a una riduzione
dell’1,47% della mortalità evitabile”, aggiunge Geddes. Il lavoro, realizzato da
ricercatori senesi, però è datato, risale a dieci anni fa e prende in
considerazione il periodo compreso tra il 1993 e il 2003. “E i decessi sono
solo la punta dell’iceberg in quanto sono solo gli eventi più catastrofici. Se
le morti evitabili aumentano, quanti sono i casi dei pazienti non adeguatamente
gestiti? Quali conseguenze per pazienti e famiglie in seguito ad un
peggioramento della qualità delle cure? Per molti politici che propugnano
il primato del privato sul sistema sanitario pubblico conviene analizzare i
dati e le ricerche scientifiche”, scrivono invece Gabriele Gallone, esperto di
statistica e epidemiologia, e Chiara Rivetti, segretaria regionale del
sindacato Anaao del Piemonte.
Lo scenario,
insomma, è piuttosto preoccupante. Anche se l’organizzazione sanitaria in
Italia è diversa da quella dell’Inghilterra, bisogna osservare bene cosa
succederà nella qualità dell’assistenza dei prossimi anni, quando senza cambi
di rotta l’attività sanitaria privata diventerà sempre più significativa. Per
il resto, la politica dovrà rispondere prima o poi alla domanda principale:
quanto vale la vita degli italiani?
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