Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni all’Università Statale di Milano, è forse il maggior esperto italiano sul tema delle migrazioni.
La scorsa settimana ha pubblicato sul quotidiano ‘Avvenire’ una serie di
proposte che riteniamo importante farvi conoscere in sintesi.
‘Bisogna partire da un dato: a dispetto delle vibranti campagne in difesa
dei confini, gli immigrati servono.
Sta accadendo in tutta Europa, anche perché dai Paesi dell’Est integrati
nell’Ue (Polonia, Romania, Bulgaria…) ormai non ne arrivano più, o comunque non
a sufficienza.
La contraddizione tra politiche dichiarate, all’insegna di slogan contro
l’invasione, e politiche praticate, che invece hanno riaperto agli ingressi per
lavoro, diventa particolarmente stridente nel caso italiano.
Da un lato, la coalizione al governo ha fatto della chiusura dei confini un
punto prioritario della sua agenda, una sorta di marchio di fabbrica, emanando
una ventina di decreti sull’argomento.
Dall’altro, ha attuato la più ampia apertura a nuovi arrivi di lavoratori
rilevabile in Europa, con 452.000 ingressi previsti in tre anni, più altri
10.000 offerti dall’ultima versione del decreto-flussi per occupazioni
nell’ambito domestico-assistenziale.
Quello che può essere definito il “paradosso illiberale”: alle chiusure
gridate fanno da contrappunto le aperture sussurrate, ma sostanziali.
E non basta, a superare il paradosso, dichiarare “li vogliamo scegliere noi”.
Un’auto-illusione l’idea che i datori di lavoro riescano a scegliere
lavoratori che risiedono a migliaia di chilometri di distanza.
O sono già qui, e il decreto-flussi serve a regolarizzarli, oppure i datori
(famiglie comprese) si fidano di qualcun altro, che intermedia il rapporto con
i candidati.
A parte l’illusione della scelta, il diavolo, come si usa dire, si nasconde
nei dettagli.
La procedura risale alla legge Bossi-Fini, è quindi vecchia di oltre
vent’anni. Non ha mai funzionato.
Il governo italiano ha riformato più volte le procedure, ma non è riuscito a
rendere il sistema delle chiamate efficiente.
Prima di tutto non ha voluto rinunciare alla grottesca lotteria dei
click-days, che stanno proseguendo in questi giorni: un sistema in vigore
soltanto in Italia, in cui fattori come la bontà della connessione, la rapidità
dell’accesso o semplicemente la fortuna determinano il successo della
richiesta.
La priorità delle istanze securitarie, inoltre, non solo determina una
gerarchia dei Paesi di provenienza in cui la collaborazione (teorica) nei
rimpatri conta più delle competenze professionali, ma obbliga anche datori e
candidati ad estenuanti procedure.
Il risultato è che i lavoratori non arrivano, o non arrivano quando
servirebbero, pensando alla stagionalità della maggior parte delle occupazioni
per cui sono chiamati: agricoltura, turismo, edilizia.
Per di più il sistema è congegnato in modo tale da dare spazio a finti
imprenditori e finti contratti.
Il governo li ha scoperti, facendone anche un’arma di propaganda, ma nel
frattempo ha imposto nuove verifiche e rallentamenti.
Da alcuni Paesi (Bangladesh, Pakistan, Sri-Lanka) i permessi sono stati
bloccati per mesi.
Il risultato finale è deludente.
Secondo il monitoraggio della campagna “Ero straniero” nel 2024 soltanto il
7,8% delle quote di ingressi ha dato luogo alla concessione di permessi di
soggiorno e all’accesso a impieghi stabili e regolari.
Per di più si è registrato persino un arretramento rispetto al 2023, quando
la percentuale, pur modesta, era stata quasi doppia.
Servirebbe quindi un atto di coraggio: abolire i click-days, stabilire una
lista delle occupazioni in sofferenza e autorizzare i datori di lavoro ad
assumere all’estero se in un arco di tempo ragionevole non si palesano
candidati residenti sul territorio.
Così si usa in Spagna, Francia, Germania.
Bisognerebbe poi ripristinare il sistema dello sponsor, eventualmente
coinvolgendo anche attori sociali disposti ad aiutare i nuovi arrivati a
inserirsi.
Infine, sarebbe opportuno introdurre un contributo a carico dei datori di
lavoro che richiedono gli ingressi, da girare agli enti locali dei territori
interessati, affinché investano in servizi di integrazione.”
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