Il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati dopo.
Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là
in cerca di risposte al mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una
moglie, due sorelle, soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla
violenza di apparati statali, direttamente o indirettamente responsabili.
Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto
Franceschi, Fausto Tinelli e “Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio
Saltarelli, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso
(e per le vittime della stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più
giovane di cinque assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di
nessuno” con molti compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio
Ceruso, Piero Bruno, Mario Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.
La maggior parte di loro non ha avuto una verità
giudiziaria. Lo Stato non si processa.
Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo
per evitare questo dolore insopportabile ad altre madri. Mai
più dicevamo.
Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha
incontrato i suoi assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a
Trieste, legato alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è
morto come George Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due
balordi fascisti ma la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e
poi ha inseguito i suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.
Stefania, che ha formato le Madri per Roma
città aperta, può raccontare la sua lotta per la verità dopo
l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a Varese, ha tanto
combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata processata lei, per
diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo fermare, la lista è
lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e Claudio Regeni,
fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla vita di tutte e
tutti i giovani del mondo…
Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre:
Licia Pinelli, Felicia Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice
e a lungo presidente delle Madri di Plaza de Mayo. So che in
Turchia le Madri del sabato cercano da molto tempo di avere
notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di essere ascoltate,
finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si uniscono,
all’interno del movimento Combattenti per la pace.
Sono ambientalista da sempre, è stato naturale per me
andare, seguendo le orme di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa.
Così ho incontrato le mamme torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego:
tutte noi ci siamo mosse dopo, per reclamare la vita dei nostri
cari. Le Mamme in piazza per la libertà di dissenso, invece,
sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche
se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel
libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di
attivist3” (Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il
sacrosanto diritto di non essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri
e amministratori. E di dirlo a voce alta.
Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie
esperienze, che cosa è cambiato: che differenza c’è tra la repressione agita
negli anni ’60 e quella di oggi. Anche allora polizia e carabinieri picchiavano,
e ammazzavano. Ricordo – vivevo a Milano – che nei giorni più caldi della lotta
contro la guerra in Vietnam dovevamo stare particolarmente attenti quando
arrivava la famosa Celere di Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava
allo scontro.
Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo
sciopero delle commesse della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto
a fare cordone; ai regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica,
abbiamo avuto paura ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è
arrivata: i manganelli penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero
dovuto aggredirci. L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce
sprezzanti ma niente da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano
proprio di sfondare la fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di
fronte a loro.
Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime
agli occhi al pensiero di quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini,
appunto. Mi è capitato raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna
dentro a una divisa. E ho imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che
nascondere un essere umano sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei
casi, a negare la sua individualità, la sua umanità, le sue capacità di
discernere e di scegliere. Essere usi a ubbidir tacendo può
risultare comodo, risparmia la fatica della decisione; per questo, io credo, fa
male all’intelligenza, e a volte può avvelenare l’anima.
È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel
2001 e in Valsusa e a Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si
sono mai fermati davanti a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché?
Hanno influito, in questo deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una
detenzione, naturalmente, ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che
garanzie può dare una poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude
soddisfatta “Uno a zero per noi”?!
In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso
forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica
a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la
guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non
essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di
centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli
di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire
da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente
e poter agire indisturbati dopo.
Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di
Emiliano Francesco Jacopo, delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per
le testimonianze. Perché spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse.
Prezioso perché contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo
solitamente e volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta
Dosio con il suo Fogli dal carcere (i molti testi che si
occupano di reclusione sono scritti per lo più da professionisti per altri
studiosi della materia).
Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di
punire la o il “ribelle” – prima ancora della condanna – con tutte le persone
di famiglia che subiscono, in un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento
su chi ha meno difese (affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai
distratti le manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci,
uccisi da una legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane
e inesperta, agli industriali.
Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le
manette, il braccialetto elettronico, il cellulare che ti accompagna
(certamente non per gentilezza) fino alla porta di casa. Mi viene in mente don
Gallo: Su la testa! ci spronava, ballando sul piccolo palco di
piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si devono vergognare ma chi li
persegue!
Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo
diffondere nelle scuole, suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia.
Nella mia vita ho visto molti ministri, nei governi di centro destra e di
centrosinistra, colpevoli di devastazione e saccheggio. Devastazione dei
territori e saccheggio del bene comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di
usare le leggi e leggere le carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto
amministratori pubblici interessati più al tornaconto della propria cricca che
alle necessità della cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti
lacchè umiliare la propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili
di falso.
Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il
nostro disprezzo. Sono le persone come quelle raccontate in questo libro la
ventata di aria fresca che, prima o poi, li spazzerà via.
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