domenica 20 giugno 2021

Le zucchine e il valore del comune - Massimo De Angelis

 

Sono qui a togliere erba dall’aiuola dove ho piantato quattro zucchine e sto pensando alla cura dell’orto. Curare l’orto è una cosa che sto facendo ogni giorno da un po’ di tempo, mentre mi godo il sole del tardo pomeriggio. L’orto ha bisogno di cura perché l’orto è qualcosa che scappa, ha una sua vita, una sua testa, e se scappa tu gli devi tener dietro, se vuoi mangiar qualcosa.

Scappa sempre lui, l’erba che cresce, circonda le piante, toglie ossigeno. E poi le lumache che improvvisamente circondano minacciosamente le tue preziose piantine dopo uno scroscio di pioggia, e poi le talpe che arrivano minacciando le radici e i ravanelli, e poi il troppo caldo, il troppo freddo, l’angolo del sole, e l’acqua (quanta acqua? da dove la prendo? La raccolgo dalle grondaie, o mi basta quella del pozzo?). E poi il concime (quanto? come? dove? quale? il letame? o il macerato di ortica?). Stare dietro all’orto vuol dire fare della governanza, ma è un governo che per essere tale deve accettare l’autonomia delle piante, il loro moto sistemico, e la loro finalità, che è quella di esistere, crescere e riprodursi. Quando stai governando le piante del tuo orto, stai prendendoti cura dell’orto, e ciò implica sempre delle scelte. Strappi erba per far respirare i pomodori, ma lasci quell’altra erba li perché è buona per il terreno, gli mette azoto e lo tiene più friabile (o almeno così mi hanno detto). Scegliere quanto e dove tagliare l’erba è una scelta che dipende dalla tua prospettiva, dal modello che vuoi utilizzare per orientare le tue azioni. Dove sto io, qui strappano tutto, fanno il deserto attorno alle piante dell’orto. Io seleziono, cerco di farle respirare, ma anche lasciare un po’ di bio-diversità e facilitare la sinergia tra diverse piante. In entrambi i casi stai curando l’orto. E la cura richiede in primo luogo il porsi degli interrogativi: questa pianta di zucchine qui davanti a me per esempio, perché è più brutta delle altre? Perché ha quelle due foglie gialle appassite mentre invece le altre sono tutte belle verdi? E allora la guardi, la osservi, e scopri poi che magari la terra attorno è stata pigiata da qualcosa, da qualche animale, o magari da te stesso mentre ti appoggiavi sull’aiuola per strappare l’erba. E allora decidi che forse è meglio zappettare attorno alla pianta, e allora ti metti a zappettare la terra attorno per dare alla pianta un po’ più di ossigeno, e fra qualche giorno devi tornare ad osservarla e valutare se la tua azione ha portato a qualche frutto, alla ricerca del feedback che ti sprona a correggere il tiro e a valutare il tuo modello interpretativo. Anche questo andare e divenire osservando, comparando, valutando, la chiave di volta della cibernetica, è parte della cura dell’orto.

È chiaro che nella cura dell’orto l’esperienza conta. Cos’è l’esperienza? È un’accumulazione di conoscenza, fatta di osservazioni, riflessioni, di studio e anche di confronto con altri. È una storia di domande che ti sei posto a fronte di problemi che hai incontrato, È l’aver navigato attraverso vari approcci e cercato una soluzione, una qualche risposta, almeno temporanea. E poi si dovranno anche valutare i risultati, se quella risposta sia stata effettivamente una soluzione a quel problema in quel dato contesto. Cosa ti da la conoscenza allora? Alla fine ti da una grado di anticipazione. Permette di trasformare il sistema che hai instaurato con la natura, o meglio con la nicchia ecologica con la quale interagisci attraverso la relazione di cura dell’orto, in quello che si chiama un sistema anticipatorio. Un sistema anticipatorio è per Robert Rosen un sistema che contiene dentro se stesso un modello di predizione di se stesso e del suo ambiente, e che perciò permette in un istante, e in accordo con il modello, di fare predizioni che appartengono a un altro istante.

In parole povere, io che nella mia cura dell’orto sto in rapporto sistemico con le piante, sto pure qui a riflettere sul perché e il percome delle foglie gialle delle mie zucchine, e so, grazie al mio modello interno maturato nel corso della mia esperienza, che se non faccio nulla la pianta non migliora anzi, magari non sopravvive. Ecco la mia predizione. Mi interrogo dunque sul cosa fare, mettendo così in moto altri modelli interpretativi, e facendo le mie selezioni, le mie scelte, che sono poi scelte di valore, di ciò che è buono e ciò che è male. Dunque il modello anticipatorio che ho messo in atto nel mio rapporto con le zucchine, non è molto diverso da quello che mettiamo in atto quando osserviamo con scetticismo i potenti della terra spendere belle parole sulla necessità di affrontare il cambio climatico, mentre posticipano di decennio in decennio le scelte drastiche e coraggiose che sarebbero richieste. La differenza, è che alla scala del mio orto, io come soggetto ho le capacità — almeno così spero — di affrontare la crisi della mia piantina di zucchine. Ma alla scala globale del cambio climatico, ci vorrebbe la formazione di un soggetto assai più potente, creata da una mobilitazione e articolazione di capacità e poteri assai più ampia. Perché sennò è facile anticipare che saranno guai, perché già lo sono.

Valore d’uso e valore d’uso per gli altri

Ora, chiediamoci perché io curo l’orto, perché faccio questa fatica? E qui parliamo di funzione, scopo, finalità, intenzionalità, tutti aspetti che fanno di me, insieme all’insieme delle capacità che riesco a mobilitare, un soggetto. Il mio scopo, o meglio, la finalità di questo sistema che ho instaurato con la nicchia ecologica che è il mio orto, è quella di avere un raccolto, un buon raccolto diciamo, nei limiti di quello che ho piantato e seminato, un buon raccolto sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo in modo da soddisfare i miei bisogni e quelli della mia famiglia/micro comunità. Questo credo sia il desiderio di qualsiasi persona che si dedica alla cura del proprio orto. E questo va bene, è la finalità principale. Però come in ogni attività di produzione dovremmo fare attenzione anche a un’altra finalità, perché se anche non ci facciamo attenzione, lei è li lo stesso. Qualsiasi processo di produzione implica il perseguimento di proprie finalità ma allo stesso tempo esso contribuisce — sia che i produttori ne siano consapevoli, sia che non lo siano — alla formazione del contesto entro il quale il nostro operato si svolge. Produrre significa agire su un contesto attraverso le molte scelte che si sono fatte, le molteplici interazioni (con sistemi sociali o naturali) che si sono portate avanti al fine di raggiungere appunto quella finalità produttiva principale, i nostri scopi. Il rapporto di cura significa e implica in primo luogo non solo voler soddisfare il proprio bisogno, cioè perseguire la propria finalità, ma anche essere consapevole di come la tua attività sta contribuendo alla creazione di questo contesto. Se la prima finalità è quella del valore d’uso, la seconda finalità è quella del valore d’uso per altri (che questi altri siano sistemi naturali o sociali non importa qui), cioè per ciò che forma il contesto della tua azione. Nel caso del mio orto, parlo del chiedersi come la propria attività influisca sulla nicchia ecologica, ma anche sui rapporti sociali/familiari.

Ma poiché nella mia cosmologia le diverse scale della vita sono tutte collegate, ciò che influisce su un contesto di nicchia avrà anche un effetto su ecosistemi via via più grandi attraverso continui scambi materiali e di informazioni. Il mio modo di produrre e relazionarmi nel mio spazio/tempo, avrà quindi effetti da me incontrollabili su contesti e i relativi spazi/tempi (e viceversa altri contesti hanno effetti su di me). È meglio quindi che io non usi pesticidi e concimi chimici, non solo perché alla lunga rovinerebbero la terra del mio orto rendendola meno fertile, ucciderebbero forme di vita molte delle quali mi potrebbero essere utili, contribuirebbero a inquinare falde acquifere e aumenterebbero la mia dipendenza al mercato capitalistico (proprio quando l’orto esprime il mio desiderio di scollegarmi almeno un po’ da esso), ma anche perché questi effetti non ricadrebbero solo nel mio ambito, nel mio contesto, ma anche nel contesto comune, di altri spazi/tempi e di altre scale. E anche se non conosco i volti di chi potrebbe pagare il conto del mio operato, mi sento comunque di essere responsabile.

Anche gli attori del capitalismo, con la produzione di merci, guardano alla produzione di valore d’uso per altri. In mano al venditore la merce è valore d’uso per altri, solletica i desideri di questi altri, li stimola e spesso li induce a scambiare il proprio denaro con questo valore d’uso. Ma per il produttore/venditore capitalistico questi altri sono importanti solo nella misura in cui essi sono potenziali clienti, solo nella misura in cui essi favoriscono la realizzazione del suo profitto. Oltre a questa dimensione, l’altro non solo è sconosciuto nel volto, ma anche invisibile nel suo contributo al contesto comune dell’esistenza, un’invisibilità che contribuisce alla sua svalorizzazione (si pensi a donne, migranti e lavoratori precari “essenziali”).

Credo sia ovvio dire che ogni attività produttiva contribuisce alla creazione del contesto nel quale tutti operano, un contesto comune. Nel rapporto produttivo di cura, il contesto prodotto è un contesto che fa parte della mia riflessione, della mia problematizzazione. Non è quindi più visto come esternalità (positiva o negativa), come “danno” o beneficio “collaterale”, ma è una modulazione diversa di internalità, un interno accresciuto, che si allarga in sfere concentriche, perché ciò che sta fuori l’ho fatto entrare nelle mie preoccupazioni, nelle mie anticipazioni, nella progettazione delle mie azioni, anche se so che è impossibile stabilire a priori tutti gli infiniti effetti del mio operato alla diverse scale (nella complessità del mondo esiste la non linearità e l’emergenza imprevista di nuovi stati sistemici).

Forme orizzontali e includenti di co-produzione e auto-governo

E comunque questo contesto lo produciamo collettivamente in vari modi, abbracciando un certo tipo di filosofia, di approccio al come produrre, piuttosto che un altro. Per esempio, il mio modo di rapportarmi alla cura dell’orto fa uso generalmente di un approccio agroecologico in senso molto lato. Da curioso praticante dell’arte dell’orto con tutti i miei limiti e paletti, navigo tra le varie scuole e tradizioni che incontro casualmente o mi vado a cercare e che fanno parte di questa costellazione agroecologica, anche se faccio i miei compromessi minimi con l’agroindustria perché alcuni semi li devo comunque comprare e non ho sempre a disposizione una banca del seme o una rete dei contadini, e no, non ho il tempo, la voglia e i mezzi per costruirmi la zappa o la pompa per l’acqua. Però anche abbracciando una filosofia produttiva, un approccio, mi inserisco nella sfera del comune creato da varie conversazioni e discorsi con le quali cerco di rapportarmi in modo da facilitare la mia riflessione per fare scelte concrete, ma consapevoli, nel mio operato.

Ma ci sono ben altri modi di produrre contesto. Infatti, un’attività produttiva di qualsiasi natura e a qualsiasi scala contribuisce alla creazione del contesto nel quale opera a seconda del tipo dei rapporti di cura adottati. Ora, poiché siamo tutti, per il bene o per il male, in questa condizione di creare contesto per altri, bisogna anche riconoscere che operiamo anche tutti in contesti diversi, con diverse capacità di mobilitare potere sociale e di prendere parola. Allo stato dei fatti e definito per uno spazio/tempo specifico, o una scala specifica, il comune non è altro che questo contesto co-creato dalle nostre molteplici attività produttive, sia che ne siamo consapevoli sia che non lo siamo. Se ci riflettiamo un po’ su, questo comune come contesto, è il risultato di forme di governanza del contesto comune disparate, a vari livelli e scale spazio/temporali, che avvengono in forme organizzative assai diverse: c’è una governanza fatta da un’insieme di gerarchie di comando nette e marginalizzanti; c’è una governanza che si basa su modelli di interazione competitiva per i quali qualcuno vince e qualcuno perde (cosa che stimola la corsa continua per la riproduzione delle nostre vite, e l’estrattivismo più bieco e distruttore); c’è la governanza che si svolge attraverso forme orizzontali e includenti di co-produzione e auto-governo, dove la gerarchia di comando è l’oggetto della satira e della lotta, e la competizione è il dominio di qualche gioco conviviale dove nessuno perde i suoi diritti e i suoi mezzi per vivere se perde. Il nostro comune come contesto del nostro fare, dal punto di vista sociale, è l’insieme di tutti questi diversi modi contraddittori di relazionarsi, di organizzare la cooperazione sociale. Se quindi ci sono i problemi che ci sono (e vi lascio pensare alle crisi del nostro tempo che preferite), è perché dentro questo comune come contesto c’è troppa egemonia delle forme di governanza che separano (competizione) e verticalizzano (gerarchia di comando). C’è bisogno di far crescere le forme orizzontali e includenti di co-produzione e auto-governo, a tutte le scale della società. Solo così si può affrontare la complessità delle grandi crisi croniche del nostro tempo.

Ecco quindi che affrontare la governanza del comune come nostra condizione richiede che il comune non sia solo condizione, non si può esaurire in questa condizione, ma sia anche progetto. Il nostro prendere atto di questa condizione è al tempo stesso mettere in moto i nostri modelli anticipatori, articolarli, riflettere sulle tendenze, metterci in rapporto ad esse e fare co-creazione consapevole di un modo di produrre del contesto del nostro diverso operato per cambiare quelle tendenze. È questo il desiderio di creazione di un contesto comune entro il quale siamo tutti liberi, ma allo stesso tempo riconosciamo che siamo tutti collegati e interdipendenti e che tutti abbiamo bisogno di vivere con dignità. Il comune come progetto parte dunque dal comune come contesto, per cambiarlo. È in questo sforzo collettivo, riflessivo e inclusivo, che si da la produzione specifica del valore da parte del comune. Il comune che crea valore non è più solo contesto, e non è più solo progetto. è un modo di produzione di un nuovo contesto di vita, orientato dal suo progetto in divenire. Ed ecco quindi che il comune crea valore proprio quando contribuisce virtuosamente alla creazione di contesto— con i suoi circuiti produttivi, le sue relazioni inclusive e orizzontali, la sua profonda capacità democratica, la sua sensibilità ambientale e dei rapporti di potere.

È incredibile quali sinapsi si accendono e quali tangenti si percorrono riflettendo sulle zucchine. Dovrò riguardarmi il mitico film con Peter Sellers, Oltre il Giardino.

da qui

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