martedì 22 giugno 2021

I nostri antenati: delfini e balene - Marco Belpoliti

A vederlo non ci si crede. Uno dei primi antenati del delfino è un mammifero con il muso simile a un topo, quattro gambe e una lunga coda, e le unghie come un cervo. Si chiama Indohyus. Prove molecolari ci dicono che sarebbe il precursore dei cetacei, e perciò anche delle balene. Apparteneva alla famiglia degli artiodattili, animali con un numero di dita pari, nota come Raoellidae. Quando veniva minacciato si gettava in acqua sulle coste della Tetide, l’oceano che esisteva a quel tempo, 48 milioni di anni fa, di cui restano secondo alcuni studiosi delle vestigia nel mar Caspio e nel Mediterraneo. Allora un comune gruppo di antenati terrestri viveva in zone paludose con canali fluviali, prima di passare definitivamente al mare. Se vogliamo andare più indietro, a 53 milioni di anni, nell’Eocene, ci sono i pakicetidi. Tutte le particolarità di questi animali si ritrovano oggi nei delfini: nuotatori provetti, narici a fessura, struttura delle ossa dell’orecchio e i denti triangolari e seghettati. Qualche anno fa in Pakistan sono stati reperiti dei resti fossili di un mammifero che è un incrocio con un coccodrillo, Ambulocetus. Insomma i nostri delfini attuali sono gli eredi di animali remotissimi di cui conservano alcune caratteristiche peculiari. Gli zoologi, poi, sostengono che l’animale terrestre maggiormente imparentato con loro è l’ippopotamo, che trascorre molto tempo in acqua e che si è adattato a una situazione che ha finito per plasmare i delfini e le balene così come oggi ci appaiono. Circa 35 milioni di anni fa gli animali che chiamiamo oggi delfini abbandonarono la terraferma per diventare creature marine.

 

Come scrive Alan Rauch, studioso di biologia, e oggi insegnante di inglese nella università della North Carolina, in Il delfino (tr. it. di Fiorenza Conte, Nottetempo, pp. 281), la loro sembrava una mossa evolutiva con pochissime possibilità di riuscita, invece ha funzionato. Del resto noi veniamo da lì, dal mare, e per diventare quello che siamo diventati ci siamo ancorati saldamente alla terra, al suolo asciutto. I delfini e le balene hanno fatto il contrario e ci sono riusciti. 10 milioni di anni dopo sono diventati le creature eleganti, leggere e saettanti nel mare e nei fiumi del Pianeta che amiamo. E sono, nonostante la caccia che gli abbiamo dato per millenni, sulla cresta dell’onda, non solo in senso figurato. Se poi si pensa che i nostri antenati diretti cominciano a emergere dal magma del passato solo 2 milioni di anni fa per diventare l’Homo sapiens iniziale, si capisce quanto siamo distanti anche temporalmente da questi nostri cugini cetacei. Eppure, scrive Rauch, per quanto uomini e delfini si siano evoluti nell’ambito di due diverse solitudini, i delfini sono tra gli animali più amati nel corso della storia dell’umanità. Non come i cani e i gatti, ma poco ci manca; e solo perché non siamo noi stessi animali acquatici, anzi spesso temiamo l’acqua; questo ce li rende misteriosi, oltre che dei beniamini, soprattutto per i bambini.

 

A quale ordine appartengono i Delfini? Sono Cetacei, ovvero dei mammiferi marini, che dividono in due grandi specie: Misticeti e Odontoceti. Senza inoltrarci troppo in queste tassonomie, che hanno un loro indubbio fascino e che sono anche in grande movimento (le tradizionali classificazioni sono state messe in discussione dalla tassonomia cladistica e dalle tecniche molecolari), gli Odontoceti, cui appartengono i delfini, sono mammiferi d’acqua provvisti di denti e di un unico sfiatatoio e privi di fanoni come invece i Misticeti (si veda Hasoram Shirihai e Brett Jarret, Balene, delfini e foche, tr. it. di Melani Traini, Ricca editore). Esistono dieci famiglie e i Delfini Oceanici e gli Zifidi sono le più grandi per numero di specie; mentre il capodoglio, anche lui un Odontoceto, costituisce invec una famiglia a sé. Poi ci sono quelle dei Delfini di fiume: Beluga e Narvalo (2 specie), Focene (6 specie) e Delfini (più di 36 specie e 17 generi, e ogni anno se ne scoprono di nuove). La storia dell’evoluzione dei mammiferi è affascinante e sorprendente, come sa chi è appassionato di questi temi.

 

I primi mammiferi si sono evoluti da un gruppo di rettili chiamati Sinapsidi circa 125 milioni di anni fa (anche qui i cambiamenti di definizioni e le scoperte di fossili sono continue). I mammiferi hanno cinque principali caratteristiche: respirano aria, hanno una peluria sul corpo, che serve anche come elemento tattile (le vibrisse, ad esempio); hanno un cuore a quattro camere, che mantiene una temperatura costante in tutto il corpo; si riproducono attraverso una struttura placentare invece che usare l’uovo esterno, per cui partoriscono i piccoli vivi e completamente formati; allattano la prole con il latte prodotto dalle femmine attraverso le ghiandole mammarie. Per molti secoli i delfini sono stati considerati alternativamente pesci o mammiferi. Anche qui, senza entrare nei dettagli anatomici, sia le balene che i delfini sembrano senza peli, totalmente glabri, invece visti da vicino hanno follicoli peliferi e alcune specie persino dei baffi. Passando a vivere nell’acqua hanno trasformato nel corso di milioni di anni la loro forma per fare meno attrito possibile. Sotto la pelle hanno un tegumento, che è uno strato di grasso che contiene dei lipidi e collagene: una vera tuta isolante; così le ghiandole mammarie sono nascoste sui lati; mentre il pene è dentro il corpo ed esce durante l’accoppiamento attraverso una fessura. Rausch spiega nel suo saggio come fanno ad allattare i piccoli, come respirano e dove hanno l’ombelico. Tutte cose stupefacenti. Gli occhi poi sono un capolavoro.

 

Come riescono a vedere nell’acqua salata dato che non sono pesci? Sono anche in grado di mutare la forma normalmente piatta in sferica, così da avere una visione stereoscopica in avanti e di lato, e facendo sporgere leggermente gli occhi dalle orbite quando escono dall’acqua. Mentre tutti i mammiferi normalmente dormono chiudendo tutti gli occhi, i delfini hanno un occhio aperto nel sonno, e hanno la capacità di mettere in uno stato di riposo metà cervello alla volta, poiché a differenza degli altri mammiferi non respirano in modo automatico (in noi è il sistema nervoso detto vago a farci respirare in automatico mentre riposiamo addormentati). Insomma, sono pieni di sorprese per chi li ha studiati a lungo. Ma quanto sono intelligenti i delfini? La risposta non è facile, perché le loro capacità cognitive sono comprensibili dentro un contesto ambientale, ed è stato possibile studiarli solo in cattività, in una situazione in cui forse solo la loro fisiologia e anatomia è analizzabile in modo compiuto. L’oceano, scrive Rauch, non è uno spazio omogeneo, e zone d’acqua vicine sono spesso differenti, così come lo sono i territori di una regione: tra montagna e pianura c’è una bella differenza; le zone del mare sono diverse in termini di temperatura, salinità, effetti prodotti dalla profondità e altre variabili ancora. I delfini sono animali molto sociali; si spostano a branchi composti da 15 a 600 esemplari; la loro socialità è definita come “fissione-fusione”. Il gioco è una componente molto importante del loro comportamento, ed è questa la ragione che li fa molto amare dagli umani.

 

Uno degli aspetti che appare importante nel loro comportamento è la ecolocalizzazione, ovvero l’uso di suoni – i bisonar – con cui navigano nel mare. Solo a metà del Novecento uno zoologo, Donad Griffin, segnalò l’uso del sonar nei pipistrelli, per quanto il primo scienziato a sperimentarlo con cognizione fu Lazzaro Spallanzani nel Settecento, ma non fu preso in considerazione. Nel momento in cui Griffin stava per pubblicare le sue ricerche, altri studiosi si dedicavano agli ultrasuoni dei delfini: una scoperta recente. Con questi stessi mezzi comunicano tra loro all’interno del gruppo. Il sistema anatomico che produce i suoni fa capo alle cosiddette “labbra foniche”, che sono delle sacche poste nelle narici. Il fischio esce attraverso lo sfiatatoio mentre altri segnali sono emessi sotto forma di ecolocalizzazione. Il modo con cui li ricevono e ascoltano passa attraverso la mandibola inferiore, e giungono alla testa che è ben isolata; i suoni sono assorbiti da ogni orecchio separatamente. Qualcosa davvero di particolare e di molto raffinato e preciso. Il fatto fondamentale è che i delfini si muovono in un elemento, l’acqua, molto più denso dell’aria dove ci muoviamo noi, e quindi con una forte prospettiva tridimensionale. Questo ha fatto evolvere in questo modo la parte anteriore del loro corpo. L’uomo che ha più studiato questi aspetti dei delfini, sino a cercare di delineare una definizione del loro linguaggio, e insieme la possibilità di comunicare con gli umani, è John Cunnigam Lilly (1915-2001).

 

Questo neuroscienziato ha studiato fisica, medicina e informatica, e si è occupato delle capacità del cervello dei cetacei di sviluppare l’intelligenza e il linguaggio. Lilly, uomo ecclettico, si è occupato anche di psicoanalisi. I suoi primi esperimenti si svolsero intorno a un oggetto, una piccola piscina, detta “vasca di deprivazione sensoriale”, piena di acqua salata, dove le persone, lui stesso e i suoi collaboratori, potevano galleggiare varie ore isolati da tutti gli stimoli che il cervello poteva ricevere. Negli anni Cinquanta ha compiuto anche esperimenti con l’LSD, poi si è dedicato allo studio dei delfini. A San Thomas nelle Isole Vergini ha fondato il Communication Reasearch Institute, che aveva lo scopo di promuovere la comunicazione tra umani e cetacei, passando dalla metodologia di tipo scientifico fondata sul metodo quantitativo, a quella basata su esperienze qualitative. Lilly e i suoi aiutanti vivevano praticamente insieme ai delfini. Si tratta di una ricerca di tipo empatico in cui Konrad Lorenz è stato un pioniere, e poi anche Jane Goodall, che si è dedicata agli scimpanzé. Allora era sicuramente una novità e in particolare con un mammifero che vive in un ambiente molto diverso dal nostro. Lilly ha scritto due libri tradotti anche in italiano: La comunicazione tra l’uomo e il delfino (Cesco Ciapanna, Roma 1981) e L’intelligenza dei delfini (Iduna, Sesto San Giovanni 2018), dove è ricostruito il suo lavoro con questi meravigliosi abitanti del mare. Ha esaminato il meccanismo del sonno, poi le vocalizzazioni, quindi ha provato a insegnare ai delfini a imitare i suoni umani.

Nelle sue ricerche si convinse delle possibilità di comunicazione telepatiche tra uomini e animali. Per questo il suo lavoro pioneristico fu messo al bando dalla scienza ufficiale. Ci sono ben due film dedicati a lui, una figura carismatica e molto discussa negli anni Sessanta e Settanta: Il giorno del delfino (1973) con George C. Scott che interpreta Lilly e Stati di allucinazione (1980) con William Hurt nella parte di un personaggio ispirato al neuroscienziato, che nella pellicola usa droghe e le vasche di isolamento per i propri esperimenti. Dopo queste ricerche così eterodosse e ispirate alle trasformazioni culturali degli anni Cinquanta, la ricerca sui delfini è ritornata a standard più tradizionali e sul nome di Lilly è caduto un interdetto, per quanto i più noti studiosi, David e Melba Caldwell, autori di Cetology, la prima sintesi sul tema, fossero perfettamente a conoscenza delle esperienze del neuroscienziato americano. Alla fine dei suoi studi, Lilly, conscio che i delfini che studiava erano prigionieri di un ambiente chiuso, convinto che possedessero una intelligenza molto sviluppata, li liberò e chiuse il suo centro.

 

Non è l’unico che ha professato idee simili sui cetacei. Hal Whitehead, ricercatore marino, studioso delle balene, sostiene da tempo che l’area del cervello dei capodogli addetta ai processi mentali e sensoriali consci è molto estesa e che la neocorteccia, associata nei primati alla competenza sociale, appare notevolmente sviluppata. In Sperm Whales: Social Evolution in the Ocean (University of Chicago Press), pur in assenza di prove sperimentali, molto difficili da ottenere viste le condizioni in cui vivono questi cetacei, e per via delle loro dimensioni, sostiene che le balene possiedono una memoria ampia, e manifestano una propria cultura, ovvero che raccolgono informazioni attraverso le loro interazioni sociali, che usano per adattarsi all’ambiente marino così complesso. In più avrebbero sviluppato emozioni, concetti astratti e, a suo dire, persino una religione. Laurie Anderson, l’artista americana, ha dedicato una performance a Lilly nel 1995, dove parla di lui: “John Lilly, l’uomo che dice di saper parlare con i delfini, raccontò che era in un acquario e parlava con una grande balena che nuotava in tondo nella sua vasca. E la balena continuava a fargli domande telepaticamente. E una delle domande che la balena continuava a fargli era: in tutti gli oceani ci sono muri?”. La caccia alle balene ha segnato drammaticamente per questi cetacei la storia della stessa marineria europea e americana degli ultimi due secoli. “Pull my boys! Sperm, sperm’s the play!”, così urla Starbucks, il primo ufficiale del Pequod, ovvero “Vogate ragazzi! L’olio, l’olio è la posta!”, che può essere tradotto: “Tirate, ragazzi miei! Lo sperma, è lo sperma che conta!”. Moby Dick di Melville, pubblicato nel 1851 senza alcun successo in Gran Bretagna e Stati Uniti, rivela nelle parole del marinaio della nave maledetta il sottofondo taciuto della caccia a questo animale ancestrale, che solca i mari. La balena viene direttamente dalla Genesi, scrive Philip Hoare in Leviatano ovvero la balena (tr.it. di D. Sacchi e L. Civalleri, Einaudi), è “un mito del quinto giorno”, secondo la poetessa Mary Oliver, capace di inghiottire profeti come Giona e marinai come Sinbad: “simboleggia l’innocenza in tempi di pericolo”. Le prime tracce di questa creatura risalgono a 50 milioni di anni fa. Il cetaceo cacciato da Achab deriva dal Pakicetus, un quadrupede dalla corporatura volpina, cui seguirono le lontre gigantesche e altri generi di “balene ambulanti”.

 

La balena è stata scoperta da europei e americani nel 1712 quando è diventata oggetto delle nostre scorribande. Un animale degno dei mostri dell’Apocalisse, il libro che descrive gli ultimi giorni del mondo. La leggenda dei primi balenieri narra che la nave di Christopher Hussey, trascinata dal vento oltre i limiti della consueta pesca a Nantucket, scoprì in quell’anno il capodoglio e iniziò a predarlo. Fu Richard Owen, l’inventore del termine “dinosauro”, che vide per primo i resti di quella creatura che precedeva l’età adamitica, e che chiamò Zeuglodonte, “una delle creature più straordinarie che i mutamenti del globo avessero cancellato”. Da lì vengono le balene. Circa 35 milioni di anni fa pensarono bene di abbandonare gli archeoceti, destinati all’estinzione, e si divisero, come si è detto, in quei due rami dei Misticeti e degli Odontoceti. Nella moderna tassonomia dei mammiferi marini ci sono due grandi gruppi: Cetacea e Pinnipedi. Sono Misticeti le Balene franche, le Balenottere, la Balena grigia e la Caparea, mentre è un Odontoceto il Capodoglio, di cui esistono 3-4 specie diverse, un animale unico, a sé. Questo è l’oggetto della caccia senza fine di Achab. Possiede una forma bizzarra con una colossale testa squadrata così grande da contenere al suo interno perfino un’automobile; scende sino a 3 chilometri sotto la superficie dei mari sfruttando il suo organo degli spermaceti, oggetto del desiderio dei predatori, che lei usa come strumento di ecolocalizzazione nel buio; ha una organizzazione sociale molto complessa, paragonabile a quella umana, basata su fattori come l’età e il sesso. Come scrive Hoare, è stata la spinta idrostatica dei flussi oceanici ad aver consentito alle balene di evolvere sino a diventare i possenti animali che conosciamo. Nei mari del mondo gli Odontoceti si nutrono in modo classico usando i denti, mentre i Misticeti pascolano setacciando i loro bocconi che restano imprigionati dai fanoni.

 

Il capodoglio avvistato nel Settecento da Hussey è il più grande carnivoro esistente, più grande ancora di ogni dinosauro esistito e, seppur immerso nell’acqua, non beve mai. Nel corso di trecento anni d’implacabile inseguimento negli oceani e nelle acque artiche l’animale antidiluviano è stato quasi sterminato. Così come i cowboy di terra uccisero sessanta milioni di bisonti, i cowboy di mare con le loro navi-mattatoio hanno predato oltre settecentomila cetacei appartenenti alle diverse famiglie. Una storia cruenta che s’incentra su quel prezioso olio-sperma. Nel 1833 la filiera della pesca occupava settantamila uomini solo negli Stati Uniti e valeva settanta milioni di dollari; dieci anni dopo era il doppio. In quel periodo gli Stati Uniti esportavano in Europa quattro milioni di litri d’olio l’anno. Possiamo ritenere a ragione che la fortuna della Gran Bretagna imperiale si sia fondata su due cose: la tratta degli schiavi per lo zucchero e l’uccisione delle balene per l’olio. Londra, la città meglio illuminata del mondo, aveva nel Settecento cinquemila lampioni che bruciavano quel prezioso liquido. Il cetaceo più cacciato del globo è programmato per vivere a lungo – ha dieci battiti cardiaci al minuto – e si riproduce con molta lentezza: le femmine partoriscono un solo piccolo alla volta ogni quattro-sei anni e li nutrono per due anni con un latte che, come dice Ismaele in Moby Dick, è molto dolce e ricco e sarebbe perfetto accompagnato con le fragole. Le balene comunicano tra loro in modo complesso, si organizzano in clan e comunità, condividendo lingue e dialetti.

 

Decimando i più antichi capodogli della Terra, si chiede Hoare, cosa abbiamo perso? Una parte della memoria ancestrale del mondo, lingue sconosciute, codici semisconosciuti di comunicazione, un pezzo non più recuperabile della storia del nostro Pianeta che, da quando l’abitiamo noi, dall’età detta Antropocene, perde ogni giorno pezzi della propria fauna e flora. Al termine della sua caccia Achab scaglia l’arpione contro la Balena bianca: “Così! Lancio il lancione”. Ma la fune s’attorciglia intorno al suo collo e il capitano viene strappato dalla lancia. L’equipaggio lo vede inabissarsi avvinto al fianco bianco dell’animale. Questo torna indietro e affonda il Pequod. Le acque inghiottono tutti tranne Ismaele, affinché potesse tornare a raccontare il folle inseguimento della balena. Un’artista italiana, Claudia Losi, ha pubblicato di recente un libro, The whale theory (Johan&Levi), dedicato alla balena, dove racconta un suo progetto sviluppato nel corso degli anni, che contiene molte informazioni di ordine antropologico, oltre che scientifico, e interventi di vari studiosi di questo animale. Nella storia umana e nella mitologia i delfini appaiono invece come un simbolo decisamente positivo: emblema di libertà, gioia e gioco. Nelle leggende di molti popoli sono presentati come animali socievoli, a proprio agio con gli umani.

 

Di più, spesso sono nient’altro che esseri umani trasformati in cetacei da malefici o da incontri inattesi con divinità o esseri malvagi. Sembra che questi miti ripercorrano in forma figurata il passaggio dei loro antichi progenitori dalla Terra al Mare. Appaiono poi come creature magiche sovente collegate ad aspetti sessuali: possono trasformarsi a loro volta in esseri umani per sedurre le donne. La metamorfosi dei cetacei è un dato presente nelle storie dei popoli amerindi e del nord del Pianeta, dove i delfini appaiono nelle fantasie e nei sogni collettivi di queste popolazioni. Una delle prime raffigurazioni che conosciamo del delfino è nella civiltà minoica cretese nel Palazzo di Cnosso, che fu abitato tra il 1700 e il 1400 a.C.; qui sono presentati nel loro aspetto naturale, senza uomini che li cavalchino o presenze divine. Rappresentano spesso la perizia marittima delle navi prima greche e poi romane. Le storie più antiche nella mitologia greca riguardano l’oracolo di Delfi. Apollo, che con l’uccisione di un serpente si intitolò il tempio della città prima dedicato a Gaia, è detto in alcuni casi Delfinio. La parola “delfino” deriva dal greco delphys, che significa “utero”, perché probabilmente era già nota ai greci la prerogativa dei cetacei di partorire dal proprio utero piccoli vivi; esiste anche una connessione tra questo nome e il sesso femminile degli oracoli posti nei santuari, che elargivano risposte agli interrogativi dei pellegrini che vi si recavano. I delfini sono legati al tema del suono, segno che gli antichi avevano compreso il nesso tra loro e l’emissione di suoni misteriosi. Molte storie raccontano di esseri umani gettati in mare da navi o sbalzati fuori bordo per le tempeste, e salvati dai delfini.

 

Ancora nel 1999 un bambino cubano, sopravvissuto a un naufragio nel corso di un tentativo di fuga dall’isola raccontò ai suoi soccorritori di essere stato portato a riva dai delfini. Il mito continua ancora oggi ad alimentare fatti straordinari con i cetacei come protagonisti. Tutte queste storie sono un tentativo di “cogliere un aspetto della socievolezza, dell’intelligenza e di quell’agio apparentemente naturale esibito con gli esseri umani” (Rauch). Uno dei simboli più noti nell’arte della stampa è quello proposto nell’emblema di Aldo Manuzio, il grande editore veneziano, in cui compare un delfino intrecciato a un’ancora e associato a un motto, “Festina lente”, ovvero: “affrettati lentamente”. Questo stesso simbolo, forse non a caso, è stato scelto da Italo Calvino come proprio motto in una delle sue Lezioni americane. I delfini dunque non nuotano solo liberi negli oceani, ma abitano i nostri miti e costituiscono un’immagine positiva di prudenza, saggezza e agilità. Riusciremo a rispettarli e a non perseguitarli come hanno fatto nel passato le navi che cacciavano balene per i mari del mondo? Tra il 1972 e il 1994 sono stati catturati oltre 2000 delfini per rinchiuderli in acquari e vasche, destinati al divertimento del pubblico adulto e dei bambini. Ancora oggi nel mondo ci sono 200 oceanari che li ospitano, per lo più sono tursiopi e stenelle, così che ci sono oltre 1000 delfini in cattività. Un numero ancora troppo grande.


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