venerdì 15 marzo 2019

Un nuovo movimento globale - Francesco Martone



C’è voluta la mite determinazione che ha portato una ragazza svedese, Greta Thunberg, sa scioperare ogni venerdì per smuovere finalmente l’attenzione dell’opinione pubblica e dei decisori politici sui cambiamenti climatici?  Indubbiamente il climate strike sta diventando un movimento pulviscolare quasi globale. Sono le nuove generazioni che finalmente si riappropriano del futuro, per prendersi cura della Madre Terra consegnata loro in pessima salute dai loro genitori. Basta vedere la mappa delle iniziative previste in oltre 40 stati in ogni parte del mondo per il  15 marzo.
Il significato di queste mobilitazioni, tuttavia, va inquadrato in un contesto più ampio, che vede la proliferazione di iniziative a vario livello tutte centrate sull’urgenza di evitare la catastrofe climatica e sulla volontà di chiamare i decisori politici alle loro responsabilità. Non si parte da zero, non ci troviamo di fronte ad un’onda anomala.  Questo 15 marzo può assumere un significato davvero dirompente, a maggior ragione se – a casa nostra – viene letto in relazione alla mobilitazione del 23 marzo contro le grandi opere imposte e per la giustizia climatica. Per evitare che la sua forza si dissolva nelle solite promesse da mercante, o in risposte di comodo che non scalfiscono lo status quo, è necessario collocare il climate strike nel contesto politico e nel quadro più ampio di iniziative che da anni impegnano movimenti globali e comunità locali. Accanto a quest’inedita presa di parola delle giovani generazioni riprende ad esempio quota negli Stati uniti il dibattito sul Green New Deal grazie all’iniziativa di un’altra donna, neoeletta al Congresso, Alexandra Ocasio-Cortez, ispirata da  una forte matrice socialista con un approccio ecologista, che potremmo definire eco-laburista. Un Green New Deal che prevede la transizione giusta verso l’economia decarbonizzata, che i sindacati globali chiedono da anni ai paesi che s’incontrano alla Conferenza Onu sui cambiamenti climatici. E che oggi torna con forza nelle agende politiche non solo di oltre oceano ma anche nel percorso verso le prossime elezioni europee.
Sul Green New Deal ci sarà molto da approfondire, come già evidenziato dall’interessante dibattito che si è sviluppato negli States e che ha messo d’accordo centinaia di organizzazioni ed associazioni che in questa proposta hanno trovato finalmente il grimaldello che potrebbe scardinare l’ostinata resistenza delle lobby petrolifere ora rappresentate dall’amministrazione Trump di avviarsi verso l’abbandono del fossile. E quindi di impegnarsi a tenere i combustibili fossili sotto terra, giacché in ultima analisi, come ricordano i movimenti dei nativi quali Indigenous Environmental Network, quella dev’essere la strada.
Così non è ancora, anzi le multinazionali statunitensi sembrano intenzionate a aumentare il volume di estrazione di combustibili fossili convenzionali e non. E poi la nascita di Extinction Rebellion, movimento di resistenza popolare ed azione diretta nonviolenta nato in Inghilterra e che si sta insediando anche in Italia e che il 15 aprile rilancerà in una giornata di azione globale le sue tre parole d’ordine semplici e chiare: che i governi dicano la verità sullo stato del pianeta, che si impegnino a ridurre le emissioni allo zero netto entro il 2025 e che venga convocata un’assemblea dei cittadini per decidere democraticamente il da farsi. 
Tre fatti relativamente recenti, lo sciopero climatico, il rilancio della giusta transizione e del Green New Deal ed Extinction Rebellion che – accompagnati da atti concreti – possono dare a questo appuntamento del 15 marzo il senso di un rilancio di un movimento globale, plurale che da varie prospettive va diffondendosi. Il contesto è quello dettato dalla scienza, dall’ultimo rapporto dell’Ipcc reso noto a ridosso della Conferenza delle parti (Cop) Onu di Katowice in Polonia. Un rapporto che riafferma l’urgenza di misure drastiche per il contenimento dell’aumento della temperatura a 1,5 gradi e che la Cop non ha avuto la capacità e la determinazione politica di far proprio come cornice di riferimento per l’attuazione degli impegni presi alla Cop di Parigi di cinque anni fa. Vista dall’alto, un ennesimo fallimento. Visto dal basso da un’altra prospettiva il quadro cambia. Sulla spinta della resistenza di comunità alle grandi infrastrutture, e delle mobilitazioni e della pressione internazionale cresce infatti il numero di compagnie di assicurazioni istituzioni finanziarie e governi che decidono di disinvestire dalle attività di esplorazione e sfruttamento di combustibili fossili.
Si calcola che nel solo 2018 il valore dei fondi di investimento che hanno deciso di uscire dal fossile sia pari a 6 trilioni di dollari, con circa 1000 investitori che si sono impegnati in tal senso. Indubbiamente la parte del leone la gioca il settore delle assicurazioni, seguito però da paesi come l’Irlanda, o da città come New York, seguita da Londra. Come in un ricorso storico, la campagna per il disinvestimento partì dai campus statunitensi e oggi il Climate Strike parte dalle scuole e dagli studenti.  Aumentano anche i casi di ricorso alla giustizia per condannare stati ed imprese per crimini ambientali connessi ai cambiamenti climatici: oltre 100 in vari paesi del mondo lo scorso anno, una strategia di uso creativo del diritto per riaffermare i diritti dei popoli e della natura. Su tutto ciò Blockadia, la comunità globale che nei territori di mezzo mondo, dal Salento alla Val Di Susa, dall’Inghilterra, al Canada all’Amazzonia, resiste all’avanzare della frontiera estrattivista, ultima riconfigurazione del modello capitalista. È un fattore da tenere sempre a mente, poiché senza un cambio radicale di sistema o come di diceva in passato, di paradigma, non sarà possibile alcuna soluzione autentica, reale, e giusta ai mutamenti climatici.

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