Il traffico di organi è
un fenomeno sommerso che prospera sulle fragilità di migranti e rifugiati. Ogni
anno, migliaia di persone sono costrette a vendere parte del loro corpo per
cercare di sfuggire a violenze e povertà. Un reportage restituisce loro la voce
e getta luce sulle reti criminali che traggono profitto da questo mercato
oscuro.
Il traffico di organi è un business globale
Dal 1987, la compravendita di organi è
vietata in tutti i paesi del mondo, ad eccezione dell’Iran. Tuttavia, lo
sfruttamento delle persone più vulnerabili continua a far crescere questo
mercato illegale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della
Sanità, fino al 10% dei trapianti a
livello globale avviene illegalmente, un dato che potrebbe essere ancora più
alto, vista la difficoltà nel denunciare tali crimini.
La crescente domanda di organi, specialmente reni, con circa il 10% della
popolazione mondiale affetta da malattie renali, si scontra con una carenza
cronica di donazioni altruistiche e un sistema sanitario sempre più inefficace. Per
soddisfare la domanda di trapianti ne servirebbero 15 milioni ogni anno.
Di conseguenza, molti pazienti in Nord America, Europa e nei paesi del Golfo
cercano alternative nel mercato nero, alimentando un traffico che genera
oltre un
miliardo di dollari l’anno. Questo rende il traffico di
organi uno dei business illegali più remunerativi.
Dalle cliniche all’ombra del mondo: dove avviene
il traffico
I principali centri del traffico di organi
si trovano in paesi come Pakistan, Egitto, Bangladesh e Cina, ma la rete si
estende su tutto il continente africano e asiatico. Qui, migranti disperati e
in fuga da guerre e povertà vengono attirati dalle promesse di facili
guadagni. Sono vittime perfette a causa del loro stato precario di
richiedenti asilo, rifugiati o migranti senza documenti e spesso vengono
doppiamente ingannati non ricevendo il compenso pattuito. Le storie di
coloro che sono stati costretti a vendere parte del proprio corpo per
sopravvivere sono un grido d’aiuto che spesso rimane inascoltato.
Le voci dei protagonisti
Seán
Columb è
un docente di legge all’università di Liverpool, specializzato in crimini
transnazionali. Da anni si occupa di traffico di organi e le sue investigazioni
sono state pubblicate dai maggiori media mondiali. Nel suo ultimo reportage
intitolato “For me, there was no other choice’: inside the global
illegal organ trade” (Per me non c’era altra scelta: dentro il
commercio illegale globale di organi), pubblicato dal Guardian, racconta le storie
di chi, ormai rimasto senza speranze, è caduto nella rete del traffico di
organi. I nomi sono di fantasia.
Yonas: il prezzo della libertà
Yonas viene dall’Eritrea, lì ha lasciato
la sua famiglia, che spera di aiutare una volta raggiunta l’Europa. Ci ha già
provato tre volte: una volta passando dall’Egitto, due dalla Libia. Tutte le
volte gli è andata male. È stato arrestato e costretto a pagare per essere
rilasciato, nel deserto, sperando di non essere catturato di nuovo. I
centri di detenzione per migranti, finanziati dall’Unione Europea, sono luoghi
di tortura e sfruttamento. I detenuti sono privi di protezione legale e la
loro unica via d’uscita consiste nel pagare ricche tangenti alle guardie.
Così Yonas si è ritrovato ad annegare nei
debiti. L’unica soluzione rimasta a disposizione quella di vendere una parte di
sé. È al Cairo, cerca lavoro ma non riesce a trovarlo, i suoi debiti aumentano
e gli usurai minacciano ritorsioni. È a quel punto che un uomo sudanese lo
avvicina, gli racconta di un modo “facile” per fare un sacco di soldi, 10
mila dollari. Una cifra che gli permetterebbe di pagare i suoi debiti e di
raggiungere l’Italia per trovare finalmente un lavoro in grado di aiutare la
sua famiglia.
L’operazione avviene in una clinica di
Alessandria, Yonas viene buttato fuori appena si risveglia, due pastiglie di
antidolorifico e via, verso un appartamento al Cairo in cui dovrà stare due
settimane per la convalescenza lontana da occhi indiscreti. Invece della cifra
pattuita gli vengono consegnati solo 6 mila dollari, può ripagare i suoi debiti
ma non può pagare la traversata verso l’Italia. Non può denunciare
perché non ha i documenti e rischia l’arresto per aver venduto i suoi organi.
Hakim: il procacciatore
Accanto ai migranti, anche coloro che
operano dietro le quinte del traffico di organi vivono in una realtà
complessa. Hakim è un procacciatore. Si occupa di trovare i donatori e
metterli in contatto con i trafficanti. Alla domanda se si sente mai in
colpa per quello che fa risponde che sì, gli dispiace per quelle persone, ma si
giustifica dicendo che almeno lui paga sempre i suoi “fornitori”, il
40% dei trafficanti non lo fa. Si considerano dei semplici fornitori di
servizi, degli intermediari, che alla fine dei conti salvano pure le vite di
chi, quell’organo, lo riceve.
Se non ci fossero medici disposti a fare
operazioni illegali, il traffico di organi non esisterebbe. Se c’è qualcuno da
incolpare, secondo i trafficanti, sono i dottori corrotti e chi è disposto a
pagare fino a 200 mila dollari per un trapianto illegale.
Il giro d’affari di Hakim è aumentato con
la guerra
civile in Sudan, che ha prodotto 10 milioni di sfollati in
disperato bisogno di assistenza umanitaria. Molti cadono nella rete del
traffico di organi pur di arrivare in Libia, o per attraversare il Mediterraneo
passando dall’Egitto.
Hiba: il dramma delle donne
Hiba è una madre single del Sudan, ha
venduto un rene in Egitto per provvedere a sua figlia. Dei 10 mila dollari
promessi ne ha ricevuto solo 4 mila, ma non può denunciare perché rischia di
essere arrestata. I trafficanti ne sono consapevoli e approfittano della
vulnerabilità delle persone che fuggono dalla guerra e dalla fame. Spesso
stringono accordi con le guardie di frontiera, che permettono il passaggio ai
migranti solo per farli finire nelle mani dei procacciatori al di là del confine. Per
le donne spesso la scelta per lasciare il paese è tra l’essere violentate o
vendere un rene.
Le sponde opposte delle migrazioni
I racconti di Yonas e Hiba si scontrano
con la percezione sempre più distorta che si diffonde nei paesi
occidentali. Nella parte ricca del mondo, il discorso sui flussi
migratori viene incanalato in un’ottica securitaria, in cui la priorità è
proteggere i confini e garantire la sicurezza interna. Le discussioni
pubbliche si polarizzano tra chi vede la migrazione come una minaccia e chi la
inquadra in termini di giustizia o solidarietà.
Tuttavia, la realtà è ben diversa per chi
si trova dall’altra parte. Quella sfruttata e dimenticata, quella mutilata
dalle guerre, affamata dalle crescenti disparità di ricchezza, quella che
subisce per prima le conseguenze della crisi climatica causata dall’altra
parte. Per queste persone la migrazione è l’ultima speranza.
“Basta che restino nel loro paese” è la versione
base di decine di varianti che sentiamo dalle persone intorno a noi. Dai nostri
vicini spaventati da un fantomatico aumento dei crimini, dallo zio un po’
razzista caduto nella rete della propaganda, dai commenti sui social network
sotto l’ennesima notizia di una barca affondata.
Persone che ignorano, volutamente o meno,
che attraversare quel mare, ormai definito il più grande cimitero
d’Europa, non è una scelta. Non è paragonabile a quella dei giovani che
lasciano il proprio paese europeo per essere pagati meglio in un altro, non è
paragonabile a quella dei “cervelli in fuga”, non è paragonabile a quella dei
pensionati alla ricerca di luoghi caldi. Guai a chiamarli migranti, loro
sono expat! Yonas e Hiba non hanno scelto di vendere i loro organi
per desiderio, ma perché è l’unico modo che hanno trovato per sopravvivere e
dare una possibilità di futuro alle loro famiglie.
Ogni volta che sento quel “basta
che restino nel loro paese” penso a David Foster Wallace.
Nel suo romanzo Infinite Jest, l’autore paragona la decisione di
suicidarsi al salto da un edificio in fiamme: non si tratta di un desiderio di
morire, ma di sfuggire a un terrore più grande, quello delle fiamme. Per chi
osserva da fuori, la caduta appare incomprensibile; tuttavia, solo chi è
intrappolato può comprendere l’insopportabile agonia delle fiamme. Pochi anni dopo,
questa riflessione si rivelò profetica. L’undici settembre 2001 decine
di persone scelsero di buttarsi dalle finestre delle Torri Gemelle. Non
perché volessero morire, ma perché le fiamme erano più terrificanti della
caduta.
Allo stesso modo, per molti migranti come
Yonas e Hiba, non è la traversata pericolosa, o la vendita di un rene, il
terrore maggiore. Per loro quelle fiamme arrivano da ogni direzione.
Sono la guerra, la povertà, la fame e la violenza che li circondano.
Attraversare il mare o vendere una parte di sé diventa l’unica via di fuga. Il
minimo che potremmo fare, in questa parte di mondo, è cercare di capire quanto
sia bruciante quel terrore.
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