Guardare
avanti, si
dice. Guardare fisso, invece, la propria mano che sostiene un
apparecchietto nero con schermo, detto smartphone. Consultare, sbirciare,
controllare, scrollare, ascoltare, pagare, scrivere, parlare, filmare… Al
ristorante, per strada, in chiesa, nel passeggino, al cinema, in arrampicata,
al supermercato, in auto, in classe, in ospedale, sul bus, sul water, a letto, in
bici, al lavoro, ai mari e ai monti… in tasca, in mano. A testa bassa.
Paesaggio
umano smisuratamente social. Ognuno di noi al guinzaglio del
proprio smartphone. Ad ogni
latitudine, più o meno. Ad ogni età, neonato e pensionato, per ogni sesso.
Super intersezionale. La psichiatria, che ha il naso fino, ha inventato
il problematic
smartphone use (PSU) Ma quale problematic? Obvious
smartphone use. Non è un gingillo, è una Lampada di Aladino dai mille
favori. È un essere più che uno strumento tecnico.
Non sono un filosofo e torno a incantarmi con questo congegno luccicante
che ci ha catturati, dionisiacamente “sussunti” direbbero gli intenditori. Se
fossi nato vent’anni fa non mi stupirebbe toccar quotidianamente con mano la
nostra universale dedizione all’Angelo Custode che ogni giorno ci accompagna e
ci nutre, mi sarebbe risuonato perfettamente naturale, oggettivo, da sempre.
Una felice evoluzione dell’umanità.
Di chi è
figlia questa alchimia universale? Del capitalismo digitale, di quello
cognitivo, di quello zombi? Di un neo colonialismo psichico? Di una fantomatica
tecnodittatura? Di un dio cattivo, o anche buonino, che escogita una nuova
religione? Di quei cinque o sei giovanottoni diventati paperon de’ paperoni
giocando con il web e inventando questo e quello? Di un presente a capitalismo morto, che sarebbe ancora peggio del capitalismo vivo? Di
me boccalone e dei miei simili che ci facciamo accalappiare da questa
sbalorditiva pietra filosofale rettangolare?
Se esiste un
capitalismo sciamanico, ecco, è quello. Fascinans et tremendum, come
diceva saggiamente qualcuno parlando del Sacro. Sull’affascinante non ci sono
dubbi, si comincia a nutrire qualche timore sul tremendo. È un coitus un
po’ interruptus e un po’ no il rapporto che abbiamo con
lo smartphone. Ricevere
di continuo stimoli e scariche di dopamina genera una gradevole eccitazione che
alla lunga si esaurisce in una fiacca generalizzata quasi comatosa. Gli alti e
bassi di odio amore per l’aggeggio in questione sono snervanti e
paradossalmente corroboranti. Ci fanno sentire vivi per il contrasto che creano
in noi. La voglia di liberarcene, almeno per un po’, e la ricerca inquieta
della gratificazione che ci procura, scrollaggio forsennato e ostinato
cliccaggio si accavallano e si accartocciano, sommergendoci. Un doping senza
frontiere. Se me lo chiedessero risponderei spavaldo che “smetto quando
voglio”, arrossendo per la fandonia appena formulata. Nel
cellulare ci sto in comoda forma trinitaria: come lavoratore che
addestra a sua insaputa algoritmi e produce valore per qualche santone camuffato
da piattaforma, come merce perché miniera da cui estrarre
dati, profili, tendenze, contatti, desideri, come consumatore vorace
che si rimpinza del sublime e dell’orrido della rete in una delle infinite
nicchie a me assegnate.
Alimenta
questa fermentazione cosmica una Terra Santa, una Valle con le sue diramazioni
planetarie tra Russia e Cina. Si chiama Silicon Valley e
verrebbe da definirla Fasciston Valley e sarebbe non solo
sbagliato, ma anche semplicistico. La Silicon, e aggregati, si
è poco per volta tramutata in un Olimpo con divinità di vario calibro, un
centro di pensiero nello stesso tempo avveniristico e reazionario, con teologie
e mistiche adeguate, che qualcuno elegantemente definisce Lungotermismo e Accelerazionismo, affiancati
da una galassia che si autodefinisce, non arbitrariamente, Gramsciani di Destra. L’esponente più in vista
è Elon Musk, tifoso di Trump, bannato in Brasile, venerato da Giorgia M. e criticato severamente dal Financial Times, che è tutto dire.
Se io sono
un dato, se lo è il gatto che non ho, se lo è Mozart e il mio
vicino di pianerottolo, se presente, passato e scaglie di futuro sono data,
se le-parole-che-sto-scrivendo sono data, se Tutto è
datificabile e datificato e me lo ritrovo nel gingillo cellulare alla maniera
di travolgenti scritture e audio e video e relative notifiche da cui sono
implacabilmente sedotto, ebbene qualche pensierino mi viene. Il più
presentabile dice: è possibile modellare una ecologia mentale che
renda lo smartphone e la sua seduzione meno
totalitaria, il feticcio un po’ meno feticcio, la demenza meno demenza? Che la soggettivazione che ci
impone sia meno pervasiva e meno guidata dal siliconvalleypensiero?
“Non c’è problema”, dice lui in formato Google: c’è una vasta gamma
di app che ti aiutano a disintossicarti. Che sarebbe, dico io, come rivolgersi
al migliore spacciatore per farsi aiutare a smettere. Cioè la perfetta logica del neoliberismo (o come lo vogliamo chiamare)
che si alimenta delle crisi che provoca. Vorrei sottrarmi in modi che non so
ancora alle attrattive dello smartphone, l’Onnipotente, e dei mille mondi
che contiene, giusto per scalfire l’intontimento che mi provoca e oppormi al
flusso di incantesimi che mi rovescia addosso. Essere più lucido, meno eccitato
dalla merda e dal miele che cola dalla rete. Non per ritrovarmi in armonia con
l’universo, ma in conflitto con lui così come si è venuto conformando. In
resistenza.
Vorrei
una pedagogia dei connessi, per parafrasare Paulo Freire, una pedagogia
liberatoria che trovi le strade per sconnettersi dalla colonizzazione in atto, da questo entanglement spurio,
che elabori percorsi critici di riappropriazione digitale non consolatori, che preveda luoghi non da
remoto e rigorosamente off line di confronto e di progetto. Una pedagogia politica non
dedita alla palingenesi universale né al benessere del singolo. Che si dedichi
all’equipaggiamento di salva.gente mentali per piccoli nuclei
di persone composte da nativi digitali e mortivi digitali come me. Disposti a
pagare il costo psichico che l’operazione di salvataggio comporta.
Un’utopia?
Un sogno? Una baggianata?
Due
riferimenti bibliografici
Juan Carlos,
De Martin, Contro lo smartphone. Per una tecnologia più
democratica, add editore, Torino, 2023: Un’analisi esauriente ed acuta
degli aspetti tecnici e culturali del nostro apparecchio, chiamiamolo così.
Tiziano
Bonini, Emiliano Treré, Algorithms of resistance. The Everyday Fight
Against Platform Power, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2024:
gli algoritmi come campo di battaglia hanno soggetti che li contestano
dall’interno. Una ricerca innovativa che mi auguro di rileggere in italiano.
Nessun commento:
Posta un commento