venerdì 16 luglio 2021

Sahel: nuova frontiera dell’Europa? - Renzo Mario Rosso

 

 

A distanza di meno di un mese fra loro, eventi traumatici in due Paesi-chiave della regione del Sahel quali il Mali e il Ciad, hanno rinnovato dubbi e incertezze sulla strategia di stabilizzazione della regione: una strategia che si era avviata con apparente successo nel 2013 con l’intervento franco-ciadiano nel Nord del Mali, ma si è poi trascinata per otto anni fino ad oggi con risultati deludenti. Nonostante la messa in opera di dispositivi politico-militari sempre più articolati e dispendiosi, non si è riusciti ad aver ragione del fenomeno jihadista, né ad arrestarne la diffusione ad altri Paesi prima immuni come il Burkina Faso o il Niger. Alla fine di aprile l’uccisione del Presidente del Ciad, Idriss Déby, attribuita alternativamente a una offensiva dei ribelli ciadiani del FACT provenienti dalla Libia e appartenenti a un’etnia (i Tebu) emarginata dal potere, oppure a militari dissidenti della medesima etnia del Presidente, ha prodotto a Parigi reazioni di sgomento. Nonostante la sua corruzione, il nepotismo e la progressiva deriva autoritaria del suo regime, Déby era ritenuto uno dei più solidi alleati della Francia nella regione e, soprattutto, un vero pilastro delle operazioni militari contro le forze islamiste. Nei trent’anni dalla sua presa del potere, egli aveva modellato attorno alla sua persona un regime d’impronta pretoriana, imperniato su una forza armata ritenuta fra le più efficienti del continente, anche se dispersa su troppi fronti non sempre coerenti. Déby l’aveva impiegata in avventure militari probabilmente mirate a costituire una propria autonoma area di influenza, con escursioni nel Congo durante la cosiddetta “guerra mondiale africana”, poi verso il Sudan e infine verso la Repubblica Centrafricana, dalla quale egli era stato alla fine estromesso. Più pragmaticamente, dal 2013 Il Presidente del Ciad era di nuovo entrato nell’orbita di Parigi, offrendo a Hollande un insostituibile appoggio in Mali e sostenendo poi tutte le operazioni condotte dai francesi contro i jihadisti del Sahel attraverso la cosiddetta “Operazione Barkhane”, mediante la quale l’intervento militare focalizzato sul Mali era stato di fatto esteso all’intera regione. La sua improvvisa caduta ha però svelato agli occhi dei francesi la fragilità di un patto di sicurezza imperniato prevalentemente sul fattore militare e sul sostegno a un “uomo forte”, piuttosto che su un retroterra politico e sociale solido, dotato di regole democratiche e di successione certe e sostenibile su se stesso.

Se la scomparsa di Déby ha inferto un colpo pesante agli aspetti militari dell’influenza francese nel Sahel, il nuovo “golpe” in Mali, per opera degli stessi militari che avevano già provocato ad agosto la caduta del Governo legittimo presieduto da Ibrahim Boubacar Keita, ha svelato le difficoltà e le insufficienze politiche alla base dell’instabilità non solo del Mali, ma anche degli altri Paesi della regione. Paradossalmente, proprio il Mali che rappresenta adesso l’epicentro delle crisi politiche del Sahel, era invece riuscito per circa un ventennio, dall’inizio degli anni ‘90 fino a quasi tutta la prima decade del 2000, ad accreditarsi come il principale protagonista delle cosiddette “transizioni democratiche” che, nel nuovo clima della fine della guerra fredda e dietro l’impulso di Mitterrand, avevano coinvolto (a eccezione del Ciad) diversi Paesi della regione, sia pure con tempi sfasati e difficoltà di percorso. Il regolare svolgimento di elezioni politiche non è stato privo di effetti positivi nel Paese, riuscendo quantomeno a radicare nella popolazione un certo attaccamento alle forme e alle prerogative dell’Assemblea Nazionale. Né la classe politica, né la società civile sono però riuscite ad estendere la partecipazione democratica oltre i confini della capitale e delle provincie meridionali (dove peraltro si concentra il 90% della popolazione del Paese), restando sostanzialmente insensibili alle domande, d’inclusione politica ma soprattutto di servizi e sviluppo, delle popolazioni delle regioni centrali e settentrionali, diverse etnicamente e già percorse da pulsioni separatiste. Questo profondo divario interno, ancor più politico e sociale che etnico, era stato una delle cause principali della progressiva perdita di controllo, già durante il 2011, di ampie porzioni del Paese, poi culminato l’anno successivo con la sollevazione indipendentistica da parte di movimenti tuareg, già in parte contaminati dall’ideologia islamista.

 

La crisi militare in Ciad e quella politica in Mali, ai due poli più sensibili del nucleo dei Paesi del Sahel, hanno costituito una spia eloquente delle difficoltà dei Paesi della regione, nonché della crescente frustrazione dei francesi che li hanno sostenuti militarmente, certo anche a difesa dei propri interessi. Esse, però, sono solo la parte emergente di un complesso di situazioni critiche irrisolte che riguardano l’intera fascia del Sahel e, in modo particolare, quella sua porzione più omogenea che si estende dalla Mauritania fino al Ciad (a Est, il Sudan e l’Eritrea risentono anche e soprattutto delle diverse dinamiche geopolitiche del Corno d’Africa). Lo stesso Sahel, d’altronde, comincia a essere definito quale entità geopolitica e non più soltanto geo-climatica, proprio da una crisi generalizzata: la siccità e la carestia che colpirono tutti i Paesi della regione, fino al Corno d’Africa e all’Etiopia, nel biennio 1972/1973. Fu proprio quella gravissima crisi climatica e umanitaria a causare lo spostamento di grandi masse di popolazioni nomadi e semi-nomadi (Tuareg, Tebu, Peul/Fulani..) verso sud. Il loro stanziamento nelle aree settentrionali dei Paesi saheliani fu la causa scatenante di conflitti con le popolazioni preesistenti di agricoltori e pescatori per il controllo dell’acqua e delle risorse del territorio, producendo – con le parole di Mario Giro – “effetti che sono durati decenni, sconvolgendo il fragile equilibrio sociale ed economico dell’area”. Un secondo periodo di svolta per la regione si colloca tra la fine degli anni ‘90 e il 2011. Esso fu segnato prima dalle ricadute verso sud dell’offensiva islamica fondamentalista in Algeria che, sconfitta politicamente e militarmente, finì per ripiegare verso la regione sahariana e saheliana trovandovi scarsi controlli, nuove opportunità legate a ogni tipo di traffici illegali e fresche occasioni di reclutamento fra i giovani, spesso appartenenti alle etnie sradicate e disposti ad accogliere un’ideologia radicale capace di canalizzare al tempo stesso frustrazione, rivolta ed autoaffermazione. Ancora più dirompenti, com’è ben noto, sono state le conseguenze della caduta di Gheddafi. Essa ha provocato, insieme con l’aumento delle migrazioni attraverso il Mediterraneo, un altrettanto importante riflusso verso sud dei giovani immigrati subsahariani restati senza lavoro, delle milizie reclutate in Mali, Niger o Ciad e già al soldo di Gheddafi, e naturalmente una incontrollabile circolazione di armamenti: la prima miccia dell’insurrezione del 2012 in Mali fu per l’appunto accesa da gruppi armati Tuareg, smobilitati dalla Libia e alleatisi con formazioni jihadiste.

 Anche da questa sintesi sommaria emerge la difficoltà di identificare focolai precisi di crisi, da estirpare con interventi militari chirurgici o curare con politiche più inclusive. Anche se ciascuno dei Paesi del Sahel presenta le proprie specificità, forti similarità di struttura li accomunano sotto il profilo sociale e geopolitico. Fra questi: il divario fra nord e sud; l’impatto degli spostamenti di popolazione degli anni ‘70 che ne modificarono il profilo etnico e la composizione economica, gettando il seme dei conflitti d’interesse fra le popolazioni nomadi e semi-nomadi e quelle stanziali; l’influenza, infine, delle insorgenze islamiste provenienti dall’Africa settentrionale, che (non diversamente da quanto accaduto in Iraq e in Siria) hanno trovato alimento dal fallimento delle primavere arabe e della rivoluzione libica, sovrapponendosi ai conflitti intra e inter-comunitari preesistenti. E’ il caso dei Tuareg in Mali, dei Peul in quasi tutti i Paesi del Sahel o infine dei Tebu insorti in Ciad contro il regime di Déby.

Chi ha riflettuto sulle crisi del Sahel non ha perciò esitato a parlare di un vero e proprio “sistema di conflitti”: non perché dietro di loro si celi un’unica mano invisibile o una singola matrice di tipo ideologico, religioso oppure politico-economico; ma perché le loro motivazioni fondamentali tendono a riflettersi da Paese a Paese, con protagonisti che appartengono spesso a etnie affini o ricoprono ruoli analoghi e attraverso una fitta rete di relazioni etniche, claniche, religiose, sociali ed economiche che superano lo spazio dei confini nazionali e riproducono, in altra forma, quella  funzione di crocevia di popolazioni e culture che il Sahel aveva svolto prima dell’epoca coloniale. Mentre il concetto di “sistema” rimanda a questa profondità e complessità di cause e relazioni, i conflitti saheliani fanno sempre più emergere la percezione che esso rappresenti il vero “confine” dell’Europa, la linea di faglia intorno alla quale i due continenti si confrontano sulle grandi questioni strategiche delle materie prime e dell’energia, degli squilibri demografici e delle migrazioni e, infine, della lotta al terrorismo. Una percezione, questa, in parte corretta ma potenzialmente fuorviante, qualora implicasse la prescrizione illusoria che questa linea di frontiera potesse essere controllata mediante un vallo securitario e militare. Com’è stato però osservato, in quella regione l’ordine politico non procede secondo le logiche dello spazio cartesiano, ma risente di una concezione dello spazio e della politica diversa, legata alla circolazione, alle alleanze e ai diritti di passaggio.

 

Analoga fluidità sembra riscontrarsi in un ultimo aspetto delle crisi saheliane: la loro posizione in un quadro geopolitico più ampio, in cui la competizione tra grandi potenze è perseguita attraverso il controllo su aree e risorse strategiche. L’appartenenza dei Paesi del Sahel all’area d’influenza francese, indiscussa dopo l’indipendenza e rinsaldata sul piano geopolitico dalla Guerra Fredda, e su quello economico/finanziario dal Franco CFA e da quel coacervo d’interessi economici fra la Francia e le classi politiche africane cui si è dato l’appellativo di Françafrique, si è mantenuta ma ha subito una visibile erosione. Ai fattori d’instabilità esterni e interni, si è aggiunta una sempre più diffusa disaffezione e insofferenza degli strati più giovani della popolazione verso i legami di dipendenza dalla metropoli, resi più palesi dalla diffusione intrusiva dei dispositivi militari francesi dopo il 2012. A questo graduale deterioramento Macron ha cercato di porre rimedio, stimolando una maggiore implicazione dei Paesi del Sahel nel contrasto al terrorismo (G5), incoraggiando la cooperazione di altri soggetti europei e annunciando una riforma del meccanismo monetario del Franco CFA. A questi sforzi, che testimoniano della difficile evoluzione dei legami post-coloniali verso un rapporto meno esclusivo, ha fatto riscontro la crescita degli interessi economici e/o strategici di altre potenze grandi o medie. In gran parte desertici e soggetti a periodiche siccità, carestie e gravi crisi umanitarie, i Paesi del Sahel sono però ricchi di risorse e materie prime pregiate: uranio in Niger, oro e petrolio nel Fezzan e in Ciad, possibili giacimenti di petrolio e gas in Mali e Mauritania e, soprattutto, quelle “terre rare” richieste dalle produzioni più innovative e oggetto di un’aspra contesa fra la Cina e gli Stati Uniti. Mentre gli Stati Uniti, pur non sempre consonanti con l’approccio della Francia, hanno comunque fornito un importante supporto logistico e d’intelligence alle operazioni militari mantenendo anche alcune basi operative nel Sahel in Niger e in Ciad, la Cina si è guardata bene dall’andare oltre un sostegno declaratorio al G5, perseguendo un approccio geo-economico che ha accuratamente evitato il coinvolgimento politico-militare, pur non rifuggendo dall’assumere rischi su mercati di frontiera come il Mali o il Sud Sudan. Diverso l’approccio dei russi che – non in grado di competere con i cinesi sul piano commerciale o finanziario – hanno offerto i propri servizi sul mercato loro più congeniale, quello militare e della sicurezza. Dopo aver a lungo abbandonato il continente africano che pure aveva costituito, con numerosi e cruenti conflitti per procura, uno dei teatri più mobili e con maggior libertà di manovra della guerra fredda, essi si stanno di nuovo affacciando assertivamente sull’Africa: l’enfasi del primo vertice Russia-Africa sulla cooperazione militare è stata confermata dalle intrusioni “ibride” dei contractors della “Wagner” in Libia a fianco di Haftar, e in forma meno palese ma diffusa anche nel Sahel, attraverso programmi di formazione in Mali, che pare abbiano implicato proprio l’attuale leadership golpista, rapporti non chiari con gli insorti ciadiani e, soprattutto, un aperto sostegno al Governo centrafricano. Anche se recenti interpretazioni giornalistiche vi intravedono un disegno volto a scalzare l’egemonia francese, le incursioni russe in Africa non sembrano per ora appoggiarsi su una coerente strategia, pur svolgendo azione di disturbo e contribuendo a conferire maggior profondità alla presenza militare ai bordi del Mediterraneo, questa è corrispondente a un’antica e mai sopita aspirazione russa.

L’attuale, rinnovato interesse dell’Unione Europea verso il Sahel si fonda sulla percezione che l’instabilità di questa regione sia legata a quella della Libia, e che entrambe pongano serie minacce all’Europa stessa sotto il profilo della sicurezza, del terrorismo e dei traffici illegali, fra cui soprattutto quello degli esseri umani. Per questo il Sahel è stato riconosciuto nel 2019 come una priorità strategica dell’UE, comportando l’avvio di numerose iniziative di sostegno alle forze armate e di sicurezza locali, mediante iniziative di formazione, il potenziale utilizzo (anche per gli armamenti) di un fondo come la European Peace Facility e infine l’avvio di una task force operativa come la Takuba, destinata a operare nel triangolo di frontiera fra Mali, Niger e Burkina con la partecipazione volontaria di alcuni Paesi (fra cui anche l’Italia). Proprio il doppio fallimento delle politiche sin qui condotte soprattutto dalla Francia, politico in Mali e militare in Ciad, ha conferito nuova forza alle voci di chi già criticava l’assoluta priorità conferita agli aspetti militari e di sicurezza sugli altri elementi della strategia 35 Articoli e studi sui nuovi scenari internazionali per il Sahel, invocando un più solido “pilastro politico” mirato a ri-conferire credibilità a Stati in evidente perdita di consensi e di fiducia, rafforzando la loro capacità di fornire servizi pubblici alle aree e alle popolazioni più marginali e di svolgere un ruolo di mediazione pacifica nei conflitti locali intorno alle risorse naturali, ruolo in cui sempre più spesso alle autorità centrali si sono sostituiti gli stessi insorti jihadisti. L’accento sulla governance non è certo nuovo ed era stato già indicato da Prodi, primo inviato per il Sahel delle Nazioni Unite, fra i principali obiettivi strategici da perseguire. Questo suggerimento non era poi stato messo in pratica, restando a uno stadio astratto senza identificare specifiche pratiche di riforma, forse perché il timore di destabilizzare i già precari Governi in carica aveva alla fine privilegiato un approccio più pragmatico e appiattito sull’esistente. Nonostante i sempre più forti richiami a una riforma delle strategie per il Sahel, si tratta di un nodo politico che resta attuale, come dimostra l’atteggiamento oscillante tenuto sia dagli organismi interafricani, sia dalla Francia verso le giunte militari transitorie installatesi in Mali e in Ciad: apparentemente più rigido nel primo caso, molto più accomodante nel secondo. Esso potrà essere sciolto solo con un’iniziativa più incisiva da parte di tutti i soggetti politici internazionali, coinvolgendo soprattutto molto di più, e non solo per quanto concerne gli aspetti militari, sia i Paesi della Regione sia le organizzazioni regionali e panafricane. Al riconoscimento, in gran parte acquisito, della gravità della crisi sotto il profilo securitario, va aggiunta anche una maggiore consapevolezza che essa sarà difficilmente risolta se non se ne affronteranno anche le radici, che non rimandano solo a fattori esterni, ma anche a conflitti interni e all’incapacità delle classi politiche locali ad affrontarli con riforme inclusive. Anche l’Italia dovrebbe tener conto di questo nodo, nel momento in cui una personalità del nostro Paese è stata chiamata all’incarico di rappresentante dell’UE per il Sahel e in cui sembra inaugurarsi – con il recente incontro a Bruxelles fra Draghi e Macron – un nuovo corso di collaborazione italo-francese nella regione. Troppo riduttivo e probabilmente inefficace apparirebbe un semplice trade off fra un’azione più solidale fra i due Paesi in Libia e un nostro cenno di attenzione, ancora una volta soprattutto sul piano militare, per il Sahel. Molto resta ancora da fare soprattutto in Europa, affinché l’interesse politico verso la regione in tutti i suoi aspetti, migrazioni comprese, sia condiviso da tutta l’Unione e non più soltanto trainato da alcuni suoi membri come la Francia di Macron: ora più consapevole dell’insostenibilità dei vecchi approcci verso le ex-colonie, ma in difficoltà nell’articolare un piano d’azione che non equivalga a un puro e semplice abbandono.


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