Le liste d’attesa sempre più lunghe e talora inaccessibili sono, nella sanità, un dato di fatto, un’evidenza ingombrante nonostante i numerosi tentativi di occultamento. Recentemente, dopo i richiami della Corte dei conti, la magistratura ha ribadito che non è lecito chiudere le agende delle prenotazioni, ma non è raro che vengano fissati appuntamenti con scadenze superiori anche a dodici mesi.
Ovviamente
la lunga lista d’attesa colpisce coloro che non possono pagare di tasca propria
nel privato o
in intra moenia e coloro che non riescono ad aggirarle con
sistemi clientelari o utilizzando artifici leciti (o ritenuti tali). Esistono,
infatti, diverse “facilitazioni” per l’accesso alle prestazioni sanitarie: il
pagamento di polizze sanitarie, l’adesione a fondi di sanità integrativa, le
convenzioni di categoria, i sistemi di “welfare aziendale” sono forme di
sanità complementare che prevedono dei benefici fiscali e incentivano così una
parte della popolazione sottraendo risorse al sistema e, in definitiva, alla
generalità degli utenti. E ci sono, poi, forme di agevolazione più ambigue: per
esempio in alcuni casi pagando un supplemento è possibile tagliare la coda.
Tutto ciò mentre viene giustamente richiesto ai medici di base di indicare e
certificare l’urgenza della prestazione. Nel contesto descritto, è evidente che
la priorità dell’accesso è dettata quasi esclusivamente dal reddito del
paziente e dalla sua capacità di pagare o dalla sua appartenenza a categorie
protette, mentre l’urgenza e la gravità della patologia diventano spesso un
criterio secondario. Si stravolge, così, il dettato costituzionale: perché la
salute non è più un diritto fondamentale e perché, paradossalmente, mentre la
Carta afferma che la Repubblica «garantisce cure gratuite agli indigenti» sono
proprio questi ultimi a non avervi accesso e a non essere garantiti. La
conseguenza è un gravissimo problema di equità, di credibilità delle
istituzioni e, in ultima analisi, di carenza di democrazia reale.
Lo scorso 18
aprile 2024 Istat ha stimato che, nel 2023, 4,5 milioni di italiani hanno
rinunciato a visite mediche per motivi economici e liste di attesa troppo
lunghe. In questo
quadro, in particolare per le classi più povere, il ricorso al Pronto soccorso
diventa l’unica possibilità per ottenere un accesso tempestivo alle cure.
Tuttavia l’ingorgo dei servizi di emergenza costituisce un ulteriore problema
per il sistema sanitario e per tutta la popolazione oltre che uno strumento
anomalo, costoso e inadeguato per gestire le problematiche legate alla
cronicità, alla non autosufficienza alla prevenzione e alla cura delle
patologie non acute. Non curare una parte della popolazione o curarla in regime
di urgenza non è un risparmio: non a caso la Costituzione (i Costituenti erano
memori di quanto avvenne con “l’epidemia spagnola”) afferma che la salute è non
soltanto «un fondamentale diritto dell’individuo» ma anche «un interesse della
collettività». Le infezioni da Covid hanno ulteriormente dimostrato che la
salute di ciascuno dipende inesorabilmente anche dal quella degli altri e che è
pericoloso e sconveniente anche dal punto di vista economico avere delle sacche
di popolazione prive di assistenza sanitaria. Paradossalmente la
recente pandemia ha determinato un aumento esponenziale delle sottoscrizioni di
polizze sanitarie individuali anziché di investimenti durevoli e strutturali
per la sanità pubblica. A fianco della crescita della popolazione esclusa
dalle cure, si crea così una grande massa di cittadini che, per curarsi,
ricorre al pagamento in proprio. Conseguentemente, la carenza di servizi
sanitari costituisce un fattore di impoverimento di una larga fascia di
popolazione.
In Italia,
la spesa sanitaria out of pocket, comprendente
tutte le prestazioni sanitarie erogate ai cittadini che prevedono un esborso di
denaro da parte dell’utente, continua inesorabilmente a salire. Come ha
rilevato il monitoraggio della spesa sanitaria 2023 pubblicato dalla Ragioneria
dello Stato, la spesa sanitaria a carico dei cittadini è passata da
28,13 miliardi nel 2016 a 40,26 miliardi nel 2022, con un incremento,
solo nell’ultimo anno, del 8,3%, raggiungendo il 22,9% della spesa complessiva
contro una media europea del 15,7%. In definitiva i tagli alla sanità
pubblica hanno creato un ricco mercato privato che vede costantemente
l’ingresso di nuovi soggetti e imprese che orientano gli investimenti. In altri
termini, la sanità è un settore che rappresenta un business in costante
espansione e durevole nel tempo. Se poi ai privati viene consentito di
selezionare sia le prestazioni, evitando quelle meno remunerative, che la
tipologia dei pazienti, si comprende la corsa ad entrare nel sistema
sanitario. Inoltre nel nostro Paese persiste e prolifera un
sistema di commistione pubblico-privato istituzionalizzato senza eguali. In tutto il mondo esistono
erogatori pubblici e privati, ma con una chiara distinzione di ruoli e con il
servizio pubblico pagatore che decide integralmente le prestazioni e i servizi
da erogare e svolge controlli non occasionali ma strutturali. Da noi, invece,
si arriva all’autoprescrizione di prestazioni da parte dei diretti fruitori
della remunerazione. L’ideologia della commistione pubblico privato – che si
traduce in investimenti in partnerariati (preferiti anche quando non
necessari), accreditamenti e convenzionamenti con strutture private nonché
esternalizzazioni finalizzate a ridurre i salari degli operatori – produce una
persistente pratica di devoluzione al privato di funzioni pubbliche che trova
nel concetto di sussidiarietà la sua cornice. È la riproposizione estesa di
quanto a suo tempo concesso nel campo della sanità, dell’istruzione e
dell’assistenza alle strutture ecclesiastiche. È l’ideologia del “meno Stato
più privato” che ha caratterizzato gli ultimi decenni, ideologia praticata
abbondantemente anche da governi sedicenti “di sinistra”.
È in questo
quadro che si è determinato l’allungamento delle liste d’attesa, dovuto principalmente a un
incremento della domanda Tale incremento, peraltro, è solo in parte ascrivibile
ai maggiori bisogni sanitari, pur reali sia per l’aumento della popolazione
ultra sessantacinquenne (portatrice di maggiori patologie), sia per il costante
progresso delle cure. Esiste, infatti, un pericoloso consumismo sanitario, una
costante istigazione ad esami e farmaci inutili, alimentata da pressioni
mediatiche (che incidono su una popolazione con una cultura sanitaria scarsa e
incerta: del resto siamo un Paese con un livello di scolarità tra i più bassi
d’Europa) e dalla conseguente necessità di “prescrivere qualcosa” per
assecondare le aspettative di una popolazione fragile ed ansiosa che richiede
rassicurazione. Il resto lo fanno gli interessi economici che derivano
dall’implementazione dei consumi. Di fatto si calcola che sia inappropriato un
terzo delle prestazioni diagnostiche, mentre l’uso di molti farmaci e
parafarmaci sfrutta esclusivamente l’effetto placebo. Le cosiddette
“liberalizzazioni”, che hanno equiparato i farmaci e la sanità a qualunque
altro bene di consumo, hanno inoltre portato a un abnorme incremento
dell’offerta e di bisogni, spesso voluttuari, indotti per alimentare il mercato
sanitario. Le liste d’attesa sono un buon affare e stanno creando un
mercato fiorente di sanità a pagamento: sono proprio gli esami inutili che
determinano i maggiori utili finanziari. L’Organizzazione Mondiale della
Sanità ha chiarito che è l’investimento nella sanità pubblica ad avere
determinato i significativi risultati raggiunti nell’aspettativa di vita mentre
la spesa out of pocket vi contribuisce in minima parte.
Oltre che
dell’incremento della domanda, il prolungamento delle liste d’attesa nel servizio
pubblico (che, a differenza di quanto accade nelle attività a pagamento, cresce
costantemente) risente di numerosi fattori. C’è, anzitutto, la
riduzione dell’offerta da parte del Servizio Sanitario Nazionale
per mancanza di medici e infermieri il cui numero è
inferiore al 2010 nonostante l’incremento della loro età media. Le scarse
retribuzioni del settore pubblico, poi, determinano fuga degli
specialisti verso il privato e all’estero. La selezione delle
prestazioni da parte del privato, inoltre, rende il servizio
pubblico gravato dalle prestazioni più complesse, onerose e impegnative per il
personale. Tutto ciò a fronte di una spesa pubblica per il SSN pari al
6,6% del PIL (in diminuzione nella programmazione dei prossimi anni:
6,2% nel 2025 e 6,1% nel 2026) contro una media europea del 7,1%. Mentre nell’Unione
europea la spesa pubblica pro capite è, mediamente, di 3.562
euro, in Italia scende a 2.312. E la situazione è aggravata dal
fatto che i costi dei farmaci sono uguali e che l’Italia è, nel mondo, il Paese
con l’età media più elevata dopo il Giappone.
Non c’è più
spazio per la retorica del servizio sanitario migliore del mondo: non è più
così da molto tempo nonostante il sacrificio degli operatori. Non a caso
l’Unione europea, dopo il riscontro dell’elevata e anomala mortalità durante la
pandemia, aveva previsto per la sanità italiana, attraverso il MES, un
finanziamento straordinario di 38 miliardi (che prevedeva una restituzione in
10 anni al tasso del 1%), che è stato, peraltro, sdegnosamente rifiutato.
La conclusione è obbligata: le liste d’attesa sono l’esito di un incrocio di problemi apparentemente di carattere tecnico, ma in realtà di natura esclusivamente politica che dipendono dall’impianto culturale e ideologico dei governi.
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