Quando si viene a sapere che un animale è risultato positivo a una sostanza
stupefacente, può scattare un sorriso al pensiero, alimentato anche da
pellicole dal dubbio umorismo come Cocainorso, una commedia tratta
purtroppo da fatti realmente accaduti: nel 1985 un orso nero morì di overdose,
dopo che uno spacciatore cadde da un aereo con un carico di cocaina del valore
di 15 milioni di dollari. La mancata apertura del paracadute comportò non solo
la morte dello spacciatore, ma anche quella dell’incolpevole orso, che per caso
aveva trovato il carico e aveva ingerito quasi 4 grammi della sostanza in grado
di uccidere anche un animale da 100 chilogrammi.
Il problema è proprio questo: dietro alla facile ironia che ha portato a
soprannominare il malcapitato Pablo Escobear, le sostanze stupefacenti
prodotte dall’uomo hanno un impatto importante, e a volte mortale, anche sugli
animali che ci entrano in contatto e che non scelgono liberamente di assumerle.
Il caso della cocaina è fortunatamente raro,
ma una birra avanzata lasciata incustodita in un bosco è un evento più
frequente, e non si contano i casi di animali domestici intossicati da oppioidi
o altri farmaci lasciati incustoditi dai loro umani di riferimento. Casi come
questi sono la riprova che ci troviamo a convivere con animali, selvatici e
non, senza curarci più di tanto delle loro esigenze, delle loro abitudini e del
loro essere diversi dagli esseri umani.
In un contesto del genere farà quindi molto meno sorridere la notizia
che nelle acque del Brasile sono stati trovati degli squali positivi
alla cocaina, e non è nemmeno la prima volta. Negli ultimi anni questo
fenomeno ha catturato l'attenzione del pubblico, anche qui grazie al (o per
colpa del) cinema, perché si sono diffusi film ma anche documentari che
affrontano la tematica. Pellicole grottesche come Cocaine
Shark, tra l’altro, non aiutano a trasmettere un’immagine
corretta di un animale a rischio estinzione: un animale fragile che come tale
andrebbe tutelato, ma è difficile farlo quando la percezione pubblica è viziata da un immaginario nutrito dalla
serie Lo squalo.
La tematica degli squali che si ritrovano inconsapevolmente ad assumere
droga è stata affrontata anche da un più serio documentario dal titolo quasi
identico, Cocaine Sharks, in cui un gruppo di
scienziati cerca di capire se gli squali del Golfo del Messico ingeriscano
cocaina, visto che spesso gli spacciatori, messi alle corde dalle autorità, la
buttano in mare per distruggere le prove. Il lavoro degli scienziati si era
rivelato inconcludente, facendo forse tirare agli spettatori un provvisorio
sospiro di sollievo (in Italia il documentario non è ancora disponibile).
Ora invece abbiamo le prove del fatto che gli squali possono essere
positivi alla cocaina, e anche se non sono pericolosi come quelli delle pellicole di serie B,
che diventano creature aggressive con caratteristiche somatiche che hanno solo
un piccolo barlume delle fattezze originarie, la situazione è problematica, sia
per ragione etiche che per problemi di conservazione delle specie. Uno studio condotto in Brasile ha fornito le
prime evidenze concrete che gli squali sono effettivamente esposti alla
cocaina. Le tracce di questa sostanza sono state trovate nei muscoli e nel
fegato di 13 esemplari di squalo brasiliano dal naso affilato, uno squalo di
piccole dimensioni classificato come vulnerabile dalla UICN, anche
se è necessario procedere con ulteriori ricerche in modo da capire se gli
squali (e gli esseri umani che li mangiano) vengano effettivamente danneggiati
dall’esposizione, tanto più che cinque delle 10 femmine analizzate erano
incinte, e non si conoscono ancora le conseguenze della droga sui feti degli
animali (però è lecito supporre che ci siano, visti gli esperimenti analoghi
condotti in passato sugli zebrafish).
Il problema, tra le altre cose, non è rappresentato soltanto dalla cocaina
che viene gettata in mare in caso di retate: la droga viene rilevata anche
nelle acque reflue, e non solo in Brasile. Esistono molti laboratori illegali
nei quali gli scarti delle sostanze vengono gettati negli scarichi, per poi
raggiungere il mare se non vengono rispettate le norme di smaltimento. Il giro
cambia, ma il risultato no. Un’altra ipotesi è che gli squali si trovino ad
assumere la cocaina indirettamente, mangiando pesci che a loro volta ci sono
entrati in contatto, ma indipendentemente dalle modalità di assunzione ciò che
è certo è che tutti i campioni di fegato analizzati sono risultati
positivi, e la concentrazione era di 100 volte superiore a quella riscontrata
negli studi precedenti su altri animali acquatici.
Lo squalo brasiliano dal naso affilato è stato scelto proprio perché vive
prevalentemente in ambiente costiero, e quindi si è ipotizzato che fosse
l’esemplare perfetto per questo tipo di test. L’animale trascorre infatti la sua
vita in un luogo circoscritto, senza spostarsi più di tanto, e non in un luogo
a caso, ma tra le acque costiere di un paese in cui il traffico di cocaina è
particolarmente elevato. La zona, inoltre, non ha un sistema fognario adeguato
e lo smaltimento degli scarti è da migliorare, per usare un eufemismo. Ora che
è stata trovata la conferma di ciò che gli esperti sospettavano da tempo,
sarebbe interessante proseguire le ricerche anche in altri luoghi del mondo,
per vedere quanto questa situazione sia diffusa.
La scoperta di cocaina negli squali brasiliani mette in luce un grave
problema di inquinamento che richiede attenzione immediata e ulteriori
ricerche, ma anche iniziative di contrasto al traffico di droga. La protezione
degli ecosistemi marini è fondamentale non solo per la salute umana (ricordiamo
che molti abitanti della zona consumano carne di squalo perché ricca di proteine,
e forse lo facciamo anche noi senza saperlo), ma anche per la conservazione
della biodiversità, perché come dicevamo è probabile che la cocaina sia dannosa
per i feti e che renda gli animali più suscettibili ad altre malattie.
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