Volere la Luna e il Forum Disuguaglianze e Diversità hanno iniziato, nel giugno scorso, una riflessione comune sulle molte facce della svolta autoritaria in atto nel Paese. Alla prima tappa di quella riflessione (il convegno romano del 20 giugno) ha fatto seguito nei giorni scorsi la pubblicazione dell’e-book “Verso una svolta autoritaria? L’Italia e l’Europa tra neoliberismo e restrizione della democrazia”, scaricabile gratuitamente da questo sito (https://volerelaluna.it/materiali/2024/08/28/verso-una-svolta-autoritaria/) e da quello del Forum (https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/download-verso-una-svolta-autoritaria/). Anche per sottolineare ulteriormente l’iniziativa pubblichiamo qui l’intervento di Livio Pepino dedicato alla repressione del dissenso, con particolare riferimento alla situazione della Val Susa. (la redazione)
1. Da un lato la deriva
autoritaria che sta aggredendo l’assetto istituzionale del Paese; dall’altro il
tentativo di fare terra bruciata intorno ai barbari, ai marginali e ai ribelli.
Le due cose si tengono e si comprendono appieno solo nel loro collegamento.
Alla marginalità e al dissenso radicale sono stati dedicati i primi
interventi legislativi del Governo della destra e della sua maggioranza (affiancati
da attenzioni particolari delle autorità amministrative e di
molte Procure). Nel giro di poco più di un anno è stato, tra l’altro,
fortemente limitato il diritto di riunione, sono state inasprite le pene (già
abnormi) per la protesta ambientale, è stato ripristinato il blocco stradale e
sono state aggravate le sanzioni per i reati commessi nel corso di
manifestazioni. E non basta. Il disegno di legge governativo n. 1660 sulla
sicurezza, all’esame della Commissione Giustizia della Camera, completa l’opera
con un ulteriore aumento della pena per le occupazioni di immobili, la
previsione del blocco ferroviario, oltre a quello stradale, come reato (con
pena da 6 mesi a 2 anni) «quando il fatto è commesso da più persone riunite»
(cioè sempre, considerato che un blocco stradale o ferroviario realizzato da
una sola persona è una semplice ipotesi di scuola…), l’ulteriore aumento di un
terzo della pena per la resistenza e violenza a pubblico ufficiale se commesse
in danno di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza (e dunque,
prevalentemente, nel corso di manifestazioni), l’introduzione del delitto di
rivolta in istituto penitenziario (con la precisazione che la “rivolta” si può
realizzare «mediante atti […] di resistenza anche passiva all’esecuzione degli
ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più
persone riunite»), l’estensione della sfera di applicazione della scriminante
dell’uso legittimo delle armi da parte di ufficiali e agenti di polizia e via
elencando. E c’è chi, nella maggioranza, ha presentato un emendamento teso ad
aumentare a dismisura (sino a un massimo di 25 anni secondo l’interpretazione
più attendibile) la pena per il delitto di resistenza e violenza a pubblico
ufficiale se commessa «per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di
un’infrastruttura strategica» (sic!): non passerà, ma è indicativo di un
clima nel quale l’Ungheria è vicina e il codice Rocco impallidisce. Ma tutto
questo non è cominciato ieri e, anche per cercare di invertire la tendenza,
occorre capire come si è arrivati a questo punto.
2.
Illuminante è la vicenda del movimento no Tav, cioè dell’opposizione alla nuova linea ferroviaria
Torino-Lione, diventata, negli anni, il crocevia di questioni
fondamentali per la nostra democrazia.
La Val Susa è una piccola valle alpina attraversata dalla Dora Riparia,
con una popolazione di 90.000 abitanti e 40 Comuni. Una valle un tempo
bellissima, che l’uomo ha gravemente ferito. Nei luoghi dove dovrebbe
iniziare il traforo (di 57 km!) della nuova linea (di complessivi 270
km) già corrono due strade nazionali, un’autostrada e una ferrovia (utilizzata
al 30% delle sue potenzialità), tutte destinate a restare. Non è difficile
immaginare cosa sia una valle (abbastanza stretta, com’è, in genere,
delle valli) attraversata da cinque arterie di grande percorrenza… Di
più, questa valle è, secondo il coordinamento dei medici di base che
vi operano, uno dei territori del Paese con la maggior concentrazione di tumori
e di patologie connesse con l’amianto e l’uranio (presenti in misura
significativa nelle montagne che si vorrebbero scavare). Non stupisce, in
questo contesto, che, fin da quando, nei primi anni ‘90 del secolo scorso,
si è iniziato a parlare dell’opera, gran parte dei valsusini non
abbia condiviso gli entusiasmi dei promotori (guidati dalla Fondazione
Agnelli), estasiati dalla possibilità di spostarsi da Milano a Parigi per
prendere un aperitivo sotto la Tour Eiffel (sic!). E l’entusiasmo non è
certo aumentato quando, nei decenni successivi, le profonde trasformazioni
sociali e un occhio ai dati hanno indotto i fautori dell’opera a lasciare
a terra i passeggeri e a convertire il progetto da alta velocità in alta capacità
per trasporto merci (a cominciare da quelle auto che, intanto, la ex Fiat
smetteva di costruire a Torino…). Di qui la nascita del movimento
no Tav, da subito impegnato contro lo scempio ambientale e l’attentato
alla salute della popolazione, l’inutilità della nuova linea (data la caduta
verticale degli scambi di merci sulla direttrice est-ovest), lo spreco di
risorse in periodo di gravissima crisi economica. Ragioni ulteriormente
consolidatesi nel tempo alimentando un’opposizione tuttora viva e vitale, dopo
oltre 30 anni. Così il microcosmo della Val Susa, angolo del Piemonte in
precedenza sconosciuto ai più, è diventato un laboratorio: di
partecipazione, di azione politica, di democrazia dal basso,
ma anche di criminalizzazione e repressione del dissenso.
I fatti, dunque.
La serietà delle ragioni dell’opposizione (concernenti i diritti
fondamentali delle persone) e il carattere diffuso della protesta (con
manifestazioni che hanno superato i 70.000 partecipanti) avrebbero
meritato, in una democrazia coerente con il proprio nome, un
confronto reale e approfondito. Invece… Lascio la parola al
Tribunale permanente dei popoli che, nella sentenza 8 novembre 2015, ha
rilevato, tra l’altro, che «si sono ignorati totalmente le opinioni, gli
argomenti, ma ancor più il sentire vivo delle popolazioni direttamente colpite»
e che «ciò rappresenta, nel cuore dell’Europa, una minaccia estremamente grave
all’essenza dello Stato di diritto e del sistema democratico che deve
necessariamente essere fondato sulla partecipazione e la promozione dei diritti
e il benessere, nella dignità, delle persone». In altri termini, si è
proceduto in Val Susa con un approccio di carattere neocoloniale,
trasferendo nel nostro Paese metodi praticati nel secolo scorso dalle
potenze occidentali in Africa, in Asia e in America latina: certo, con
modalità meno brutali e cruente, ma seguendo la stessa logica, in una
prospettiva di crescente svuotamento della democrazia, le cui istituzioni
diventano sempre più luoghi di ratifica di decisioni prese altrove.
3. La sequenza e le modalità
dell’intervento istituzionale contro il movimento di opposizione in
Val Susa sono esemplari.
La prima
reazione dell’establishment è stato il tentativo di marginalizzare
la protesta, confidando nel suo sgonfiamento sotto l’azione
del tempo.
Protagonisti di questa operazione, oltre ai promotori, le istituzioni
nazionali e regionali e i media (quei media nei cui consigli di amministrazione
sedevano – e siedono – spesso gli azionisti di società interessate all’opera e
che, in tutta la vicenda, saranno una presenza decisiva). Si sono
alternati, in questa fase, riconoscimenti di facciata, paternalistiche
assicurazioni di futuri confronti, grottesche rappresentazioni dei
protagonisti della protesta come anacronistici Obelix o Asterix
(quando non come aborigeni con l’osso al naso, ripresi dall’iconografia
coloniale fascista), critiche a un presunto luddismo incapace di guardare al
futuro e legato alla sindrome Nimby (“Non nel mio cortile”), patriottici
richiami allo spirito del Conte di Cavour “padre” del primo traforo del Frejus
e molto altro ancora. Poi, visto che gli “indiani di valle” non
accennavano a demordere si è cambiato registro.
È iniziata
così la seconda fase, quella “del bastone e della carota”, nella quale
si sono susseguiti tentativi di “comprare” il movimento con promesse di
compensazioni (lustrini e perline dei tempi moderni), istituzione di finti
tavoli di concertazione (a cominciare dall’Osservatorio per
l’asse ferroviario Torino-Lione, pubblicizzato come luogo del confronto
democratico, ma presto trasformatosi in “caminetto” riservato ai sindaci
favorevoli all’opera), velate minacce di interrompere il confronto e di passare
alle “maniere forti”. Ma l’effetto è stato opposto a quello sperato: il
movimento no Tav, lungi dal disgregarsi, si è ulteriormente rafforzato, è
riuscito a impedite carotaggi e apertura di cantieri, è diventato un
riferimento nazionale e internazionale, ha aggregato tecnici
e intellettuali e ha riscosso un ampio consenso di opinione (quantificato,
dall’Ispo di Mannheimer, in un’indagine commissionata dal Corriere
della Sera all’inizio del 2012, nel 44 per cento degli italiani).
Ciò ha
aperto la strada alla terza fase: quella della criminalizzazione e
della repressione, iniziata nel 2005 e sviluppatasi in
modo particolarmente brutale a partire dal 2011, dopo lo sgombero del presidio
allestito alla Maddalena di Chiomonte per impedire l’inizio dello scavo di un
tunnel geognostico e i connessi scontri. I passaggi fondamentali di questa
fase sono, in estrema sintesi, i seguenti:
a) la creazione, in Val Susa, di una
sorta di stato di eccezione realizzato attraverso un’inedita militarizzazione
del territorio (assai maggiore di quella riscontrabile in zone a forte presenza
criminale, con presenza massiccia, in funzione dissuasiva e di
controllo, di forze dell’ordine e di reparti dell’esercito, spesso in tenuta
antisommossa); l’istituzione (in evidente continuum con
la prassi iniziata a Genova nel luglio 2001) di zone rosse in
prossimità dei cantieri (aperti o semplicemente previsti), con divieto
generalizzato di accesso, recinzioni di filo spinato e concertina e presidi di
forze di polizia (si contano, dal 2011, oltre 50 ordinanze prefettizie in tal
senso, emesse senza soluzione di continuità ai sensi dell’art. 2 del Testo
Unico di Pubblica Sicurezza, che – come noto – le prevede solo «nel caso di
urgenza e per grave necessità pubblica»…; una gestione dell’ordine
pubblico, in occasione di qualsivoglia evento o manifestazione, disinteressata
a ogni forma di contrattazione e caratterizzata da interventi
estremamente violenti, uso di idranti, lancio di lacrimogeni ed addirittura di
gas vietati da convenzioni internazionali;
b) un provvedimento
legislativo ad hoc (l’art. 19 della legge n. 183/2011) con il
quale «le aree e i siti del Comune di Chiomonte, individuati per
l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione
del tunnel di base della linea ferroviaria Torino-Lione, costituiscono aree di
interesse strategico nazionale»;
c) la torsione della
giurisdizione da luogo di accertamento di eventuali responsabilità per
reati specifici in protagonista di politiche di diretta tutela dell’ordine
pubblico, con alcune modalità del tutto anomale: c1) l’istituzione,
presso la Procura della Repubblica di Torino, di un pool per
la persecuzione dei reati connessi con l’opposizione al Tav
addirittura prima dell’esplodere del conflitto e dei connessi reati (e il
suo attuale assorbimento nel Gruppo Terrorismo ed Eversione dell’Ordine
Democratico: sic!); c2) la creazione di
corsie preferenziali per la trattazione dei procedimenti a carico di
appartenenti al movimento no Tav (anche se per reati di minima entità, come i
danneggiamenti alle reti dei cantieri, accantonati, secondo le disposizioni organizzative
dell’ufficio, ove commessi in altri contesti), a fronte dell’inerzia o dei
tempi lunghi riservati a quelli a carico degli operatori di polizia; c3) la
lievitazione del numero di indagati e arrestati (nel periodo dal 2011 al 2019,
gli imputati sono stati oltre 2.000 con una punta di 327, quasi uno al giorno,
nel 2011); c4) la dilatazione impropria, da parte della
Procura della Repubblica e dei giudici della cautela, del concorso di
persone nel reato sino a delineare quella che è stata definita una
“responsabilità da contesto”; c5) il ricorso a contestazioni
(a dir poco) sovradimensionate, sino a quella di «attentato per finalità
terroristiche» (la cui infondatezza è stata dichiarata in tutti i gradi di
giudizio ma che, intanto, ha prodotto effetti devastanti tra i
quali un anno di carcere duro e in condizioni di isolamento per gli
imputati e di massacro mediatico per l’intero movimento no Tav); c6) l’uso
massiccio, anche nei confronti di incensurati, di misure cautelari, trasformate
da extrema ratio in regola (fondate sempre su una presunta
pericolosità sociale, perlopiù desunta da annotazioni incontrollate di polizia
e spesso esclusa nei successivi dibattimenti); c7) il
frequente diniego, in fase esecutiva, di misure alternative al carcere, nonostante
l’inserimento sociale e l’attività lavorativa dei condannati, con motivazioni
concernenti esclusivamente l’appartenenza al movimento No Tav;
d) il ricorso sempre più ampio
(60 casi nella sola estate 2023) a misure di prevenzione o di polizia,
in particolare l’avviso orale, il foglio di via e l’obbligo di soggiorno;
e) il ricorso ad azioni civili
vessatorie, come le
richieste di risarcimento dei ministeri degli Interni e della Difesa nei
confronti di attivisti in relazione ai costi sostenuti dall’amministrazione per
«l’attività infoinvestigativa svolta ai fini dell’individuazione dei
responsabili degli illeciti […] e di ripristino dell’ordine pubblico»;
f) un’ulteriore aggressione ai
patrimoni degli esponenti più attivi del movimento mediante l’applicazione di
sanzioni amministrative per fatti (diffusione di musica,
somministrazione di bevande senza autorizzazione, infrazioni al codice della
strada etc.) intervenuti nel corso di manifestazioni o eventi abitualmente
tollerati in occasioni analoghe;
g) il supporto di una
informazione embedded (in particolare della Stampa,
della Repubblica e del Tg3) arruolata nell’attività di
propaganda e onnipresente partecipe delle operazioni di ordine
pubblico al seguito delle forze di polizia, le cui pagine sono diventate simili
a comunicati stampa della Procura e sempre meno distinguibili dai mattinali
della Questura.
4. È tempo di conclusioni. La
criminalizzazione e la repressione del dissenso in Val
Susa rappresentano una ipotesi scolastica di costruzione di
quel diritto penale del nemico che accompagna, da sempre,
l’irrigidimento autoritario delle istituzioni. Con due
necessarie chiose. La prima è che, dopo trent’anni, in Val Susa non è
ancora stato costruito neppure un metro della nuova linea ferroviaria Torino-Lione
e i tempi si stanno ulteriormente dilatando (anche per la parziale marcia
indietro della Francia, cointeressata all’opera): ma, in parallelo,
l’apparato repressivo lì utilizzato è diventato un sistema ordinario,
quotidianamente sperimentato dai lavoratori della logistica, dagli studenti
nelle piazze e nelle Università e dagli esponenti del movimenti ambientalisti
radicali, da Ultima Generazione a Extinction Rebellion (assurti al rango di
nemico pubblico). La seconda chiosa è che la repressione dei
movimenti sta diventando, con il governo della destra, più accentuata e
sistematica ma non è nata oggi: è stata sperimentata nel tempo con governi di
diverso colore (e, in particolare, da una sinistra sempre propensa a
fare la destra). Sarebbe tempo di aprire gli occhi e di cambiare
approccio. Forse non è troppo tardi…
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