Pubblichiamo
l’Introduzione a “Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di
liberazione animale” (2019, pp. 178), a cura di Niccolò Bertuzzi e Marco
Reggio, di recente uscita per Mimesis Edizioni. Ringraziamo gli autori e la
casa editrice per aver condiviso questo testo.
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Sembra
retorico e quasi pleonastico ribadire oggi, nel 2019, che un certo interesse
per la “questione animale” si sia affacciato alle porte del mondo occidentale e
che in molti casi quelle porte le abbia abbondantemente varcate conquistando,
per lo meno a tratti, una certa rilevanza nel discorso pubblico, nelle forme di
consumo, negli stili di vita e nelle pratiche quotidiane degli individui
contemporanei. Le ragioni alla base di questo fenomeno sono diverse, legate a
dinamiche sociali il più delle volte esultanti dall’interesse “puro” per gli
animali. Ci riferiamo ad alcuni macro-processi discussi da filosofi e sociologi
del secolo scorso, a partire da quello di modernizzazione analizzato già da Max
Weber e ripreso poi da diversi autori e autrici.
Altrettanto
retorico è segnalare il diffuso interesse che differenti discipline accademiche
stanno maturando per la questione animale, arricchendo sempre più – alle volte
anche a scapito di una minima sistematicità – il fervente campo degli Animal
Studies. Una panoramica esaustiva di questa letteratura esula certo dagli
obiettivi del testo. Tuttavia, un riferimento al primo corso universitario di
Animal Studies in Italia – quello inaugurato nell’anno accademico 2017/2018
all’Università degli Studi di Milano dal professor Gianfranco Mormino – è
doveroso, anche perché sintomo di un crescente interesse del mondo accademico
(anche italiano, finalmente!) e, al tempo stesso, di una domanda proveniente
dalle generazioni più giovani. Ci auguriamo tuttavia che l’istituzione di
questa cattedra sia soltanto un punto di partenza, o per lo meno una tappa
intermedia che segue al proliferare di tesi di laurea e di dottorato prodotte
in anni recenti.
Fatte queste
notazioni, il volume che vi apprestate a leggere si colloca in una “zona
grigia” fra accademia, sociologia pubblica e attivismo: si propone di uscire
dalla “torre d’avorio” universitaria abitata per forza di cose da un pubblico
selezionato. Al contempo – lo diciamo da subito e a scanso di equivoci – non
intende essere un libro ecumenico e “per tutti i palati”. È un libro che
consapevolmente adotta un approccio “situato” – à la Bourdieu – e anche una
prospettiva partigiana. Se non si tratta di un’opera per docenti e specialisti,
non è nemmeno un’opera di divulgazione massiva, e – ancor più importante – non
è un pamphlet o un manifesto.
Una volta
puntualizzato di cosa non si tratta, veniamo al compito ben più difficile di
spiegare in breve di cosa si tratti. Quello che vogliamo proporre è un punto
della situazione, uno stato dell’arte dell’antispecismo italiano (o meglio, di
alcune sue aree), dando la parola ad autori e autrici che nella stragrande
maggioranza dei casi sono effettivamente attivisti/e, ma che hanno maturato
percorsi di elaborazione teorica di elevato spessore intorno alle loro
pratiche. In modo particolare, nel libro vengono prese in considerazione alcune
“nuove frontiere” o “nuove prospettive” dell’antispecismo (nuove, quantomeno,
per l’Italia) o eventualmente alcune declinazioni variamente innovative di
elementi già presenti in passato. Non perché curatori e nemmeno autori/autrici
dei vari capitoli (ci prendiamo in questo caso la libertà di interpretare
l’altrui pensiero) siano fan del “nuovismo” o della “rottamazione”. Senza
essere apologetici, riteniamo infatti imprescindibile la riconoscenza e il
riferimento nei confronti di chi e di cosa ci ha preceduti, e soprattutto
crediamo sia fondamentale uno sguardo critico alle tendenze attuali ancor più
che una loro esaltazione rispetto agli “errori” o alle lacune del passato.
Proprio per questo motivo il libro si concentra sulle “avanguardie”
dell’antispecismo italiano, ma con uno sguardo spesso piuttosto disincantato e
anche esplicitamente (auto)critico.
Una delle
principali speranze che abbiamo è che la lettura di questo libro si dimostri
stimolante e arricchente anche per chi è impegnato/a in altri tipi di
attivismo, partecipazione e conflitto, diversi da quelli animalisti. Come
anticipavamo, infatti, non vogliamo rivolgerci a chiunque indistintamente. O
meglio, vorremmo farlo, ma senza svendere il nostro punto di vista: e cioè
quello secondo cui la “questione animale” non va affrontata come questione a sé
stante ma come parte di un approccio più generale, sommariamente sintetizzabile
come anticapitalista e contro-egemonico. È perciò a nostro avviso fondamentale
tessere in maniera sempre più fitta quei legami fra lotte e riflessioni militanti
(le famose “intersezioni”) che, nel caso dell’animalismo, continuano da troppo
tempo ormai a vivere un percorso carsico fatto di alti e bassi, di momenti in
cui sembra che le istanze in favore dei non umani vengano positivamente accolte
anche presso altri movimenti sociali alternati a momenti in cui l’ottimismo
lascia spazio alla realistica constatazione di un percorso ancora lungo e
impervio.
Riteniamo,
quindi, che soltanto a partire da un approccio intersezionale sia davvero
possibile smontare la gabbia: non più dunque soltanto allargarla (come alcune
prospettive solitamente definite riformiste o moderate propongono), ma nemmeno
“soltanto” svuotarla (nella linea solitamente perseguita dall’animalismo che
viene definito radicale da parte dei media mainstream). Una gabbia vuota, per
carità, è un risultato fondamentale. Di più: abdicando alla nostra prospettiva
e facendo uno sforzo di “realismo pragmatico”, sappiamo che anche una gabbia
più larga non è cosa da poco per chi in quella gabbia è costretto a viverci
(spesso soltanto in funzione di morirci). Tuttavia gabbie “soltanto” più larghe
o più vuote, ne siamo convinti, ci metterebbero poco a restringersi o riempirsi
nuovamente.
Ciò che
serve è a nostro avviso un effettivo smontaggio dei meccanismi e dei presupposti
che danno vita alle gabbie che tengono prigionieri milioni di animali non
umani, ma anche un numero sterminato di umani: ex-coloni, donne, disabili,
migranti, individui variamente esulanti dal binarismo cis-gender, solo per
citare alcune categorie di sfruttati/e.
L’animalizzazione
resta, infatti, uno dei metodi più efficaci di umiliazione e giustificazione
dello sfruttamento ai danni degli umani, oltre a rappresentare un fastidioso e
scorretto uso di retoriche denigratorie tramite l’uso delle altre specie in
modalità decontestualizzata. Si pensi all’uso dell’animale come insulto
sessista (“oca”, “gallina”, “cagna”), all’immaginario razzista dell’altro come
animale infestante (gli ebrei come “ratti” o i moderni migranti come parassiti
e invasori), alla diffamazione dell’avversario politico tramite il ricorso
all’identificazione con altre specie (i “maiali”, i “porci”, i “topi di fogna”
che costellano le stesse retoriche anticapitaliste). Non una questione
meramente linguistica, ma lo specchio di un sistema di dominio generalizzato
che, a partire dal linguaggio e fino a forme più tangibili di sfruttamento,
costruisce gabbie dentro cui sono imprigionati diversi tipi di soggetti, non
solamente animali.
Alla luce di
queste riflessioni, riteniamo che sia quanto mai necessario affrontare la
“questione animale” dentro a meccanismi che la trascendono, o al massimo la
sottendono, ma non coincidono totalmente con essa. Ci riferiamo in sostanza
all’imposizione di un sistema economico capitalista e all’affermazione della
modernità come trionfo dell’individualismo più secolarizzato e inconsapevole.
Solo sapendo individuare lo sfruttamento animale all’interno delle pieghe di
questi macro-processi, si può effettivamente sviluppare un discorso di critica
antispecista.
Pensiamo che
soprattutto alcune nuove prospettive dell’antispecismo siano particolarmente
efficaci e promettenti. Prima di darne una breve panoramica e di introdurre la
struttura delle sezioni che compongono il libro, preme un’ultima
considerazione. Non vorremmo che alcune nostre precedenti osservazioni e il
riconoscimento di un crescente interesse per la questione animale fossero
interpretate come infatuazioni post-moderniste dei due curatori o come una loro
miopia nei confronti di un sistema a ogni effetto tuttora assolutamente e
insindacabilmente specista. Siamo consci della posizione svantaggiata che
occupano gli animali non umani nella nostra società, e in particolare in un
Paese tuttora dominato da tradizioni carnee, lobby della caccia, maratone televisive
a supporto della sperimentazione animale, palii, circhi, ecc. Siamo altrettanto
consapevoli del fatto che, seppur a vario titolo, vi siano importanti
discriminazioni nei confronti degli animalisti/e. In particolare si è parlato
di un fenomeno – la vegefobia – che avrebbe caratteristiche simili a omofobia e
razzismo. Se fino a qualche tempo fa, in Italia quantomeno, la discriminazione
nei confronti di attivisti/e antispecisti/e e vegan era principalmente relegata
a una sottovalutazione, derisione e ostracizzazione delle loro istanze (non
solo su media e discorso pubblico, ma anche in molti ambienti di movimento),
oggi invece l’asticella si è alzata notevolmente: alcuni episodi di violenza
fisica esplicitamente rivolti a soggetti vegan hanno avuto luogo, infatti,
anche in Italia . Non è certo questo il problema fondamentale – sarebbe
evidentemente un approccio antropocentrico – ma anche questo è uno dei tasselli
di una gabbia che speriamo questo libro possa contribuire a smontare.
Veniamo
dunque, infine, a una presentazione più analitica dei vari capitoli di questo
libro. Il testo è suddiviso in tre parti principali, che propongono
rispettivamente: uno sguardo sull’attivismo antispecista; una panoramica dei
principali temi che stanno affiorando in questi anni; alcuni esempi di pratiche
che rivestono un particolare interesse per chi si approccia allo studio dei
movimenti animalisti/antispecisti in Italia.
Nella prima
sezione, Nicola Righetti affronta da un punto di vista sociologico uno dei nodi
principali rispetto all’identità dei movimenti antispecisti, il veganismo. Non
un tema nuovo dunque e nemmeno una nuova prospettiva. Le peculiarità assunte
negli ultimi anni necessitano tuttavia di un’analisi puntuale. Il veganismo,
infatti, è un oggetto centrale per chi osserva – tanto “dall’esterno” quanto
“dall’interno” – le lotte per i diritti animali, ma è al tempo stesso un
oggetto sfuggente: pratica di consumo, espressione di un’istanza etica o di un
posizionamento politico, elemento costitutivo di una comunità piuttosto
eterogenea. Tanto da costituire uno degli argomenti al centro del dibattito fra
animalisti/e, un dibattito che non di rado sfocia nella polemica aspra. Del
resto, lo stile di consumo, e in particolare il modo di cibarsi (con tutte le
implicazioni relative alla sfera simbolica, alla convivialità e all’identità
culturale), costituisce inevitabilmente la chiave di accesso alla questione
animale nel discorso pubblico.
Il rapporto
con l’opinione pubblica, tuttavia, risente delle modalità scelte – o, talvolta,
subite – dai movimenti animalisti per relazionarsi con l’immaginario
collettivo. Come mostra il contributo di Francesca De Matteis e Niccolò
Bertuzzi sull’attivismo nell’era delle tecnologie digitali, tali scelte sono
tutt’altro che neutre, e, anzi, ci dicono molto sulle visioni del mondo e della
politica di chi le compie. Una possibile chiave di lettura della mobilitazione
in favore dei non umani è quella di distinguere proprio fra le diverse
strategie di comunicazione, mostrando come a diverse tipologie di campagne di
protesta o sensibilizzazione corrispondano (anche se non sempre) soggetti
diversi e diverse opinioni sui rapporti fra questione animale e altri temi
sociali. Lo spettro di possibilità va dall’animalismo “puro”, ove sembra
scontato isolare e risolvere il problema dello sfruttamento animale in modo del
tutto indipendente da altre istanze, all’antispecismo più consapevole dei
legami fra liberazione umana e animale.
A partire da questo argomento “sensibile” prende le mosse il contributo dei due curatori, che chiude la prima sezione. Le diverse visioni dell’animalismo si riflettono anche sulle relazioni con la politica di palazzo e in particolare con le destre o con formazioni populiste, soprattutto in un contesto come quello italiano in cui queste esprimono diverse strategie per canalizzare la sensibilità animalista e tradurla in consenso. La tornata elettorale del 4 marzo 2018 può essere vista come una manifestazione paradigmatica dell’articolazione di discorsi pro-animali “da destra” e della loro capacità di attecchire su un terreno scarsamente preparato dal punto di vista politico/elettorale e sostanzialmente caratterizzato da posture qualunquiste che vedono nella questione animale un tema trasversale. Sulla base di tali considerazioni, il saggio analizza approcci e discorsi di berlusconismo (nella figura soprattutto di Michela Vittoria Brambilla), leghismo, estremismo di destra e Movimento 5 Stelle.
A partire da questo argomento “sensibile” prende le mosse il contributo dei due curatori, che chiude la prima sezione. Le diverse visioni dell’animalismo si riflettono anche sulle relazioni con la politica di palazzo e in particolare con le destre o con formazioni populiste, soprattutto in un contesto come quello italiano in cui queste esprimono diverse strategie per canalizzare la sensibilità animalista e tradurla in consenso. La tornata elettorale del 4 marzo 2018 può essere vista come una manifestazione paradigmatica dell’articolazione di discorsi pro-animali “da destra” e della loro capacità di attecchire su un terreno scarsamente preparato dal punto di vista politico/elettorale e sostanzialmente caratterizzato da posture qualunquiste che vedono nella questione animale un tema trasversale. Sulla base di tali considerazioni, il saggio analizza approcci e discorsi di berlusconismo (nella figura soprattutto di Michela Vittoria Brambilla), leghismo, estremismo di destra e Movimento 5 Stelle.
La seconda
sezione fa emergere quindi le elaborazioni che, al confine fra teoria e pratica,
hanno assunto carattere di novità nel nostro Paese. Si parte dagli allevamenti
“etici” o “sostenibili”, tema oggetto di discussione da alcuni anni anche
all’estero, dove assume specificità locali (si veda per esempio l’interesse
statunitense per il locavorismo e i suoi aspetti critici). Il prezioso lavoro
del collettivo “BioViolenza”, che qui racconta sé stesso e gli sviluppi della
critica alla cosiddetta “carne felice”, ha permesso di far emergere un ambito
di produzione di prodotti e immaginari che vanno dalla carne biologica al mito
della vecchia fattoria passando per le normative sul benessere animale. Un
lavoro che è stato al tempo stesso teorico – con la traduzione di testi,
l’elaborazione di una critica serrata, la produzione di contro-narrazioni – e
pratico – con interventi di contestazione pubblici, manifestazioni e azioni di
disturbo. Se inizialmente la critica all’allevamento sostenibile poteva essere
tacciata di purismo ideologico in quanto interessata a puntare l’attenzione su
una nicchia di mercato, col passare del tempo essa ha saputo mostrare
l’importanza di comprendere, se non anticipare, le strategie discorsive e
pubblicitarie dell’industria dello sfruttamento animale.
Qualche anno
dopo, emerge una prospettiva per certi versi maggiormente straniante, quella
della resistenza animale, al centro del successivo capitolo. Anche in questo
caso, abbiamo dato voce all’omonimo collettivo che ha promosso una discussione
sul tema tramite strumenti teorici, ma anche tramite mobilitazioni su singoli
casi di animali fuggitivi, e soprattutto tramite un’opera di documentazione
costante degli episodi di ribellione negli zoo, nei circhi, nei laboratori,
negli allevamenti e nei mattatoi. È stato probabilmente grazie a quest’ultimo
punto che oggi esiste un’ampia fetta di attivisti/e, in Italia, che trova del
tutto normale mettere in discussione gli atteggiamenti “eroici” dell’animalismo
umano con la sua pretesa di prendere parola al posto dei soggetti oppressi.
Una visione
non paternalista, peraltro, permette di intraprendere un dialogo con altri
movimenti sociali su nuove basi, come suggerito dall’ultimo contributo della
sezione, in cui feminoska prende le mosse proprio da Animals without Borders,
il libro di Sarat Colling sulla resistenza animale , per discutere i vantaggi e
gli aspetti critici di un posizionamento transfemminista queer e decoloniale
per le istanze di liberazione animale. La storia recente dei rapporti fra
pensiero antispecista e teoria queer fa emergere qui sia le potenzialità sia
gli aspetti critici delle alleanze fra movimenti, esortando allo stesso tempo a
non dare per scontate le affinità fra le lotte e a ricercare i punti di
contatto fra le oppressioni.
Infine,
nella terza sezione compaiono i contributi maggiormente “a contatto” con le
pratiche. Il tema dell’intersezionalità si riflette nell’esperienza di un
gruppo antispecista (Farro&Fuoco) attivo nel movimento No Expo a Milano,
un’esperienza commentata da Francesca Gelli con l’intento di fare il punto
sull’urgenza – e i problemi – di un attivismo per i non umani che si
autodichiara anticapitalista, e che individua nella critica al sistema di
produzione attuale e alla distribuzione colonialista delle risorse un nodo
centrale per l’evoluzione del discorso pubblico sullo sfruttamento animale. Un
nodo che evoca anche le difficoltà di relazione fra due mondi: da una parte,
gli ambiti di movimento che – pur nella loro radicalità – si sono formati in un
contesto sostanzialmente antropocentrico; dall’altra, l’ambiente antispecista,
troppo spesso adagiatosi su una visione del veganismo come stile di consumo
perfettamente compatibile con l’attuale assetto neoliberista.
Il secondo
contributo della sezione, a firma di Agripunk e Maria Cristina Polzonetti,
introduce lettori e lettrici a quella che forse è attualmente la traduzione in
prassi più visibile delle istanze di liberazione animale, e cioè i rifugi per
animali “da reddito” liberati, che in molti paesi sono già da tempo preziose
eterotopie e luoghi di diffusione del pensiero antispecista. Anche in questo
caso, però, le cose non sono così semplici come potrebbero sembrare: accogliere
animali scampati dallo sfruttamento in un contesto in cui questo stesso
sfruttamento è accettato come del tutto normale da vari punti di vista
(giuridico, culturale, politico) significa farsi carico in modo molto concreto
di contraddizioni forti, cercando di contemperare le esigenze di una visione
radicalmente “altra” e quelle della cura dei singoli individui con le proprie
storie di sofferenza e resistenza.
Ancora la
resistenza animale costituisce, per certi versi, un filo conduttore che conduce
a ridiscutere il nostro rapporto – di umani, di cittadini/e, ma anche di
attivisti/e – con gli animali apparentemente privilegiati, i cani e i gatti che
vivono negli appartamenti. Attraversando il fenomeno del randagismo – quello
che è significativamente chiamato “piaga” dagli stessi animalisti – nell’ultimo
capitolo di questo libro, Davide Majocchi presenta il percorso che lo ha
portato a ideare e discutere in diversi ambienti il docu-film No Pet, a
proporre una visione critica del rapporto con gli animali “da compagnia” e a
incoraggiare un dibattito sui cani senza padrone che tenga il passo con i
progetti emergenti di gestione canina sul territorio. Non si tratta soltanto di
riconoscere piena agency anche ai membri di specie apparentemente più fortunate
o di denunciare l’esistenza di un ampio settore industriale che lucra su uno
sfruttamento meno plateale rispetto a quello dei mattatoi o dei circhi. Si
tratta anche di fare i conti con i complessi rapporti fra lo slancio
dell’opposizione antispecista allo sfruttamento e la necessità della cura, qui
e ora, in un contesto specista.
Tutti i
contributi di questo libro restituiscono, speriamo, l’immagine di una
complessità ineliminabile, una complessità che necessita, per essere
affrontata, di un rapporto costante fra teoria e prassi, fra visione utopica e
contatto con le vite concrete e con le dinamiche sociali. In questo senso, non
pretendiamo di fornire facili risposte, ma al contrario di moltiplicare le
domande. Mentre i movimenti antispecisti vengono spesso ridotti a un generico
appello all’“amore per gli animali”, auspichiamo che questa raccolta di testi,
insieme ad altre che la seguiranno, riesca al contrario a mostrare la ricchezza
di riflessioni, discussioni e pratiche che al suo interno si stanno sviluppando
in questi anni, poiché siamo fermamente convinti che soltanto un movimento
(auto)critico potrà essere in grado di contrastare l’immane violenza che il
sistema di produzione e di governo neoliberista riproduce incessantemente sul
piano simbolico e materiale.