mercoledì 22 luglio 2015

Exxon Valdez, la strage lenta - Maria Rita D'Orsogna

Sono passati cinque anni dallo scoppio nel golfo del Messico. Mi ricordo dove ero quel 20 aprile – era mattina ed ero a casa e mi chiamò il mio amico Tom Chou, lo stesso con cui scrissi l’articolo dell’idrogeno solforato, per dirmi di questo disastro in Louisiana.
In questi cinque anni, articoli di stampa, articoli scientifici, leggi, decisioni di corti di vario livello, miliardi di dollari pagati e richiesti – con l’ultimo pagamento di 18.7 miliardi che la BP dovrà versare al governo federale per i danni causati e che vanno ad aggiungersi agli altri 30 già pagati.
Dopo cinque anni delle tante cose che si possono dire, quella più vera è che siamo solo all’inizio e che ci vorranno anni ed anni per arrivare ad una qualche semblanza di normalità per chi ha perso salute, stile di vita e a volte anche lavoro.
Una delle lezioni piu interessanti arrivano dall’incidente della Exxon Valdez, nel1989. Dopo neanche trent’anni, quasi tutti coloro che hanno lavorato alle operazioni di pulizia sono tutti morti o malati.
La vita media per chi ha lavorato in Alaska dopo lo scoppio è stata di cinquantuno anni.
I pochi rimasti in vita soffrono di tossi persistenti, lacrimazione agli occhi, nausea, vomito e dolori in tutto il corpo. La persona tipica che si rese disponibile ad aiutare nelle operazioni di pulizia in Alaska era economicamente in difficoltà (e chi sennò andrebbe di sua spontanea volontà in mezzo al petrolio?) che per sei settimane ha spruzzato acqua bollente in mare e lungo la sabbia con evaporazione di petrolio in atmosfera. Che ha ovviamente inalato.
Al tempo dello scoppio, la ditta e i lavoratori la chiamavano “Exxon crud”. Era una specie di tosse petrolifera, visto che era diffusissima fra gli addetti. E siccome era consierata una specie di influenza, nessuno ci pensò troppo. La Exxon ha eseguito nel corso degli anni ogni tipo di studio su ogni tipo di animali ed esseri viventi entrati a contatto con il petrolio: granchi, cozze, pesci, papere, aquile e pure cervi ed orsi, ma mai persone.
Fra chi è rimasto in vita Roy Dalthorp, a suo tempo disoccupato e che dopo le sue seti settimane ha sviluppato problemi di respiro e di lacrimazione che durano tuttoggi. Nessuno della Exxon l’ha mai esaminato, né durante né dopo le operazioni di pulizia. Lui dice di essere stato lentamente avvelenato.
“I had no choices, because I was behind on my house payments, and no health insurance”.
Entra in scena Dennis Mestas, avvocato che inizia a indagare le cartelle cliniche dei lavoratori della Exxon a Houston. Su 11.000 lavoratori della Exxon con sede in Alaska, 6,722 si sono ammalati. Decide che uno dei casi più lampanti era quello di Gary Stubblefield, con la stessa storia di Roy Dalthorp: problemi di respiro e di generale cedimento fisico. La Exxon lo paga 2 milioni di dollari, pur di non andare a processo. Pochi altri ex lavoratori hanno avuto la stessa “fortuna” di essere risarciti.
D’altro canto, la Exxon ribadisce che non può commentare o confermare le cifre dei lavoratori ammalati perché questi erano temporanei e non si sa che malattie avessero sviluppato prima o dopo. E aggiungono che nessuno si è lamentato con loro. E quindi… tuttapposto.
E per le operazioni di pulizia della BP? I lavoratori della BP hanno respirato metano, benzene, idrogeno solforato e il dispersante Corexit e secondo il tossicologo Ricki Ott, fra i lavoratori della Louisiana ci sono stati gli stessi esatti sintomi che in Alaska nel 1989. Ci si lamenta di mal di testa, fatica, problemi intestinali e di concentrazione e memoria, irritazione alla gola e agli occhi, mancanza di respiro, tosse e nausea. Esiste pure una nuova malattia: Tilt, toxicant-induced loss of tolerance, per descrivere i malati delle operazioni di pulizia petrolifera.
Fra i lavoratori della BP almeno in 160 si sono ammalati e in venti sono finiti all’ospedale. Ma la BP specifica: “per poco tempo”.
Non abbiamo imparato niente. Evviva.

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