sabato 23 febbraio 2019

L’essere umano è il responsabile di epidemie e disastri ambientali - Gwynne Dyer


La peste nera uccise circa il 30 per cento della popolazione europea in pochi anni, a metà del quattordicesimo secolo. Un secolo e mezzo dopo i nativi d’America furono colpiti da una decina di epidemie altrettanto gravi, una dopo l’altra, che uccisero il 95 per cento di loro. Le malattie di quella “grande morìa” (per usare un’espressione della paleontologia) avevano nomi molto meno terrificanti, come morbillo, influenza, difterite e vaiolo, ma uccidevano allo stesso modo.
Quando decine di milioni di nativi americani morirono, sulle terre che usavano per l’agricoltura e l’allevamento ricrebbero le foreste. Tutte queste foreste assorbirono così tanta anidride carbonica che la temperatura globale media calò, e quello che altrimenti sarebbe stato un raffreddamento ciclico minore divenne la piccola era glaciale. Il freddo fu tale che molti europei morirono di fame.
Il direttore di ricerca dell’équipe dell’University College di Londra che ha messo insieme tutti questi puntini è il dottorando Alexander Koch (proprio così, non ha ancora conseguito il suo dottorato). Ha preso in prestito l’espressione “grande morìa” dai paleontologi, che la usano per descrivere l’estinzione di massa alla fine del Permiano, 252 milioni di anni fa, il periodo più letale di tutti. Ma funziona anche per gli esseri umani.

Vantaggi e somiglianze
Quando Cristoforo Colombo arrivò nei Caraibi nel 1492, circa sessanta milioni di persone vivevano nel continente americano, e il 99 per cento di loro era già agricoltore. La civiltà eurasiatica aveva un po’ di vantaggi – utensili d’acciaio, imbarcazioni oceaniche, anche la polvere da sparo – ma il numero di abitanti e le economie erano molto simili: gli europei erano settanta o ottanta milioni, in gran parte erano agricoltori.
Un secolo dopo i nativi americani rimasti erano solo sei milioni: un tasso di mortalità del 90 per cento. Eppure all’epoca gli europei nel continente americano erano ancora solo 250mila. È chiaro che non avrebbero potuto uccidere gli altri 54 milioni di nativi. Ma le loro malattie sì.
Il problema era che i nativi americani non avevano alcuna difesa ereditaria per quelle malattie eurasiatiche che gli europei avevano portato con sé, e che uccidevano rapidamente. Queste malattie erano emerse nei paesi densamente popolati dell’Europa e dell’Asia orientale, una dopo l’altra, nel corso di migliaia di anni, trasmettendosi dalle mandrie e dalle greggi di animali addomesticati ai loro proprietari umani, i quali vivevano a loro volta in condizioni di gregge.

Tragedia inevitabile
Ciascuna di queste nuove malattie aveva ucciso milioni di persone prima che i sopravvissuti sviluppassero qualche forma di resistenza, ma le popolazioni di Asia, Europa e Africa avevano avuto il tempo di riprendersi prima che emergesse la nuova epidemia. I nativi americani hanno dovuto fare i conti con tutte queste malattie in una volta sola, senza averne alcuna da restituire agli invasori, poiché questi ultimi non possedevano grosse greggi di animali.
La tragedia era inevitabile fin dal primo contatto. Se gli unici eurasiatici a raggiungere il continente americano fossero state delle amorevoli suore spagnole – o dei pacifici monaci cinesi – la grande morìa si sarebbe comunque verificata.
Quel che davvero interessa Alexander Koch e i suoi colleghi è che quell’evento provocò il più ampio abbandono di terreni coltivabili di tutta la storia. I sei milioni di sopravvissuti non avevano bisogno di tutto quel terreno per l’agricoltura e l’allevamento, e così le foreste sono ricresciute velocemente. Crescendo, queste assorbirono grandi quantitativi di anidride carbonica, riducendo la quantità presente nell’atmosfera globale di circa dieci parti per milioni (10 ppm).
Di conseguenza diminuì anche la temperatura media globale, che era già di per sé un po’ più bassa del solito a causa dei cambiamenti ciclici dell’orbita terrestre. La piccola era glaciale è durata oltre duecento anni e ha probabilmente provocato due milioni di morti supplementari nelle locali carestie eurasiatiche.
Ma oggi il nostro impatto sull’ambiente è cresciuto al punto che una riduzione di 10 ppm di diossido di carbonio nelle nostre emissioni è quasi ininfluente. Stiamo attualmente aggiungendo 10 ppm di diossido di carbonio nell’atmosfera ogni quattro anni.
D’altro canto, se dovessimo riforestare tutto il terreno sgomberato nel mondo negli ultimi 150 anni e che non costituisce terreno agricolo primario, potremmo bloccare 50 ppm di diossido di carbonio. Questo potrebbe darci il tempo necessario ad abbassare le nostre emissioni di gas serra senza scatenare un riscaldamento incontrollato.
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E invece i brasiliani hanno eletto presidente Jair Bolsonaro, per tagliare di netto l’Amazzonia, e gli Stati Uniti hanno fatto lo stesso con Donald Trump, con l’obiettivo di subappaltare la politica climatica del loro paese all’industria dei carburanti fossili.
Ne sappiamo molto di più dei nativi americani sugli elementi che decideranno il nostro futuro. Ma potremmo non essere molto più bravi di loro nell’evitare una fine analoga.
(Traduzione di Federico Ferrone)

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