Il 5 dicembre si è tenuto presso il Dipartimento di Economia
dell’Università Roma Tre l’evento “Perché ripensare l’Economia? – per una
riforma dell’Università”, organizzato da Rethinking Economics Italia.
Erano presenti, oltre al sottoscritto, Francesco Saraceno, Francesco Sylos Labini, Pasquale Tridico e
il viceministro del Miur, Lorenzo
Fioramonti.Come è facile capire, la domanda che ha dato il titolo
all’evento travalica le questione interne alle mura accademiche e ha a che fare
con l’intero destino della nostra società. L’urgenza di ripensare l’economia
infatti non è solo una rivendicazione di un sempre più largo gruppo di studenti
e ricercatori in giro per il mondo, ma una vera e propria necessità politica,
che riguarda tutti noi e determinerà le possibilità stesse della nostra civiltà
di superare la crisi sociale, ambientale ed economica che stiamo
attraversando.Gravi disuguaglianze, una crescita ingiusta e stagnante, la
precarietà che è diventata la cifra di un’intera generazione, emigrazioni di
massa, un ambiente sull’orlo del collasso, i popoli in preda a una rivolta
sociale.Questi sono solo alcuni dei sintomi che denotano una crisi di portata
storica, che nei prossimi anni modificherà radicalmente il profilo delle nostre
società, ma di cui l’economia mainstream, ossia quella insegnata e divulgata
nelle maggiori università e dai principali mass media, non solo ignora le cause
ma sembra anche aver contribuito ad esacerbare gli effetti.Da questa
prospettiva le istanze di cambiamento che sono interne ai dipartimenti di
economia e quelle che si esprimono nel segreto dell’urna elettorale non
appaiono più così lontane. L’insoddisfazione espressa da migliaia di studenti
in giro per il mondo che si sono aggregati nel network Rethinking Economics e
l’avanzata dei partiti anti-sistema, seppur nelle loro differenze, sembrano
essere legati indissolubilmente alla stessa ondata storica di richiesta di
cambiamento. In altre parole, vorrei argomentare, la nostra cultura dovrebbe
iniziare a chiedersi con maggiore serietà se non siano i concetti diffusi e studiati
nei dipartimenti di economia a costituire parte dei problemi che ci troviamo
poi ad affrontare nella nostra quotidianità politica.Ma procediamo con ordine.Cercherò qui di distinguere due filoni di
critica, uno interno all’economia accademica e uno esterno. Entrambi
ci serviranno per capire sia la situazione attuale dell’insegnamento
universitario sia le radici epistemologiche e politiche che gli sono alla base,
da cui quindi si può immaginare di impostare un eventuale ripensamento.Hyman
Minsky, grande economista statunitense e teorico dell’instabilità finanziaria,
già quaranta anni fa esprimeva grande diffidenza rispetto alle modalità
ordinarie di insegnamento dell’economia. A suo avviso, e qui entriamo nel primo
filone di analisi, i curricula accademici erano strutturalmente
anti-intellettuali, costruiti cioè su una fondamentale carenza di pensiero.La
mancanza di corsi di storia del pensiero economico, secondo Minsky, impediva
allo studente sia di avere una conoscenza teorica approfondita sia, e a maggior
ragione, di maturare su di essa un’interpretazione critica, una sintesi
problematica e viva sulle questioni economiche fondamentali. Nulla a che vedere
quindi con una mera erudizione accademica. Al contrario Minsky riteneva che ciò
invalidasse il nucleo essenziale delle teorie diffuse nelle università, e che
questo indebolisse le capacità stesse degli economisti di comprendere e
dirigere i sentieri di politica economica rilevanti.In fondo lo stesso Keynes riteneva che nonostante
gli economisti fossero la classe degli intellettuali più importanti dell’epoca,
erano anche quelli meno competenti. E questa incompetenza non è certamente un
fatto naturale e non deriva in chiave necessaria dal profilo generale
dell’economista, ma è un effetto di una ristrettezza didattica che esclude ogni
ragionamento storico ed emargina qualunque voce di dissenso.Un altro punto
essenziale da sottolineare è la preoccupante carenza di pluralismo teorico e
metodologico all’interno dei curricula accademici. Come diretta conseguenza dell’assenza
della storia del pensiero, l’economia mainstream viene oggi
presentata nei caratteri di una scienza esatta, basata su leggi naturali,
indipendenti dal contesto storico e istituzionale, tecnicamente strutturate e
matematicamente deducibili. Più simile alla fisica che alla sociologia. Le
nozioni economiche vengono insegnate come un blocco monolitico di conoscenze,
fondate su una visione cumulativa della ricerca che procede unanimemente alla
frontiera e che non ammette teorie differenti, e che non necessita perciò di
alcuna analisi critica sulle assunzioni fondamentali.
I presupposti teorici circa il comportamento dell’uomo, la sua razionalità,
le sue interazioni, le proprietà emergenti da tali relazioni, il funzionamento
del lavoro, della moneta, e tutte le altre assunzioni critiche, come
direbbe Milton Friedman,
non vengono discussi e talvolta neanche onestamente esplicitati, sebbene
influenzino radicalmente le conclusioni analitiche e le implicazioni politiche
della teoria mainstream.
Naturalmente con questo non si vuole dire che all’economia manchino le
metodologie per rendere esatta la sua analisi. Il problema emerge quando ad una
particolare scuola di pensiero viene assicurata, per motivi extra-scientifici,
una presunzione di esattezza maggiore delle altre teorie, sebbene queste ultime
abbiano superato in maniera più efficace il processo di falsificazione
empirica.
La mancanza di pluralismo si deduce quindi non solo dall’assenza nei
curricula di filoni alternativi di pensiero ma anche dalla rigidità con cui la
teoria tradizionale viene presentata. Il problema è che questa concezione
epistemologica non solo è falsa ma ha anche pesanti ripercussioni sulle
capacità esplicative dell’economia, ossia sulla comprensione dei fenomeni
reali, che vengono spesso quindi mal compresi se non addirittura del tutto
ignorati. Mi torna alla mente allora la frase di un mio professore di economia
che diceva che la realtà è solo una delle teorie e neanche la più interessante.
E arriviamo ora al secondo filone di critica,
quello che riguarda i rapporti esterni all’economia accademica. Per comprendere
meglio il funzionamento della scienza economica dobbiamo infatti ricordarci,
grazie alla grande lezione degli economisti classici, che l’economia è quella
particolare disciplina che regola il conflitto tra interessi economici
differenti. Utilizzando la metafora culinaria di una torta a fine pasto,
possiamo dire che gli economisti sono quegli studiosi che devono stabilire le
modalità migliori per suddividere la torta tra tutti gli invitati. Non c’è da
scandalizzarsi nell’ipotizzare che ognuno cercherà di massimizzare la fetta di
torta che spetta a lui e ai suoi cari, a scapito degli altri invitati. E che
ognuno cercherà quindi di appoggiare la teoria di quello o quell’altro economista
che lo legittimerà davanti a tutti gli altri a prendersi la fetta più grande.
È qui che capiamo il nesso indissolubile tra l’economia come disciplina e
l’economia come conflitto tra interessi divergenti. L’economia politica,
quindi, come direbbe Marx, è quella disciplina che regola questo conflitto
attraverso un’interpretazione politica di questo conflitto. Nulla di tecnico,
quindi, come sosterrebbe la teoria neoclassica, o naturalmente necessario.
Se comprendiamo tale aspetto, capiamo anche che la scienza economica e la politica economica si influenzano e si legittimano a vicenda in un circolo pericolosamente vizioso. Una politica economica infatti cercherà di supportare il filone teorico che meglio convaliderà le sue scelte distributive, come il filone teorico difenderà le ideologie politiche che seguiranno più pedissequamente i suoi suggerimenti.
Se comprendiamo tale aspetto, capiamo anche che la scienza economica e la politica economica si influenzano e si legittimano a vicenda in un circolo pericolosamente vizioso. Una politica economica infatti cercherà di supportare il filone teorico che meglio convaliderà le sue scelte distributive, come il filone teorico difenderà le ideologie politiche che seguiranno più pedissequamente i suoi suggerimenti.
Non appare quindi strano ad esempio che le politiche economiche di
liberalizzazione, flessibilizzazione del lavoro e di tagli alla spesa pubblica
siano avvenute proprio mentre prendeva piede, come dice il professor Francesco
Saraceno nel suo libro “La scienza inutile”, l’emersione del monetarismo e del
nuovo consenso macroeconomico e la sconfitta delle idee keynesiane. L’economia è quindi più che una scienza
sociale una scienza politica, che dipende strettamente dai rapporti di forza e
di potere interni alla società.
Sarebbe inoltre ingenuo nel 2018 ritenere che il ripensamento dell’economia
passi esclusivamente attraverso una lotta tra keynesiani e neoclassici. Come ha
detto giustamente il viceministro Lorenzo Fioramonti, nuove urgenze sono
entrate nella nostra quotidianità politica. Il dramma ambientale ad esempio
mette a dura prova i modelli di crescita tradizionale, nei quali l’esaurimento
delle risorse naturali e l’inquinamento dell’atmosfera non vengono trattati se
non marginalmente e sempre con metodi insufficienti. L’economista vede infatti
con cattivo occhio le tematiche ecologiche, ritenendole secondarie o comunque
poco rilevanti. Tuttavia i dati che stanno emergendo in questi ultimi anni, ad
esempio sull’aumento medio delle temperature, richiedono un’attenzione massima
e un’integrazione sempre maggiore tra le giuste esigenze di occupazione e di
mantenimento dei diritti sociali con la rivoluzione tecnica e politica
necessaria ad affrontare il dramma ambientale che metterà a rischio la
sopravvivenza stessa della razza umana sulla Terra.
Ecco allora che la scienza economica e il destino delle nostre società non
sembrano più campi così indipendenti. Al contrario, la disciplina economica richiede a mio avviso
un ripensamento globale e molto profondo. Che sappia aprirsi alla
ricchezza di altre scuole di pensiero e le sappia integrare con le nuove
esigenze della contemporaneità, e che sappia quindi riformulare molto di ciò
che oggi viene dato per scontato nelle università, compresi i criteri di
valutazione della ricerca. Non bisogna dimenticarsi infatti che i metodi con
cui vengono valutati i ricercatori e stabiliti gli avanzamenti di carriera,
come dice il premio Nobel James
Heckman, hanno la piccola controindicazione di omologare il pensiero
alle teorie mainstream e di asfissiare la libertà
intellettuale degli economisti.
da qui
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