venerdì 21 aprile 2017

Civiltà aliena sta schermando una stella per succhiarne energia? - Piero Bianucci

Occhi puntati su una stella che gli astronomi chiamano KIC 8462852. Per coglierne minime oscillazioni luminose la scrutano dallo spazio satelliti cacciatori di esopianeti come “Kepler” della Nasa e telescopi al suolo che guardano il cielo in luce visibile e nell’infrarosso. KIC 8462852 è anche tra i primi enigmi in lista di attesa dei futuri telescopi spaziali “James Webb”, il successore di “Hubble”, e TESS (successore di “Kepler”). Noi, che abbiamo una memoria allergica alle targhe, la chiameremo “stella di Dyson”. Altri, con la stessa allergia, la chiamano “Tabby’s Star” in quanto Tabby è uno dei primi astronomi che l’hanno studiata. Il primo nome mi sembra preferibile al secondo per un buon motivo. 

Venerando (93 anni) ed eminente fisico teorico, Freeman Dyson da sempre è convinto che esista vita intelligente extraterrestre. Poiché è capace di coraggiosa fantasia, Dyson ha provato a immaginare il comportamento di una civiltà aliena molto avanzata. Ne concluse che questa civiltà, essendo improbabile la migrazione da un sistema stellare a un altro, prima o poi si sarebbe scontrata con una grave crisi energetica e l’avrebbe risolta cercando di catturare tutta o quasi l’energia della sua stella avvolgendola con sottilissime pellicole riflettenti. Completata l’impresa, l’intero sistema planetario si sarebbe trovato confinato in una sfera di specchi – la cosiddetta “sfera di Dyson” – e la stella ad osservatori esterni sarebbe sembrata affievolirsi fino quasi a spegnersi.  

Bene: KIC 8462852 mostra variazioni di luminosità capricciose ma sempre al ribasso, come se gli abitanti di un suo pianeta stessero costruendole intorno una “sfera di Dyson”. La luce che ci arriva diminuisce dello 0,34 per cento all’anno, nei quattro anni di osservazioni di “Kepler” ha perso il 2-3 per cento e nell’ultimo secolo il 19%.  

Della “stella di Dyson” si è occupato nel 2015 e nel 2016 l’autorevole “Astrophysical Journal” e ora gli astronomi sono in attesa spasmodica di nuovi dati. Così una stella anonima di magnitudine 12, a 1480 anni luce da noi nella costellazione del Cigno, un po’ più grande e massiccia del Sole ma meno brillante, di colore bianco-giallo, è diventata famosa. I ricercatori del programma SETI, Search for Extra Terrestrial Intelligence, la stanno studiando amorevolmente. Nei dintorni c’è una stella nana rossa: il pianeta sede della civiltà che sta realizzando la “sfera di Dyson” potrebbe anche essere suo. 

Se trovassimo davvero una civiltà extraterrestre, sarebbe la più grande scoperta di tutti i tempi. E’ probabile, per una logica di tipo statistico e per il “principio copernicano” (nessuno è speciale) che ciò accadrà. Ma non domani mattina. Se ci vorranno decenni, secoli o millenni, oggi non è dato sapere. Il miglior modo per non provare disillusioni è non illudersi.  

Intanto, aspettando il grande giorno, è bene leggere “Alieni. C’è qualcuno là fuori?”, una raccolta di 19 saggi sulla ricerca di vita nell’universo curata da Jim Al-Khalili e pubblicata da Bollati Boringhieri (140 pagine, 22 euro). E’ un libro pieno di informazioni curiose e ragionamenti seduttivi. La regola è: non essere provinciali nell’immaginare i pianeti di altre stelle e i loro eventuali abitanti. 

Anil Seth, docente di neuroscienze cognitive alla University of Sussex, pensa che gli extraterrestri potrebbero somigliare a polpi come l’Octopus vulgaris: basterebbero alcuni passi nel giusto verso dell’evoluzione e questo mollusco cefalopode potrebbe diventare un alieno geniale.  

L’Octopus ha otto arti prensili dotati di ventose. Meglio di due mani con pollice contrapposto. Ha tre cuori. Meglio di uno solo, che se si ferma addio. Vive fino a 200 metri di profondità. Ha occhi che se la cavano bene con pochissima luce e “vede” anche con la pelle, che lo mimetizza prendendo il colore dell’ambiente. Si difende sparando un inchiostro che spiazza l’avversario più dei lacrimogeni lanciati dalla polizia. Ha mezzo miliardo di neuroni, sei volte più di un topo. D’accordo, noi ne abbiamo 90 miliardi, 180 volte di più.  

Ma il polpo ha un cervello distribuito in gran parte del corpo: i suoi 8 tentacoli sono arti intelligenti, semiautonomi, agiscono quasi come animali indipendenti. Con il suo cervello diffuso, il polpo sa scovare oggetti nascosti, utilizza oggetti naturali come strumenti, impara per imitazione da altri polpi come risolvere problemi. Nelle ventose ha l’organo del gusto, un modo per assaggiare la preda già mentre la cattura. Forse possiede persino una vaga consapevolezza di sé in quanto l’intelligenza diffusa permette a ogni tentacolo di “guardare” dall’esterno l’azione degli altri tentacoli. Il suo genoma – ha scritto su “Nature” il neurobiologo Roderik Clifton – è così strano che sembra fatto con un DNA alieno. 

Non intelligenti e tuttavia formidabili nella capacità di sopravvivenza sono i batteri estremofili, indifferenti al caldo al freddo, all’acido e al salato, al secco e all’umido, alle radiazioni e alla mancanza di ossigeno. Sono probabilmente la forma di vita più diffusa sulla Terra, eppure ne sappiamo pochissimo. Paul Davis, fisico e cosmologo dell’Università dell’Arizona, vede in essi i migliori candidati al titolo di creatura aliena, forse anche capace di viaggiare a bordo di meteoriti.  

Rimane il fatto imbarazzante che ancora non sappiamo come sia comparsa la vita sulla Terra, figuriamoci su altri pianeti. Una nuova linea di ricerca punta sulla meccanica quantistica: la vita è chimica, ma sotto la chimica c’è la fisica e il livello più profondo della fisica è quantizzato. E’ così che dobbiamo rivisitare la vecchia idea del “brodo primordiale” sostiene Johnjoe McFadden, professore di genetica molecolare alla University of Surrey. LUCA, che non è l’evangelista ma la sigla di Last Universal Common Ancestor, ultimo antenato universale comune, sarebbe uscito da un tiepido bagno quantico, levatrice l’indeterminazione del principio di Heisenberg.  

La sfida più importante lanciata dalla ricerca di esseri extraterrestri è alla nostra fantasia. Dobbia sforzarci di non essere provinciali nel concepire la vita e domandarci prima di tutto che cosa stiamo veramente cercando. Molti pensano che sia un errore andare a caccia di qualcosa di “vivente” nel senso tradizionale: la vita biologica è fragile, una vita biologica evoluta dovrebbe dare origine a macchine autoriproducentesi, e sono queste macchine che dovremmo immaginare come nostri interlocutori. Altri ancora pensano che una vita evoluta non abbia interesse alla comunicazione con altre creature, o che saggiamente non voglia entrare in contatto per evitare di disturbarne la nicchia ecologica. 

Alla Nasa e nella redazione di “Science” sono meno prudenti. E’ almeno dal 2005 che si parla dei geyser di Enceladus, satellite di Saturno, di un suo ipotetico oceano sub-glaciale e, con un salto ardito, di eventuali forme di vita nell’ambiente marino dove una temperatura moderata potrebbe creare condizioni adatte alla loro comparsa. Crepe nello strato ghiacciato con fuoriuscita di vapori e gas (foto) osservate nell’ottobre 2015 dalla sonda Nasa-Esa “Cassini”, hanno rinforzato queste supposizioni. E l’ultimo numero di “Science” ha pubblicato un articolo di Hunter Waite e colleghi che annuncia la scoperta di idrogeno molecolare, una “firma” della presenza di acqua e di processi idrotermali. Questi processi sarebbero una potenziale fonte di energia per organismi simili a quelli scoperti nelle “fumarole” degli abissi terrestri, dove si è sviluppata una vita che trae energia dalla scissione di composti dello zolfo. 

L’osservazione delle molecole di idrogeno è stata possibile grazie al Neutral Mass Spectrometer a bordo di “Cassini”, che ha analizzato i gas contenuti nei pennacchi dei geyser. L’abbondanza dell’idrogeno, relativamente alta, favorisce la formazione di metano a partire dall’anidride carbonica disciolta nel presunto oceano di Enceladus. Il quale, scoperto da William Herschel nel 1789, tra 67 satelliti di Saturno è il sesto per dimensioni, ha un diametro di 500 chilometri e una temperatura di -200 °C, e ora spicca sulle prime pagine dei giornali come un Eldorado della vita.  

Sempre alla spasmodica ricerca di visibilità, la Nasa ha dato ampio rilievo alla (ri)scoperta dell’acqua tiepida su Encelado, suffragata dall’osservazione dell’idrogeno molecolare. Quotidiani e tv di tutto il mondo, manco a dirlo, si sono accodati, anche mobilitando firme scientifiche importanti. Dalla fantascienza alla scienza fantasiosa il passo è stato breve. 

Torniamo al libro curato da Al-Khailili. Nel 1961 il radioastronomo Frank Drake ideò una formula per calcolare un numero di civiltà aliene ragionevolmente attendibile. La debolezza della formula era che alcuni suoi parametri all’epoca erano ignoti. Non si sapeva, per esempio, quanto frequenti fossero i sistemi planetari né quanto potesse durare una civiltà evoluta. Oggi è certo che i pianeti sovrabbondano: sono miliardi. Resta ignota la durata di una civiltà biologica, ma si ritiene che talvolta dovrebbe sviluppare macchine intelligenti senza limiti di età.  
Il nuovo passo è l’”equazione di Seager”. Sara Seager è astrofisica e planetologa, insegna al MIT e la rivista “Time” l’ha inserita tra le 25 persone più influenti nelle scienze dello spazio. Per non cercare a caso – ragiona la Seager – sarebbe utile stimare il numero di pianeti con segni di vita rilevabili nella loro atmosfera sotto forma di gas di origine certamente biologica con i futuri telescopi orbitanti “James Webb” (JWST) e “TESS”. 

Al termine di calcoli minuziosi, nel saggio scritto per il libro “Alieni” Sara Seager conclude: “il numero di pianeti in possesso di segni rilevabili della vita è: N = 4 x 0,5 x 0,5 = 1. Il TESS e il JWST potrebbero consentirci di rilevare la presenza di ‘una’ forma di vita, quella presente nel nostro minuscolo angolino della Via Lattea. E’ il mio modo per dire che dovremmo essere molto fortunati per osservare delle biofirme sotto forma di gas nel decennio a venire.” Purché quella unica forma di vita calcolata da Sara Seager non sia quella che già conosciamo fin troppo bene. 

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