martedì 29 dicembre 2015

Dalla parte del cielo - Francesco Martone


Provare a leggere i risultati della COP21 di Parigi inforcando un paio di lenti bifocali potrebbe essere esercizio utile e necessario, piuttosto che fermarsi al contingente, alla buccia esterna di un processo negoziale che si trascina da anni, e che è andato via via aggregando altri processi, ed altre iniziative. Un paio di lenti bifocali che permettano di decodificare quello che è successo a Parigi, e quel che ci aspetta nel futuro. Queste lenti però sono fatte di altro materiale, non sono quelle che trovi nei libri di scienza, di climatologia, nelle migliaia di elaborazioni sulla capacità di assorbimento della Terra o delle foreste incontaminate, non sono quelle riposte nei cassetti di governanti, o uomini d’affari, o condivise con solerti esperti, professionisti d’impresa o del mondo non-governativo.
Sono lenti costruite alla buona, che si tengono con un pezzo di scotch e l’elastico, e che permettono di vedere tutto da un’altra prospettiva. E’ giunto quindi il momento di sforzarsi di mettersi dall’altra parte. Dalla parte dell’aria e del cielo. Dalla parte della Terra e di chi la abita, non per una sorta di slancio mistico o ecocentrico. Forse in parte c’entra l’urgenza di ammettere che noi umani siamo ben poco rispetto agli enormi stravolgimenti che provochiamo, rispetto alla complessità e delicatezza degli equilibri del vivente e che quindi sarebbe buona cosa alleggerire il nostro zaino e la nostra impronta ecologica. Mettersi dalla parte dell’aria e del cielo, oggi offuscati da una densa nube di smog, soffocante, attraversati da perturbazioni anomale, ondate di pioggia e calore e freddo, cicli migratori impazziti, nuvole che non si lasciano più leggere da saperi ancestrali, significa provare ad assumere una prospettiva altra, decolonizzata, femminile, di una Madre che la furia produttivista e l’ossessione della crescita stanno rapidamente decomponendo. Ricordo uno studio molto bello di una ricercatrice della CUNY di New York sull’Antartide, simbolo plastico del tragico impatto del climate change, Elena Glasberg si chiama. Studiando la storia “ufficiale” della conquista dell’Antartide, scritta e fatta essenzialmente da maschi, da uomini desiderosi di conquistare anche quell’ultimo lembo di terra ignota, la Glasberg proponeva un punto di vista altro, ispirato all’approccio post-coloniale e “queer”, ossia quello di mettersi dalla parte del ghiaccio, e rileggere quel mito della conquista attraverso una lente di genere.

Ossia “Antarctica as a cultural critique: the gendered politics od scientific exploration and climate change” . Chissà forse non è un caso che la Terra sia madre, e come una Madre è legata indissolubilmente alla nostra esistenza, ad ogni nostra cellula primordiale. Parigi, quindi, un appuntamento atteso, un punto di arrivo importante pieno di aspettative e realistiche disillusioni. Forse mai come nella capitale francese è risultato evidente lo iato tra la narrazione “mainstream” dei cambiamenti climatici e quella che prendeva forma e sostanza all’esterno, tra le strade, nei quartieri marginali, nella partecipazione di persone d’ogni dove, che non solo hanno avuto la briga di sfidare divieti e proibizioni, ma hanno costruito una prospettiva altra di giustizia ecologica e sociale. Le carte approvate a Parigi vanno analizzate e bene. Ci dicono che i governi di ogni parte del mondo non ritengono che i cambiamenti climatici siano una questione che riguarda i diritti umani, non pensano che siano soggetti di diritto quelle migliaia e migliaia di persone, uomini e donne che rischiano la loro stessa sopravvivenza, che abitano terre sempre immaginate come paradisi incontaminati, che siano quelli dipinti da Paul Gauguin o quelli declamati in brochure di agenzie di tour all-inclusive. Quelle Maldive, o quelle migliaia di schegge di terra e roccia, sabbia e corallo del Pacifico.
Ci dicono che le migliaia e migliaia di persone che sono costrette a migrare, senza terra ed acqua e senza cibo restano solo nella contabilità della carità privata o delle agenzie di cooperazione e aiuto umanitario. E che l’interesse sovrano dei paesi e delle nazioni sarà quello di poter avere carta bianca nell’escogitare l’ennesimo stratagemma per rinviare a data da definire il momento nel quale si dovrà cessare di pompare petrolio dalle viscere della terra. Ai tavoli del negoziato questa partita si giocava su una tastiera di computer, tagliando e cucendo parole, aggiungendo e rimuovendo parentesi. Al di fuori , nella realtà in carne ed ossa, questo giochino di editing significa dolore e sofferenza ed a Parigi già si sapeva come sarebbe andata a finire. Si dice in inglese “self-fulfilling prophecy”.

La stragrande maggioranza di paesi avevano fatto le loro offerte sul tavolo, messo la loro posta, scritto nero su bianco quel che avrebbero inteso fare per contribuire al contenimento dell’aumento della temperatura. Cifre che fanno la differenza: 2 gradi o 1,5 oppure 3? Insomma un gioco d’azzardo, che gli abili negoziatori hanno risolto con un testo che mette insieme un po’ tutto, una meta o “aspirazione” (abituiamoci fin d’ora a questo nuovo gergo, “aspirational” “transformational”, e non più obiettivi vincolanti o ben definiti) verso il contenimento dell’aumento della temperatura di 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Senza lacci e lacciuoli, senza vincoli, che ancora una volta ci penserà il mercato con la sua capacità taumaturgica. Una mano invisibile che però diventa assai visibile quando conficca nuove torri di prospezione e trivellazione, nei ghiacci, nei mari e nelle foreste, quando abbatte foreste primarie per sostituirle con piantagioni di agrocombustibili, o espelle comunità ree di gestire quegli ecosistemi da millenni, con il pretesto di tenerli integri e assicurare che possano assorbire quei gas tossici che i vecchi e nuovi Nord del mondo continueranno a produrre. O che pompano sottosuolo l’anidride carbonica. Lo chiamano “net negative emissions” in gergo, altro escamotage per far capire che a parte qualche correzione, la rotta è sempre quella, tracciata e segnata dall’ideologia del capitalismo estrattivista. Ecco mettersi dalla parte del cielo oggi significa decidere di decodificare e svelare l’inganno, che si insinua in ogni piega.

Far saltare vecchie retoriche che vedevano un Nord geograficamente delimitato sfruttare ed abbrutire un Sud colonizzato. Da tempo ormai quel Sud e quel Nord non esistono se non nei manuali di geopolitica o del politicamente corretto. Oggi esistono comunità umane ed ecosistemi che a Nord come a Sud soffrono dei cambiamenti climatici, vengono violati per cercare altro combustibile, comunita’ che resistono e praticano alternative. Non è un caso che nessuno a Parigi si sia messo d’accordo nel riconoscere che l’unica via possibile è quella di uno shock petrolifero, sia ben chiaro non quello dei mercati, ma una terapia shock che preveda la fine delle attività di prospezione ed esplorazione ed un progressivo ma rapido restringimento del volume di combustibili fossili estratti nel mondo. I numeri parlano chiaro: a fronte di circa 800 miliardi di dollari spesi ogni anno dalle imprese petrolifere per andare a cercare altro petrolio o gas poco più di 100 miliardi vengono stanziati ogni anno per sostenere i paesi in via di sviluppo nella loro transizione ecologica.
E di questi la gran parte sono prestiti, o fondi privati di imprese o istituzioni finanziarie che andranno a riaccendere la nefasta spirale del debito, un debito doppio, ecologico e finanziario. Se ci mettessimo dalla parte del cielo, per evitare di continuare ad essere soffocati lentamente ed inesorabilmente, dovremmo decidere di lasciare sottoterra l’80 percento delle riserve conosciute.E’ la scienza che lo dice, ma la politica fa un uso selettivo e di comodo della scienza, e così a Parigi nulla fu deciso al riguardo. Né all’obbligo morale di risarcire coloro che hanno sofferto perdite e danni a causa dei cambiamenti climatici. Eppure la vulgata ufficiale, quella delle Nazioni Unite, dei governi, delle grandi ONG spesso affette da una sorta di sindrome di Stoccolma, ci dice che Parigi è un iniziale successo. Ci invitano a vedere il bicchiere mezzo pieno, quando il bicchiere ormai è pieno di crepe e slabbrature. E sembrano sordi riguardo l’urgenza appunto di cambiare occhiali. Le nostre lenti bifocali ci aiutano quindi a decodificare e disvelare, ed allo stesso tempo mettere bene a fuoco.

E così dall’altra parte del cielo si materializza un cantiere in corso, donne, contadini, lavoratori, cittadini e cittadine, attivisti, pacifisti, ecologisti, comunisti o post-comunisti, leader indigeni, piccoli imprenditori che praticano altraeconomia, filosofi ed artisti, catene umane, e linee rosse. Un cantiere che si avvale di una nutrita cassetta degli attrezzi: concetti quali debito ecologico e giustizia climatica, decarbonizzazione, “keep the oil underground”, stop alla De CO2lonizzazione, riconoscimento dei diritti della natura e delle comunità, ecocidio, resistenza nonviolenta.Quest’altra metà del cielo a Parigi ha dichiarato uno stato di emergenza climatica e costruito la propria agenda quella dei popoli e della Terra. Lo ha fatto appunto intrecciando la critica al modello di sviluppo alla critica alla fase attuale del capitalismo estrattivista, a strutture di potere patriarcale dove l’umano è sempre solo sinonimo maschile, alla costruzione di linguaggi e pratiche autenticamente “decolonizzate”. La lente bifocale aiuta anche a guardare oltre allora. E l’oltre, la prospettiva, sarà quella di riprendersi in mano il proprio destino, dal basso, continuando a costruire reti e relazioni, scambiando conoscenze e pratiche, tessendo una trama di resistenza piuttosto che accontentarsi della resilienza, e mettendo le nostre menti e i nostri corpi tra il cielo e la terra, trivelle e bulldozer.

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