martedì 7 aprile 2015

Storia millenaria del seme di pistacchio - Patrizia Cecconi

La regina di Saba ne aveva una piantagione riservata soltanto a lei e ai suoi cortigiani, Nabucodonosor II, re dei Caldei, li faceva coltivare nei giardini pensili di Babilonia. In Grecia sono arrivati con Alessandro Magno. In Spagna e Italia con Tiberio. Gli alberi di pistacchio hanno radici profonde, nobili e millenarie nella storia delle antiche civiltà. Tra i semi oggi considerati di maggior pregio, quelli raccolti alle falde dell’Etna. Terre aride, segnate dalla siccità e da una storia, più recente, di massacri, economia coloniale e interessi britannici. Per certi versi simile a quella della Palestina, dove il pistacchio, amato da tempo immemorabile, cresce quasi senz’acqua ma regala un gusto straordinario a moltissimi dolci e si trova anche nel suq del più povero dei villaggi

Cugino “nobile” di lentisco e terebinto, appartenente alla stessa famiglia delle anacardiacee e al genere Pistacia, il pistacchio è uno dei più antichi alberi coltivati dall’uomo. È originario dell’antica Persia dove pare venisse coltivato già in età preistorica, così almeno risulterebbe dal trattato del sofista greco Ateneo di Naucrati che ne parla nel “Banchetto dei sapienti”.
In Palestina, e in genere nel Medio Oriente, si dice sia usato da oltre 10mila anni, ma di certo da almeno 3 o 4 mila lo è, stando a quanto scritto nella Bibbia circa i pistacchi che Giacobbe usò come dono pregiato (Genesi 43,11); o al fatto che la regina di Saba ne avesse una piantagione ad uso esclusivo suo e della sua corte; o ancora a quel che se ne racconta circa Nabucodonosor che li faceva coltivare negli splendidi giardini pensili di Babilonia per sua moglie Amytis.
Questi semi, oggi presenti nella maggior parte dei dolci che si possono acquistare in ogni suq o che vengono preparati nelle occasioni rituali anche nei villaggi più poveri di tutta la Palestina, arrivarono in Grecia nel IV a.C. con Alessandro Magno. Qualche secolo più tardi, sotto l’imperatore Tiberio, i pistacchi varcarono il Mediterraneo ed approdarono in Italia e Spagna, ma fu solo a metà 800, quando gli arabi conquistarono la Sicilia sottraendola ai bizantini, che il pistacchio trovò il suo angolo particolare, alle falde dell’Etna, nel territorio di Bronte dove tuttora rappresenta il fulcro dell’economia dell’intera area.
Questa pianta cresce in zone collinari, esposte a sud e sopporta quasi tutto, dalla siccità estiva al gelo invernale, ma non regge le gelate in tarda primavera, quelle che rappresentano il tradimento della natura quando ormai i fiori sono usciti rispondendo al richiamo della luce.
Il suo frutto è una drupa, di cui si consuma il seme chiamato appunto pistacchio come l’albero che lo produce e che difficilmente supera i 7-8 metri di altezza, ma che arriva a vivere fino a 300 anni. E’ una specie dioica ad impollinazione anemofila, vale a dire che il passaggio del polline dal fiore maschile a quello femminile è affidato al vento. Fruttifica ogni due anni, e l’anno che gli agronomi chiamano di “scarica” serve a dare più vigore all’esplosione vitale di fiori e frutti nella stagione successiva.
Ha una strana caratteristica il pistacchio, infatti il fiore femminile accetta l’impollinazione anche dal terebinto ed i frutti che ne derivano sono esattamente come gli altri. Il legame col terebinto è realmente consociativo, non solo per il suo polline, ma perché la straordinaria forza delle sue radici, capaci di fendere e di aggirare le rocce riuscendo a nutrirsi anche di pochi grani di terra arsa, è messa a disposizione del suo più raffinato cugino, e le piantagioni che fruttificano splendidamente su rocce aride godono sempre del terebinto come portainnesto di ogni rigoglioso pistacchio.
Tra i pistacchi che crescono a Bronte e gli alberi che crescono in Palestina ho notato qualche particolare consonanza. In entrambi i luoghi gli alberi non si concimano né si irrigano: l’acqua non c’è. Ma loro ne fanno a meno e il pistacchio che, sostenuto dal suo rustico cugino, cresce laddove poche altre piante riuscirebbero a vivere, diventa un simbolo di resistenza alle condizioni avverse.
Ma c’è qualcos’altro che accomuna il pistacchio di Bronte al pistacchio palestinese. Qualcosa che cozza con la bontà di questo seme, ma che ha a che fare con la storia. Anche quella che non è facile raccontare. Tanto a Bronte che in Palestina, infatti, nei due secoli scorsi la presenza e gli interessi inglesi, in modo diverso, sono stati responsabili di ingiustizie e di massacri. Alla causa di interminabile durata che i brontesi, civilmente e ingenuamente rispettosi del diritto, hanno portato avanti contro l’esproprio delle proprie terre, prima a favore di un’istituzione religiosa e poi di Horatio Nelson e suoi eredi, fa da specchio, oltre il mare, una “causa” tuttora in corso che vede i palestinesi chiedere al vento il riconoscimento dei propri diritti sulla propria terra!
Se nella seconda metà del 1800 Garibaldi e Bixio, proteggendo gli inglesi usurpatori di terre di Bronte, hanno macchiato di vergogna e di sangue il Risorgimento italiano, di cui pure erano eroi, nella prima metà del 1900 gli inglesi, con la dichiarazione di Balfour, hanno aperto la strada al tentato annientamento dei palestinesi tuttora in atto. Anche gli inglesi di Bronte avevano chiuso le strade ai contadini, esattamente come oggi Israele, figlio anche di quella dichiarazione di Balfour, chiude le strade ai palestinesi. Allora come ora, farseschi tribunali decretavano colpe agli incolpevoli e assolvevano gli aguzzini. Allora fu a Bronte, a eterna vergogna dell’eroica spedizione dei Mille che in Sicilia pagava il favore – e gli interessi – degli inglesi, e ora è in Palestina, a eterna vergogna delle istituzioni internazionali, in primis l’ONU, che si vedono surclassare dal potere fuori legge di Israele.
Lasciando Bronte dove i contadini, costretti a coltivare l’arida sciara, hanno fatto dell’unico albero che potesse resistere il gioiello di questo territorio, viene spontanea una metafora che sa di speranza e che affido alla fantasia di chi mi legge e passo alle proprietà del pistacchio.

Il filosofo e medico islamico Avicenna nel suo “Canone della medicina” lo definiva ottimo rimedio contro le malattie del fegato. Ricco di vitamine A, B ed E, di ferro e di fosforo, è utile contro il colesterolo cosiddetto cattivo favorendo, grazie ai fitosteroli, la produzione del colesterolo HDL, quello cosiddetto buono, divenendo un valido cardioprotettore; la presenza di fosforo aumenta la tolleranza al glucosio e quindi è utile a prevenire il diabete di tipo 2; inoltre, grazie a due particolari carotenoidi protegge la vista dalla degenerazione maculare.   Infine alcuni studi recenti tendono a dimostrare che il consumo di 20 semi al giorno ridurrebbe il rischio di tumore al polmone. Ha solo un difetto questo meraviglioso seme: troppo calorico per chi ha problemi di linea. Ma la perfezione non è di questo mondo!

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