mercoledì 15 aprile 2015

la difficoltà di essere ulivo in Puglia

Ci sono giorni in cui devi alzare il sedere - Alice Mi.

Martedì è stata una giornata di mobilitazione per alcuni, pochi. La mobilitazione, quella vera non si fa dietro alla tastiera del computer. Quello è un lavoro utile per diffondere le informazioni, sensibilizzare … ma quando si tratta di impedire di commettere un’enorme ingiustizia, un crimine contro la natura direbbero gli ambientalisti – un crimine e basta dico io che sono una semplice cittadina – ecco quando si tratta di impedire che un albero sano venga abbattuto, solo perché potenzialmente infetto (da un batterio con cui in molti paesi hanno imparato a convivere e a nessuno è venuto in mente di abbattere gli alberi) allora in quel momento devi alzare il sedere e andare in campagna per opporti fisicamente a questa ingiustizia. È l’unico modo.

Quello che provo dopo questa giornata è, da un lato una certa soddisfazione perché gli alberi non sono stati toccati, proprio perché c’eravamo noi. Dall’altro la sensazione è quella dell’impotenza perché gli ulivi verranno abbattuti lo stesso, magari di notte, al buio, o appena qualcuno non sarà nel luogo giusto, al momento giusto.
Ma la sensazione predominante è senza dubbio l’incredulità: oggi ho visto amici, ragazzi che impiegati nei call center hanno rinunciato alla già misera paga giornaliera, attivisti, giovani anarchici, associazioni, professori universitari, gente comune, contadini, proprietari terrieri, molti giornalisti, purtroppo persino qualche fascista… ma chi proprio mi aspettavo di vedere e non c’era erano le istituzioni, i nostri presunti “rappresentanti” politici, uno almeno un consigliere, un candidato alle prossime elezioni (a parte un cinque stelle a onor di cronaca), loro prima di chiunque altro mi sarei aspettata a difendere la nostra terra, a rappresentarci, a tutelare i contadini che impotenti verranno privati del frutto del lavoro di una vita.
È in questi momenti che cadono le maschere.
#‎difendiamogliulivi

 

da qui



Noi siamo gli ulivi. Fermiamo la strageDonpasta



Al Ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina
Al Governatore della Regione Puglia, Nichi Vendola
Al Presidente della Provincia di Lecce, Antonio Maria Gabellone

Vi scrivo sul tema degli ulivi del Salento e della Puglia tutta, caro a tutti noi, perché nell’anno di Expo, l’Italia rischia di perdere uno tra i monumenti simbolicamente più importanti agli occhi del mondo, l’ulivo secolare Tema complicato, di difficile risoluzione, in cui l’unica certezza per l’Unione Europea è l’ordine di isolare il focolaio per non toccare le altre regioni e gli altri Stati. Per farlo «saranno obbligatori quattro trattamenti insetticidi su tutto il territorio e l’eradicazione di tutte le piante infette con interventi di manutenzione a completo carico dei produttori ». Vorrei partire da una costatazione. In cinquant’anni di finanziamenti agricoli il risultato è che le campagne sono in gran parte deserte. Il paradosso è che gli ulivi sono stati o troppo trattati, oppure abbandonati a loro stessi.
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Ma c’è tanta, tantissima gente che dei propri olivi si prende cura e lo fa in modo sano, pulito. Da loro si deve ripartire. Magari le piante di fronte ad attacchi così violenti forse non si salverebbero comunque. Ma è chiaro che una pianta sana, come un uomo sano, ad una malattia reagisce meglio, con più vigore, più anticorpi. Il nocciolo della questione è triplice: -Identitario: noi senza gli ulivi non siamo niente, siamo come Sansone con i capelli. Se li tagli perdiamo la forza. Perdiamo l’essenza stessa del nostro essere in pace con la terra, in equilibrio con il territorio, con la storia, anche con un autarchico modo di concepire l’economia domestica. -Turistico: perché si crede che la gente abbia scelto il Salento come incontrastata meta nazionale e anche internazionale.
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Per il bel mare? Per il buon cibo? Per la tanta musica? Tutte quelle cose per ogni salentino sono il frutto di un’unica e sola cosa. Non aver omesso, cancellato, cosa rara nella contemporaneità, la nostra essenza più intima racchiusa in quella pianta, simbolo di un mondo che in qualsiasi parte di Occidente era già scomparso. Perché si era pensato che la contemporaneità non avesse bisogno di passato, quindi di memoria. Da noi resiste ancora. Per quanto? – Economico: c’è un mondo la fuori che sta miseramente crollando, che spazza via ogni cosa. Ma noi abbiamo una chiave di volta. Sembra utopico in effetti dire e dirsi che si debba tornare alla terra. Ma esiste un mercato europeo, mondiale, di gente pronta a comprare olio di qualità al giusto prezzo.
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I consumi sono cambiati, in bene e in male, ma diverse forme di organizzazione del commercio vengono incontro a questo tipo di offerta e fanno saltare ogni filiera commerciale per il bene dei nostri contadini. Magari inventando un modo nuovo di concepire i consorzi, le cooperative, l’organizzazione della vendita perché diano veramente accesso alla terra alle nuove generazioni. Non mi inoltro sugli aspetti tecnici delle regole imposte, ma una serie di quesiti vanno posti: si è pensato alla salute degli uomini e della terra dopo interventi così impattanti? Come avverranno questi trattamenti, con che prodotti? C’è un obbligo di trasparenza su azioni del genere. Le eradicazioni che impatto avranno, con che tipologia di alberi verranno sostituiti? Come poter tutelare chi pratica agricoltura biologica e naturale? Ciò che serve, è vero è che ognuna di quelle singole piante sia trattata con cura. Che non significa imbottirla di veleno. Significa prendersene cura come per millenni si è saputo fare, per dargli forza e anticorpi.
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Servono soldi, tanti soldi. Togliete soldi alla sanità, alle strade fatte per i turisti, alla cultura e al turismo che nulla potrebbero raccontare senza quegli ulivi. I turisti non verranno più in un deserto che era un tempo valle rigogliosa. Il Salento e la Puglia, caso raro al mondo, possono fregiarsi di costruire un intero modello di turismo sulla propria identità. Questo modello ha funzionato. Ma questo modello non esiste, non può esistere senza la base, il fondamento di ogni cosa. Noi non siamo nulla, siamo ulivi, lo siamo sempre stati, nella loro metafora di braccia, tante braccia, ad abbracciare, ad avvolgere una comunità tutta.
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Salvare gli ulivi salentini è questione di vita o di morte e noi abbiamo da credere al nostro passato millenario, più che alle soluzioni contemporanee, di demiurghi privi della nozione di memoria e storia, spesso corrotti, condizionati dagli interessi biechi magari di multinazionali, di Commissioni Europee che hanno cecità evidenti sul rapporto tra economia e benessere del cittadino in un territorio. Siamo in una fase talmente drammatica in cui o si ha a che fare con le catastrofi o con la risoluzione delle stesse attraverso utopie. Le mezze misure non funzionano più. Dobbiamo noi tutti prenderci cura degli ulivi, di ogni singolo olivo. Fate fiducia al coraggio dei cittadini, dei contadini, quelli veri, credete in loro, appelliamoci ai nostri anziani, detentori di un sapere infinito su cosa volesse significare essere in equilibrio con la terra. Altrimenti, e sarebbe un peccato, non potrei più dire in giro per il mondo come faccio da tanti anni, quello che mi insegnò mia nonna, “Daniele, se hai un problema aggiungi olio”.


In piazza, con il ramoscello d’ulivo - Massimiliano Guerrieri

 

Abbiamo bisogno di vegliare sulla nostra storia. Siamo un popolo costantemente minacciato. Inchiodato nella gabbia delle nostre medesime paure. Sempre in allerta. In lotta permanente, contro le minacce manifeste e latenti.
Quella del disseccamento degli ulivi non è una fatalità della storia riservata a un manipolo di viventi in un lembo del Mediterraneo. È una storia tra le tante, una storia comune. È la storia che mette in relazione un’infinità di narrazioni apparentemente diverse, è il fil rouge dei dannati della terra.
Noi, non siamo privilegiati rispetto agli altri sud. C’è un sud in ogni parte del mondo e ciascuno porta la sua dannazione.
Noi, siamo i nuovi anfratti di un sud da colonizzare. Merce da gestire, senza limitazioni. E, talvolta, prestati come animali nei combattimenti clandestini. In un clima sempre più emergenziale. Come legittimo arbitrio alla sospensione delle regole democratiche. Affidate ad un sedicente sapere tecnico-scientifico che non ammette diritto di parola. Il tutto, dentro una guerra dichiarata: la quarta guerra mondiale. La guerra dei mercati e del neoliberismo. Dell’egemonia del profitto e del pensiero unico omologante. Del denaro come unica chiave di lettura delle complessità. Degli schemi economici come medicine di ogni male. Le sole ricette accreditate per spiegare fenomeni sociali e ambientali.
In questo scenario, la sola unità possibile che possa favorire un’incrinatura di sistema è nell’essere sud consapevole di appartenere a un mondo in cui il nord rappresenta la speculazione della finanza, l’avarizia del capitale, la brama del potere. Dopo anni di sperimentazioni nei vari sud del mondo, anche noi, siamo divenuti congegno di un dispositivo funzionale alla creazione della loro ricchezza: un meccanismo, a tal punto diabolico, da trasformarci in rigattieri nella nostra stessa miseria.
Per questo credo che, difendere gli ulivi, oggi, significhi qualcosa in più di ciò che appare. Serve più informazione e più coscientizzazione, non possiamo fermarci a testimoniare azioni di dissenso davanti ad un dramma caduto dal cielo. Perché la spocchia con cui si tenta di blindare il dibattito intorno ad un manipolo di esperti accreditati dal potere, ad una politica asservita, ad un ristretto numero di associazioni di categoria e ad un giornalismo ammanicato è la cifra del fanatismo con cui avanzano gli affari di quel nord prima citato.
Nessun dubbio può essere ammesso di fronte alla parola di dio. Non puoi fare domande sulle cause perché bisogna fare in fretta. Non puoi contestare il metodo perché bisogna agire prima che sia troppo tardi. Non puoi parlare perché non conti, non sai e non capisci. Nemmeno quando vorresti dire, pacatamente e con buon senso, attenzione, perchè una soluzione affrettata che mette in pericolo la salute di un milione di persone, che devasta il patrimonio ambientale e paesaggistico di un territorio è qualcosa che irreversibilmente potrebbe danneggiare il nostro futuro, dei nostri figli, delle prossime generazioni. A quel punto realizzi che la battaglia va oltre una fatalità caduta in terra salentina.
La storia comune non può che essere un ulivo che diventa cappello condiviso del dissenso di un’intera comunità che considera ogni albero un patrimonio collettivo dell’umanità, prima che risorsa economica da cui trarne profitto. Che guarda all’ulivo come simbolo di protezione delle biografie dei dannati: paravento dei senza voce, ombrello dei migranti, riparo degli sfruttati, uno scudo contro i sacerdoti della modernità, una corazza per un popolo che rivendica la dignità di esistere, di domandare, di decidere.
Per questo oggi sarò in piazza, con il ramoscello d’ulivo in mano elevato a simbolo di resistenza, contro lo sradicamento selvaggio, contro l’uso indiscriminato dei veleni, dalla parte di chi griderà #difendiAMOgliulivi.
Perché, difenderli, significa soprattutto custodire tutti i volumi di un’antica e sterminata biblioteca comune.


Strage degli ulivi in Puglia, una follia tutta italiana – Antonia Battaglia


In visita a Lecce qualche giorno fa, il Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali non ha perso tempo ad indicare l’intenzione del Governo di chiedere lo stato di calamità naturale per il Salento. Avanti tutta con il cosiddetto “piano Silletti”, che prevede l’abbattimento di migliaia di alberi per combattere il batterio della Xylella fastidiosa, del quale, fino al momento, non vi è prova scientifica di patogenicità sugli alberi di ulivo in Puglia. 

Il Ministro Martina, assieme alla Regione, ha invitato da Lecce gli agricoltori ad arare le proprie terre, concludendo poi che in effetti non si taglierà un milione di ulivi, ma forse “solo 35.000”. Cifra poi smentita dallo stesso Commissario Silletti, che ha parlato di un monitoraggio in corso, di potature e sfrondature. 

Sembra, pertanto, che la questione Xylella sia dominata in ambito istituzionale dal caos, da un rincorrersi di stime, cifre, metodiche, minacce. L’Assessore regionale alle Risorse Agroalimentari ha dichiarato che se sarà necessario, ci saranno multe per chi non avrà arato i campi e ha affermato che “santoni e pseudo-ambientalisti, (sono) gli unici che veramente speculano sulla questione Xylella”. 

Andiamo per punti. L’allarme europeo di quarantena da Xylella fastidiosa viene lanciato dalla Regione Puglia, certa che il disseccamento rapido degli ulivi nella Regione sia causato dal batterio e che tale batterio possa quindi diffondersi altrove sul continente. La Commissione Europea, di conseguenza, lancia un allarme da quarantena nonostante l’EFSA (European Food Security Agency) si fosse già espressa in maniera molto mitigata sulla questione. Il pressing che viene però dall’Italia è molto forte e convinto, e quindi si adotta la misura di quarantena. 

Peacelink, per conto delle associazioni salentine riunite attorno all’Associazione Spazi Popolari, interviene in Commissione, apportando al dibattito le risultanze di ulteriori studi, che evidenziano come la Xylella potrebbe non essere la prima causa di malattia degli ulivi pugliesi, ma semplicemente una concausa o comunque un agente tra altri, riscontrato, dopo l’effettuazione di analisi, NON su tutti gli alberi affetti da disseccamento. 

Studi realizzati dall’Università di Foggia, dall’Università della California nel 2014, pareri scientifici e diverse testimonianze in arrivo da numerose parti del mondo concordano nel sottolineare che la causa prima della malattia potrebbero essere i funghi. Il direttore dell’EFSA risponde a Peacelink con una lettera del 1 aprile 2015, dichiarando clamorosamente che ad EFSA non è mai stato chiesto uno studio sulla eziologia della malattia, quindi sul rapporto causa-effetto del disseccamento rapido degli ulivi. 

Dopo l’intervento di Peacelink, la Commissione Europea ha invitato l’EFSA a fornire un ulteriore urgente parere sulla questione, al fine di discuterne al prossimo Consiglio Europeo Agricoltura e di prendere una decisione per fine aprile, quando si riunirà il Comitato sulla Salute delle Piante. 

Quindi, ancora adesso, non ci sarebbe nessuna certezza scientifica sulla causa della malattia degli ulivi, come invece la Regione Puglia ha dichiarato sin dall’inizio e come sostengono le azioni che vengono messe di nuovo in campo da Regione stessa e Ministero. 

Quello che appare singolare, di nuovo, è il fatto che Governo e Regione si apprestino a preparare un decreto legge per la dichiarazione dello stato di calamità naturale senza avere la certezza scientifica che si tratti di Xylella. 

Ci sono state centinaia di voci che si sono levate, in queste settimane, contro l’abbattimento degli alberi, ma la Regione ha messo in campo un comportamento molto aggressivo, ottuso, chiuso nella propria decisione di continuare sulla strada dello sradicamento degli alberi. 

Coldiretti, sin dall’inizio primo sostenitore della necessità dell’abbattimento immediato, in questi giorni ha sprecato parole durissime nei confronti della Francia, la quale ha bloccato l’importazione di poco più di un centinaio di piante dalla Puglia. Misura esagerata, dice Coldiretti, tuttavia “molto utile” per sostenere l’urgenza dello stato di calamità naturale. 

La misura adottata dalla Francia è fuori dubbio eccessiva ma essa è conseguenza diretta dell’allarme lanciato dalla Regione Puglia e dal Ministero, che continuano a dichiarare urbi et orbi la pericolosità della Xylella per tutto il settore agricolo. 

La Puglia, così facendo, si elimina da sola dal mercato mondiale, grazie alla miopia della propria classe politica e agli interessi spiccioli di una parte di essa che, probabilmente pressata dalla necessità di dover portare a casa un risultato propagandistico a fini elettorali (vedi prossime elezioni regionali del 31 maggio), si getta a capofitto in una storia dai contorni così tanto fumosi che la Magistratura di Lecce continua ad indagare a ritmo serrato. 

E’ difficile immaginare che la Francia, per esempio, dichiarerebbe mai lo stato di calamità naturale nella regione del Bordeaux, laddove ci fosse un qualche rischio di patologia vegetale, mettendo a repentaglio le produzioni, l’esportazione, l’economia, il turismo, l’intero ecosistema di una regione ricca tanto quanto la nostra Puglia, pur di ottenere indennizzi e sussidi europei e nazionali.

La Puglia è un produttore strategico non solo di olio, ma anche di uva, agrumi, prodotti agroalimentari di diversa natura, frutta (mandorle, pesche, albicocche, gelsi, etc.), pomodori, piante aromatiche, cereali, piante ornamentali. Un fatturato annuo di circa 1.3 miliardi di euro. 

Una ricchezza incredibile che dovrebbe esser difesa, protetta e non incautamente svenduta. Il danno all’immagine della regione è una ulteriore conseguenza gravissima di quanto accade: da diversi paesi europei, giungono testimonianze di preoccupazione per ciò che traspare della situazione. Sembra possa essere messa a rischio la stessa identità unica del Salento, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. 

Ci si chiede come sia possibile affrontare sfide di questa portata in modo così malaccorto. Il danno produttivo, economico, non solo sul piano agroalimentare ma anche turistico, può diventare dirompente. La classe politica che si è trovata a gestire la questione avrebbe dovuto farlo cominciando dalla scienza e dalla terra. 

Le misure di sostegno dovrebbero essere indirizzate alla ricerca, al rilancio dell’agricoltura biologica, alla garanzia del rispetto del paesaggio e dell’ecosistema della nostra Regione. 

Coldiretti ha chiesto “un risoluto impegno di tutto il Parlamento italiano affinché sia resa possibile la dichiarazione di stato di calamità naturale nel Salento, dove sono a rischio 11 milioni di piante di ulivo”. 

Ma se davvero a Coldiretti interessa proteggere gli 11 milioni di ulivi, perché non si impegna affinché la cura che ha guarito già più di 500 di questi ulivi venga estesa a tutte le piante malate? Perché non si convoca con immediatezza un panel indipendente di ricercatori che possa non solo produrre un nuovo urgente avviso scientifico, da sottoporre ad EFSA, ma anche testare la cura che già funziona? 

Sarebbe interessante conoscere le risposte alle seguenti domande da parte del Ministro Martina e del Presidente Vendola: 

1) sulla base di quali test di patogenicità siete convinti che il disseccamento degli ulivi sia prodotto dalla Xylella? 

2) perché gli agricoltori che da più di un anno curano con efficacia gli alberi colpiti non vengono ascoltati? 

3) perché non vengono presi in considerazione i numerosi studi scientifici italiani ed internazionali che evidenziano, in linea con l’EFSA, che esistono tipi di funghi riscontrati sulle piante malate che potrebbero essere la causa prima del disseccamento degli alberi? 

4) perché l’azione del Governo e della Regione si concentra non sulla ricerca della causa della malattia ma sull’obiettivo dell’abbattimento e sulla richiesta di indennizzi all’Unione Europea? E questo nonostante la dichiarazione dell’EFSA sull’incertezza dell’eziologia della malattia? 

Vengono prese decisioni così radicali sulla base di poco più di nulla, decisioni le cui conseguenze potrebbero essere devastanti su diversi piani e per centinaia di anni. Un ecosistema finirebbe, un’intera Regione verrebbe sfigurata e trasformata in una landa industriale competitiva e senza identità. 

«Quista è casa mia, terra mia
Lu Salentu nu se tocca!» (Sud Sound System).


Gli ulivi sono creature vive - Cristina Carlà 


Iou ae te quandu su piccinna ca stau a mienzu all’arviri. Te ulia. Percè si, l’auri magari potenu puru essere chiu raffinati e colorati ma quiddhru ca me tanu l’arviri te ulia nu me lu tae ceddhri, mancu li cristiani. Anzi, soprattuttu li cristiani. Appena trasi intra la Masseria, intra lu feu te zziuma ncete quiddhru addu m’aggiu ssittata pe la fotu cu l’abitu te sposa. Matonna cce stia contenta ddhru giurnu, me ssittai torta storta e me misi a ritere percè a ncapu mia ddhru sorrisu ia durare minimu cent’anni. Comu a dhhr’arviru.
Poi ci camini picca picca sulla desthra nci ndete n’auru ca tene le troncu spaccatu a metà. Addhrai nu giurnu quand’era piccinna me purtau nu vagnone, anzi, la verità lu purtai iou, e ndi tiesi nu baciu, lu primu baciu te la vita mia. Sapia te terra russa, te fugghiazze sicche ca se scaffanu intra le scarpe e te pizzicanu, tantu cu te ricuerdi ca si bbiu. Insomma iddhru me uardau e disse: “St’arviru ete nuesciu pe sempre!”  E poi quarche annu dopu ne battezzammo n’auru, arviru sempre. Successe dopu na pasquetta, parlandu parlandu ni firmammu sutta na chioma immensa, beddhra, e siccomu era metà aprile la ntrata brillava allu sule, o sirai era iou ca ia biutu e la itia brillare. Tante stiddhre tutte pe nui ca ni amammu comu mancu sapiamu fare ncora, e ritiamu e ni mbrazzavamu, chianu chianu cunussia ni faciamu male. Cce fose bellu, ddhra fiata.
E già. Però nu bbe spicciata quai ca li arviri su tanti. Nu picca cchiu nanzi nci ndete unu ca stae tuttu piegatu, ria quasi a ‘n terra, iou l’aggiu chiamatu Pigro. Sirma m’ha dittu ca quandu era piccinnu iddhru l’ha aiutatu cu nu se spezza e infatti quiddhru s’a piegatu tuttu ma nu s’è spizzatu. E nu se spezza. Figghiuma ogne tantu ae e se setta ddhra subbra percè tene lu troncu comu na panchina. Certi giurni ci te ttruei all’ura giusta e lu uardi cu la luce giusta pare ca tene la facce disegnata cu l’ecchi, lu nasu e la ucca ca te sorride. Ndaveru sai? Ete beddhru fattu, cu nu piettu forte e le razze sempre perte all’aria prontu cu te mbrazza. E poi nci ndtete n’auru ca a mie me face nu picca paura perè tene le ratici ca essenu tutte te fore a triangulu, tantu ca te lu largu parenu ddo porte e ci sape cce ncete ddhra rretu.
Allu Beneficiu invece ncete n’arviru cu nu troncu talmente scavatu e scaurtatu te lu tiempu ca intra s’è formata comu na grotta e iou quand’ete tiempu te natale au ddhra sutta e mintu li pupi te lu presepe. La Matonna, san Giuseppe e Gesù Bambinu e poi ccappa sempre ca li re magi se li scundenu li musci e nu li ttrou cchiui. Ci rueddhri intra lu fondu sta chinu te Gasparri e Melchiorri. Sicuru! E cce aggiu fare? Pacienza.
L’arviri te Li Scaloti l’anu chiantati li bisnonni mei, praticamente li genitori te la nonna mia, allu 1900. Roba ca quandu all’inviernu au cu ba cogghiu le ulie e pensu ca ddhr’arviri su stati chiantati cu le manu te lu sangu miu, signori, la sacciu ca su sthrana però a mie me ene te chiangere, anzi no, me ene cu me li baciu tutti, cu li ccarizzu, cu ndi pettinu le fronde. Cce su beddhri l’arviri mei. Ca ui li ititi fermi e silenziosi ma ci bbu ssitati ddhra sutta e bu stati citti citti ititi quante storie bu potenu cuntare. Ci bbu stati sittati sutta n’arviru o ci bu stinditi comu uliti, a nu certu puntu ncignati a sentere uci e tamburieddhri, canti antichi ca nu se sentenu cchiui, ncignati a sentere lu rumore te la terra quandu ene mpastata te l’aratru, lu frusciu te le fogghie quandu lu ientu le moe, lu sbattere te ale te n’auceddhru ca se moe te nu ramu all’auru. Storie, nu saccu te storie te sirda e poi te nonnuta e poi te lu nunnu te lu nonnu tou, e poi te lu nonnu te lu nonnu te lu nonnu tou.
A fiate ccappa cu stai nu picca maru, no? Ca tuttu te pare niuru e nu sai propriu te ddu a ncignare. Quandu me sentu cussi iou me nde bbau fore e me scaffu intra a n’arviru, intra propriu, percè sulamente cussì me sentu protetta. Me ticu ca ci ddh’arviru a risistutu tantu tiempu a tante te ddhre disgrazie, beh, nu picca te forza me la pote tare puru a mie. E ma la tae! L’arviri suntu creature vive, suntu cristiani ca tenenu n’intellingenza loru, nu movimentu, na vita ca osce te tae e crai te llea. L’arviru ete comu li cristiani, te tratta pe comu lu tratti, e allora iou aggiu fattu nu pattu cu l’arviri mei. Iddhri me tanu lu fruttu pe quantu è possibile e iou li curu e li rispettu comu quandu ca eranu santi. E pregu pe iddhri cu stanu sempre bueni percè bu immaginati ci te lu oce allu crai l’arviri te ulia nu nc’eranu cchiui? A quai dintava nu desertu e intra lu desertu poesie nu nde cuntanu e nu nde scrivenu.
Ncete gente ca se uanta ca tene lu “sangue blu”. Sapiti cce bu ticu? Iou lu sangu lu tegnu olivastru. Densu, brillante, cu na gradazione intornu allu 0.8, o chiu acida a secundu te quantu me fannu nnervosire. Lu sangu miu ete profumatu, ete na miticina ca te ddu passa pulizza e depura. Ete sacru percè te unge e nu se nda bbae chhiui.
Lu sangu miu ete benitittu, ete nu gigante cu lu troncu spezzatu esattamente a metà, ca quandu lu uardi te lu largu pare ca le ddo parti se sta cercanu e se sta avvitanu comu a nu corteggiamentu ca tura te secoli e nu spiaccia mai. Ratici mbrigghiate una all’aura e rami superbi, te na parte lu passatu e te l’aura l’avvenire ca ballanu pe sempre a ritmu te ientu.


È da quando son piccola che vivo in mezzo agli alberi. Di ulivo. Perché si, magari gli altri possono essere più raffinati e colorati ma quello che mi danno gli alberi di ulivo non me lo dà nessuno, neanche le persone, anzi soprattutto le persone. Appena entri nella Masseria, nel terreno di mio zio c’è quello su cui mi sono seduta per la foto con l’abito da sposa. Com’ero contenta quel giorno! Mi ci sedetti sopra mezza storta e iniziai a ridere perchè nella mia testolina quel sorriso doveva durare minimo cent’anni, come quell’albero.
Un po’ più avanti sulla destra ce n’è un altro che ha il tronco spezzato esattamente a metà. Lì un giorno quand’ero piccola mi portò un ragazzo, anzi per la verità lo portai io, e gli diedi un bacio, il primo bacio della vita mia. Sapeva di terra  rossa, di foglie secche che si infilano nelle scarpe e ti pizzicano, giusto per ricordarti che sei vivo. Insomma, lui mi guardò e disse: “Quest’albero sarà nostro per sempre!”. E poi qualche anno dopo ne battezzammo un altro, albero si intende. Successe dopo una pasquetta, mentre parlavamo ci fermammo sotto una chioma immensa, magnifica, e siccome era metà aprile le foglie nuove brillavano al sole, o forse ero io ad aver bevuto e a vederle brillare. Tante stelle tutte per noi che ci amammo come neanche sapevamo fare ancora, e ridevamo e ci abbracciavamo, piano piano per non farci male. Come fu bello, quella volta.
E già. Però non è finita qui perché gli alberi son tanti. Un po’ più avanti ce n’è uno che sta tutto piegato, tocca quasi terra, io l’ho chiamato Pigro. Mio padre mi ha detto che quand’era bambino l’ha aiutato a non spezzarsi e infatti quello si è completamente piegato ma non s’è spezzato. E non si spezza. Mio figlio ogni tanto ci si siede sopra perchè ha il tronco come una panchina. Alcuni giorni se ti lì trovi all’ora giusta e lo guardi con la luce giusta sembra che abbia il viso disegnato con gli occhi, il naso e la bocca che ti sorride. Davvero! È possente, con un petto forte e le braccia sempre aperte verso il cielo pronto ad abbracciarti. E poi ce n’è un altro che mi fa un po’ paura perché ha le radici che escon tutte fuori a forma di triangolo, tanto che da lontano sembrano due porte e chissà cosa c’è lì dietro.
Al Beneficio invece c’è un albero con un tronco talmente scavato dal tempo che dentro s’è formata una specie di grotta e quand’è tempo di Natale io vado lì sotto e ci metto i personaggi del presepe: La Madonna, San Giuseppe e Gesù bambino e poi i re magi li nascondono sempre i gatti e non li trovi più. Se ti metti a cercare nel terreno sarà pieno di Gasparri e Melchiorri. Sicuro. E che devo fare? Pazienza.
Gli alberi degli Scaloti li han piantati i miei bisnonni, praticamente i genitori di mia nonna, nel 1900. Roba che quando in inverno vado a raccoglier le olive e penso che quegli alberi son stati piantati con le mani del sangue mio, lo so che son strana ma mi viene da piangere, anzi no, mi viene da baciarmeli tutti, da abbracciarli, da pettinar loro i rami. Come son belli gli alberi miei. Perchè voi li vedete fermi e silenziosi ma se vi ci sedete sotto e state un po’ in silenzio vedrete quante storie potranno raccontarvi. Se ve ne state seduti sotto un albero o vi ci stendete, fate voi, ad un certo punto comincerete a sentire voci e tamburelli, canti antichi che non si sentono più, comincerete e sentire il rumore della terra mentre viene impastata dall’aratro, il fruscio delle foglie quando il vento le muove, lo sbattere d’ali di un uccellino che si muove tra un ramo e l’altro. Storie, un sacco di storie di tuo padre e poi di tuo nonno e poi del nonno di tuo nonno, e poi del nonno del nonno di tuo nonno.
A volte capita di esser un po’ triste, no? Di veder tutto nero e non saper più da dove iniziare. Quando mi sento così io me ne vado in campagna e mi ficco in un albero, proprio dentro, perché solo così mi sento protetta. Mi dico che se quell’albero ha resistito a tante di quelle disgrazie, beh, un po’ di forza potrà darla anche a me. E me la dà! Gli alberi sono creature vive, sono persone con una propria intelligenza, un movimento, una vita che oggi ti dà e domani ti toglie. L’albero è come le persone, ti tratta per come lo tratti, e allora io ho fatto un patto con gli alberi miei. Loro mi danno il frutto per quanto è possibile e io li curo e li rispetto come se fossero santi. E prego per loro perché stiano sempre bene: vi immaginate se dall’oggi al domani gli alberi di ulivo non ci fossero più? Qui ci sarebbe un deserto e nel deserto poesie non se ne recitano e non se ne scrivono.
C’è gente che si vanta di avere il “sangue blu”: sapete che vi dico? Io il sangue ce l’ho olivastro. Denso, brillante, con una gradazione intorno allo 0.8 o più acida a seconda di quanto mi fanno innervosire. Il sangue mio è profumato, è una medicina che da dove passa pulisce e depura. È sacro perché ti unge e non se ne va più.
Il sangue mio è benedetto, è un gigante col tronco spezzato esattamente a metà, e quando lo guardi da lontano sembra che le due parti si stiano cercando e avvitando come in un corteggiamento che dura da secoli e non finisce mai. Radici avvinghiate una all’altra e rami superbi, da una parte il passato e dall’altra il futuro che ballano per sempre a ritmo di vento.

Il popolo degli ulivi - Rosaria Gasparro 


«Quello che so io è che sono un albero d’ulivo», dice Nandu Popu. Ed è quello che sa e che sente ognuno dei presenti. Siamo in migliaia, siamo qui per dichiarare il nostro patto d’amore per la nostra terra. Lo cantiamo insieme a lui che non dimentichiamo le radici da cui veniamo e che oggi ci chiamano.
«Quista è casa mia, terra mia, lu Salentu no nù sse tocca».
Ci sono tantissimi giovani. Bellissimi figli degli ulivi, con i ramoscelli tra i capelli. Ci sono i medici per l’ambientedell’Isde, gli oncologi della Lilt, il Forum ambiente e salute. Perché «sarà un attentato alla salute di tutti, saranno usati pesticidi, alcuni dei quali clorati, che entreranno direttamente nella membrana delle cellule» come dice il dottor Carlo De Michele. Sono settanta fra enti e associazioni presenti. Ci sono quelli che hanno fatto quaranta chilometri in bici per essere qui. Ci sono quelli che hanno saltato il pranzo perché oggi è qui la festa. Paola e Marc con il loro campo coltivato con la permacultura. I giovani contadini e gli imprenditori agricoli. Gli anziani che parlano con gli alberi, che sanno che l’ulivo vuole cinque cose: largo, pietra, letame, accetta e sole. Ci sono gli agronomi e gli artisti, i Sud Sound System, Mimmo Cavallo ed Enza Pagliara.
Ivano Gioffreda, l’agricoltore combattente, presidente di Spazi Popolari, uno degli organizzatori dell’evento, infiamma gli animi quando dice che ci vuole l’università della saggezza popolare, che la ricerca deve essere libera e che invece non lo è, che dopo cinquant’anni di agrochimica le università farebbero bene a insegnare come si zappa la terra, come si ama, come si cura, che nessuno può permettersi di eradicare la nostra cultura, il simbolo di ciò che siamo. Ivano, che i denigratori chiamano santone e complottista, che ha guarito i suoi alberi malati disinfettandoli con poltiglia bordolese autoprodotta a base di solfato di rame e grassello di calce.

Ci sono le donne, tante, quelle su cui contare, quelle come Antonia Battaglia di Peacelink che ha sollevato dubbi, presso la Commissione europea, sulla causa del disseccamento rapido degli ulivi, che potrebbe non essere attribuibile al batterio xylella, ma ad altri fattori patogeni come i funghi tracheomicotici. Donne di scienza come Antonia Carlucci, evocata dal palco ricavato sugli scalini, ricercatrice presso l’università di Foggia in patologia vegetale, secondo la quale il fenomeno del disseccamento deve esser ulteriormente studiato, dal momento che non è ancora chiaro se la xylella sia il patogeno primario o secondario e quale ruolo abbiano i funghi nella malattia che sta colpendo gli ulivi salentini.
Donne di legge, come il sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone che indaga da un anno sul batterio e che ha denunciato il fatto che l’Istituto agronomico mediterraneo, dove si è svolto il workshop del 2010 nel quale è stato portato il batterio da xylella per scopi scientifici, gode per legge di immunità assoluta e l’autorità giudiziaria non può andare a indagare. Un caso unico nello scenario mondiale.

«È nato un popolo» dice Luigi Russo, presidente del Csv, uno dei promotori della giornata, che si è appellato al principio della precauzione come principio a cui attenersi in assenza di dati certi. Che si chiede come mai nell’ultimo rapporto sulle agromafie, coordinato dal procuratore Caselli, il primo capitolo è dedicato proprio alla xylella fastidiosa.
È nato il popolo degli ulivi, che si ribella all’eradicazione, che si legherà ai tronchi millenari per impedirne la strage. «Gli ulivi non hanno bisogno di essere benedetti, ma di essere accuditi» ha detto don Raffaele Bruno. «E che continuino a interrogarci con la loro salute malferma». Anche la Chiesa è scesa in campo per il bene comune con il messaggio dei vescovi salentini “Terra del Salento, alzati e cammina”.
C’è un popolo senza politici, che si appella alla propria intelligenza, alla propria passione, che rivendica il possesso della propria terra, che rifiuta la politica dell’emergenza, che sa che non c’è risarcimento possibile per un solo ulivo eradicato, che pretende studi e conoscenza, trasparenza e partecipazione. Che rifiuta questo modo d’intervenire così distruttivo che cambierà il volto del Salento, ne farà un deserto aperto alle speculazioni, e segnerà per sempre il destino delle sue genti. Un popolo resistente che da Sofocle in poi sa che l’ulivo è inviolabile e che “nessun uomo, giovane o vecchio, lo distruggerà sradicandolo con forza”.

C’era bisogno della xylella – qualcuno dice – per ripensare il modo di vivere, di sprecare, di trattare la terra e il creato. Con la xylella impareremo a vivere. Questa è la Magna Grecia, qui nacque la cultura. Non svenderemo nulla.
«Quista è casa mia, terra mia e lassu sempre aperta la porta».

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