sabato 29 dicembre 2018
venerdì 28 dicembre 2018
giovedì 27 dicembre 2018
Contro il dominio dell’automatico - Amador Fernández-Savater
Trascorriamo
la giornata guardando, ma siamo capaci di vedere qualcosa?
Qual è il rapporto tra vedere e pensare? E in che senso la percezione è un
problema politico? Il dominio degli stereotipi ci rende ciechi e ottusi.
Lo
scrittore Albert Camus ha detto: “Pensare è apprendere di nuovo a vedere e a
prestare attenzione”. È una frase sorprendente perché il pensiero non si
vincola al sapere, al conoscere, all’analisi o alla verità, ma alla trasformazione della percezione e
dell’attenzione.
Apprendere: andare oltre il conosciuto. Di nuovo a vedere: ricreare il
nostro sguardo su qualcosa, vederlo in modo diverso. E a prestare attenzione: prendere in
considerazione una altro piano della realtà, un altro tipo di segnali.
Affronterò
questa immagine del pensiero, come ricostruzione dello sguardo e dell’attenzione, con due esempi
che ho a portata di mano. E incoraggio tutti a immaginare i propri.
Rinominare la realtà
Il
primo è un articolo breve che di recente mi
ha inviato la mia amica Amarela Varela, perché sia pubblicato su eldiario.es. Amarela è una
professoressa di Città del Messico e da molto tempo è impegnata – con la parola
e con il corpo – nei movimenti e nelle lotte dei migranti. L’articolo parla
della carovana di migranti, in maggioranza honduregni, che in questi giorni
attraversa il Messico verso gli Stati Uniti, monopolizzando la visibilità
mediatica globale (l’articolo di Amador è stato scritto a metà novembre, ndt).
Amarela spiega che la massiccia migrazione
centroamericana non è una novità in Messico. La novità è come ora si è
organizzata: dopo
una lunga storia di arresti, deportazioni e massacri, i migranti si sono messi a camminare
assieme, autonomamente, senza i coyotes di
mezzo, con una voce pubblica e propria, accompagnati da organizzazioni per i
diritti umani e da mass media.
L’articolo è un invito a vedere la
politicità di questo gesto di autonomia. A
smettere di guardare ai migranti solo come vittime della fatalità o come
persone manipolate da qualche complotto dei potenti. A prestare
attenzione e ad ascoltare la loro voce, quello che loro stessi dicono della
loro situazione e della loro esperienza.
In
questa nuova politicità, non troveremo sicuramente alcuni degli elementi
classici (programma o slogan anticapitalistici, ecc.), ma una disobbedienza
praticata con il corpo al regime delle frontiere e un interpellare positivo
alla solidarietà del popolo messicano, che sta rispondendo con gesti di ospitalità
radicale molto incoraggianti.
L’articolo
di Amarela conclude dicendo: “Non è una carovana di migranti, ma un esodo di
sfollati, però soprattutto è un nuovo movimento sociale che cammina per una
vita vivibile”.
Qual è la forza di questo articolo? A mio giudizio,
consiste nella sua capacità di rinominare la realtà. Rinominando la realtà, vediamo qualcosa di diverso e la nostra attenzione
si attiva. Penso che quel gesto di spostamento spieghi l’impatto che il
testo ha avuto su tanti lettori.
Ne
posso parlare in prima persona: seguivo quanto accadeva con la carovana di
migranti attraverso le immagini della televisione, ma niente di quanto veniva
detto o mostrato ha rotto, in alcun momento, la barriera degli stereotipi che
anestetizzava la mia percezione: “Ahi, povera gente”. Guardavo, però non vedevonulla.
Niente di particolare, niente che mi colpisse.
Ma all’improvviso c’è qualcosa da vedere.
All’improvviso si apre qualcosa da vedere.
Vista così, come ci propone Amarela, possiamo percepire altre
cose nella carovana. Non si tratta solo di vittime spinte dalla disgrazia o
manipolate dai politici, ma c’è anche capacità politica, intelligenza,
autonomia. E possiamo ascoltare anche un appello: a inventare gesti di solidarietà, ma non più con la disgrazia che ha
toccato gli altri, ma con una lotta che ci riguarda.
Un’immagine
allontana e raffredda: “Sono le disgrazie altrui”, “Non bisogna fidarsi degli
altri perché sono manipolati”. Mentre l’altra avvicina e invita: “Qui c’è una
potenza, c’è qualcosa che non conosci”, “Presta attenzione e torna a guardare”.
Qualcosa
che altrimenti non è chiaro. Perché l’articolo non cambia
un’etichetta con un’altra, affermando per esempio: “Non sono vittime, ma un
altro movimento sociale”. Questo “nuovo movimento sociale” che è la carovana,
non è ovvio, non è evidente, non è un classico movimento sociale. Il testo ci propone di avvicinarci per vedere
e pensare qualcosa che ancora non è stato visto e pensato.
Chiameremo
“immagine feconda”,
quest’immagine che ci dà qualcosa da vedere. L’immagine che ci commuove e ci
colpisce. L’immagine che ricrea il
nostro sguardo e che ci dà da pensare. L’immagine aperta e incompiuta che
richiede da noi un movimento.
Non c’è niente da vedere: gli stereotipi
Queste
immagini possono provenire dai luoghi più diversi, dal cinema o dal saggio,
dalla fotografia o dalla poesia, dal teatro o dalla letteratura, si possono
fabbricare con materiali molto differenti (parola, colore, gesto, movimento),
ecc.
Il problema, pertanto, non è che viviamo in mezzo a un’inflazione di immagini, ma a
un’inflazione di immagini sature e saturanti: gli stereotipi.
Lo stereotipo è un senso impacchettato. Che dice, cosa fa? “Qui non c’è niente
da vedere”. Vale a dire: non c’è nulla che non avessimo già visto. Il mondo è
già-visto, già-sentito, già-pensato.
Lo stereotipo è una risposta automatica. Il risultato dell’applicazione di un codice sulla
realtà: mediatico, politico, ideologico, ecc. In questo modo non vediamo o
pensiamo più, ma semplicemente riconosciamo. Non vediamo o
pensiamo, ma solo ricordiamo ciò che sta nel codice.
I codici non sempre sono consci, ma funzionano attraverso
di noi: siamo visti, pensati e agiti da loro. Balzano fuori automaticamente lì dove non c’è
un lavoro di elaborazione propria. Durante la maggior parte del tempo, noi
siamo ripetitori di stereotipi. Ci riteniamo unici, ma siamo fatti in serie.
Cos’è che vediamo se presupponiamo la realtà a
partire da un codice?Solamente illustrazioni del
nostro racconto precedente, metafore della nostra spiegazione
del mondo, riflessi servili del codice applicato. Ogni volta lo stesso:mai oggetti o
avvenimenti unici, sempre casi di una serie. Un’altra disgrazia ancora,
un’altra manipolazione ancora, un altro movimento sociale ancora….
Dal
codice, lo sguardo vede sempre ciò che vuole vedere. La realtà si appiattisce, si semplifica, si
riduce: scartiamo come rumore tutto ciò che non rientra nel codice, che
è proprio tutto ciò che potrebbe darci da pensare. Le ombre, le
contraddizioni, le impurità, la confusione del reale.
Secondo
il filosofo, la dignità di qualsiasi cosa – da un essere vivente fino a un
evento – consiste nell’essere trattata come un fine e non come un mezzo. Lo sguardo codificato è tuttavia uno sguardo
che strumentalizza: non vede nient’altro che pezzi e mezzi dei fini. Niente
ha valore o potenza in sé, la potenza di dare origine a nuovi
sguardi, idee o azioni.
Ci indigniamo quando vediamo come i codici altrui
trattano la dignità delle cose che conosciamo e che amiamo. Perché le forzano fino a farle rientrare
nelle forme precedenti e le violano fino a far loro dire quello che si vuole
che dicano. Molto di rado, però,
riesaminiamo in modo critico i codici stessi.
Lo
stereotipo anestetizza la nostra percezione, ma non in modo freddo e
spassionato. Al contrario: quasi
nulla ci produce più godimento e ardore che il ripetere gli stereotipi. Li replichiamo come se stessimo
affermando quanto di più intimo, più profondo e più autentico del nostro
essere. Ci emozionano, ci
infiammano, ci portano fino alle lacrime. C’è una vera passione per la
ripetizione, la conferma, la mimesi, l’adesione. È il godimento del
riconoscimento e dell’identità.
Infine, lo stereotipo cerca il potere:
riprodursi, diffondersi, convincere, vincere, occupare l’intero spazio
di attenzione. È un potere di saturazione, di assimilazione, di
normalizzazione. Vuole di più di sé stesso, eliminare tutto il resto. Che non
rimanga nulla da vedere, che non rimanga nulla da pensare.
Pensare a partire dai dettagli
Un
secondo esempio, questa volta una storia personale. Pochi giorni dopo che il
15M era emerso nelle piazze di tutta la Spagna, ho sentito il desiderio di
scrivere su quanto stavamo vivendo. Di solito, si scrive per condividere ciò
che si è capito, ma in questo caso si trattava di scrivere per capire, scrivere proprio perché non capisci.
E come scrivere su quello che non capisci? Al riguardo, nelle conversazioni con
gli amici alla Puerta del Sol, uno di loro mi cita una frase dello storico
greco Erodoto sul suo metodo: “Annoto
tutto ciò che non capisco”. Comincio allora a registrare dettagli della
piazza che richiamano la mia attenzione e che mi danno da pensare: micropercezioni,
sensazioni, domande, appunti di conversazioni, una certa scena, un certo
slogan, un certo dipinto, balbettii di interpretazione o riflessione alla luce
di quanto succede, un certo intervento in assemblea, un grido, una vibrazione,
un tono affettivo…
Compongo
così un “quaderno di dettagli”,
che pubblico a puntate (fino a nove) nel mio blog del giornale Público con
il nome di “Apuntes de acampadasol”.
Vedere è la cosa
più difficile, perché prima bisogna fermare il mondo. Quello che dice lo stregone Don Juan al
suo apprendista Carlos Castaneda in quella serie di mitici libri degli anni
60-70 . Cosa significa fermare il mondo? Fermare la descrizione che gli dà forma giorno dopo giorno, la
descrizione che condividiamo e che costruisce una percezione del mondo
consensuale e normalizzata. Fermare gli automatismi.
Nel mio
caso, fermare il mondo ha significato anche fermare le teorie
filosofico-politiche tra le quali vivo – per vocazione e professione – e che
sono state subito dispiegate per spiegare quello che succedeva. Perché qualsiasi cosa può trasformarsi in codice e
non lasciarci vedere, anche una teoria molto sofisticata che è nata per rendere
conto della complessità sociale. Applicarla sulla realtà può essere un modo come un altro di presupporreciò
che succede con schemi precedenti e non ascoltare. Quindi, invece
di vedere la piazza 15M o quel che si vuole, vediamo il codice di Jacques
Rancière, di Toni Negri o di Ernesto Laclau. E la materialità delle cose vive
si dissolve in astrazioni spettrali.
Mettere un po’ tra parentesi le teorie e pensare a
partire dai dettagli:questo
è stato il mio modo particolare di fermare il mondo al fine di vedere.
Un modo di entrare in contatto, lasciarsi toccare e colpire da quanto accadeva.
Mentre
applicare un codice qualsiasi è un modo di dematerializzare la
realtà, il dettaglio è al
contrario un colpo di colore, di voce, di affetto o di
intensità. E dico colpo perché non lo scegliamo esattamente noi: è il dettaglio
che richiama la nostra attenzione, non la nostra attenzione che scopre il
dettaglio. Ci richiede un’attenzione che non è di caccia e cattura,
quanto piuttosto di attenzione galleggiante.
Il dettaglio non lo possiamo riconoscere o ricordare. Non è illustrazione, una metafora o
il riflesso di un codice precedente. È quello che c’è da vedere e da
pensare. Non è la conclusione di
qualcosa, bensì un’apertura, un inizio del viaggio. Non ha già un senso: è
ciò che apre la via alla creazione di senso.
Il
dettaglio è sempre unico: non è mai il caso di una serie, ma sempre tale,
così, questo, questa, qui, adesso.
E una
singolarità alquanto opaca o misteriosa. È ciò che non torna, ci fa domande, ci pone problemi, ci mette a disagio,
ci induce a smuoverci. Per questo motivo, quelli che vogliono
elevare la “chiarezza” e la “comunicabilità” a regola generale dell’espressione
o della creazione, in realtà non vogliono vedere o pensare nulla: solo il già
visto e pensato è chiaro e trasparente, “immediatamente comunicabile”.
Il dettaglio passa per il corpo, ma in maniera
diversa dal godimento dello stereotipo. Non ci conferma di fronte alla
realtà, ma ci pone in relazione con essa. Ci commuove: ci tira fuori dalle nostre
caselle e ci apre all’altro. Ci incita, ci apre gli occhi, attiva la nostra
curiosità, ci connette e ci coinvolge con il mondo. Non è il godimento della
stabilità, ma il piacere di una certa destabilizzazione.
Infine, il dettaglio non vuole il potere:
un dettaglio non si oppone agli altri e possono esserci tanti dettagli quanti
sono i viaggi del pensiero. Il dettaglio non satura il visibile, ma lo apre.
Non pretende di dire ciò che si deve pensare, ma dà da pensare.
Intensificare un sapore
Tutta una venerabile tradizione di pensiero diffida
dei dettagli in modo radicale. Platone diceva: “Per pensare bisogna strapparsi gli
occhi”. Ciò che è sensibile porta all’errore: vediamo una cosa, ma la verità è
altrove. Bisogna sospettare di quanto accade e perseguire
l’eterno, il fisso e l’immutabile. I dettagli sono solo apparenze o sintomi di
ciò che è essenziale e vero. Si tratta di astrarli, vedere il mondo
con l’occhio della mente.
Seguendo questa tradizione, nelle nostre accademie e
università, oggi si obbligano gli studenti che fanno un lavoro a elaborare
anzitutto un “quadro teorico”. In primo luogo, fabbricarsi delle lenti. Quindi,
applicarle a questo o quell’oggetto di pensiero. In realtà, ciò che così si insegna è a diffidare
di quello che si vede. Di quello che uno può vedere per conto suo,
dei dettagli che lo colpiscono e che possono attivare il pensiero.
Due sono le conseguenze nefaste di questa procedura.
In primo luogo, lo studente rimane, così, insicuro e fragile: il quadro teorico non sarà mai
sufficientemente solido, mancheranno sempre riferimenti e letture. Nell’idea
del sapere come accumulazione saremo sempre in deficit, in difetto. In secondo
luogo, lo studente si trasforma in
un ripetitore: vede solo quello che il quadro teorico
(un autore o una serie di autori) lo lascia vedere. Non si permette di vedere
da solo, di trasformarsi lui stesso in autore.
Pensare è fuggire da questa prigione. Autorizzarci a
pensare a partire dai dettagli che ci colpiscono, come il solo modo di produrre
qualcosa di diverso e di nostro.
Il
dettaglio non è il piccolo, l’isolato, ciò che trova il suo senso in un’altra
parte (la parte di un tutto), bensì quel che contiene in sé il mondo (il
tutto sta nella parte). Possiamo distendere il dettaglio:
tirarlo e tirarlo fino a dispiegare il mondo intero che contiene.
I
riferimenti esistenti possono servire per intensificare i
dettagli. Proviamo a pensare che
il dettaglio sia un sapore. Quali condimenti intensificano quel
sapore? Ci sono condimenti (e modi di combinarli) che cancellano il sapore, lo
annullano. Ma altri lo possono prolungare e raffinare. Un certo
autore o una certa teoria valgono se e solo se intensificano
il sapore unico del dettaglio.
È una
questione di cucina. Il buon
condimento coglie e valorizza il sapore del dettaglio. E quello cattivo lo
copre: non ci permette di apprezzare la materialità di una
situazione, la particolarità di questo o quel dettaglio della realtà. Non ci fa
assaporare il mondo da una prospettiva singolare, la prospettiva di qualcuno.
Lo schema teorico sostituisce il dettaglio invece di intensificarlo. E allora
tutti i dettagli hanno lo stesso sapore. Riconosciamo così un cattivo
autore.
Credere nel mondo
Comprendere senza pensare, pensare senza ascoltare,
ascoltare senza sentire: il dominio degli stereotipi è profondamente nichilista.
Ci aliena dal mondo. Come
mai? In che senso?
Nulla
di ciò che c’è si prende in modo affermativo, per la sua
potenza di dar luogo a, ma sempre in funzione del nostro codice, di quello che
vogliamo vedere. Con lo stereotipo
non succede mai nulla, torna sempre qualcosa.
L’importante
non è mai qui e ora, davanti agli occhi, ma nelle linee del nostro
codice. Il mondo e i suoi dettagli non ci importano più, non ci richiedono
più: è la vittoria
dell’indifferenza e della sfiducia verso quanto c’è, verso quanto accade.
Al contrario, l’immagine feconda fa
succedere qualcosa, rilancia e condivide qualcosa che ci è successo. Ci
permette così di tornare a “credere nel mondo”: ci sono cose da vedere,
cose da pensare, cose da fare.L’immagine feconda ci apre alla ricchezza di quanto
viene dato come ovvio, di quanto è catturato nello stereotipo. Quello che (ci)
succede, importa. Il mondo è pieno di dettagli, quindi è pieno di punti di
potenza. Possiamo averne fiducia.
La
povertà o la nullità di una situazione si trova prima nel nostro sguardo
stereotipato rispetto alla situazione stessa. Pensare (e dar da pensare) è imparare di nuovo a vedere e a porre
attenzione. È, in definitiva, apprendere a essere presenti nel
mondo, a essere vivi nella vita.
Riferimenti:
Questa
è una versione delle note che ho letto di recente in due contesti di lavoro
sull’immagine cinematografica: Zineleku (Vitoria) e Cine por Venir (Valencia).
I
migliori riferimenti, come sempre, sono le conversazioni con tutti gli amici e
maestri nell’arte del vedere: Marta Malo, Hugo Savino, Amarela Valera, Miriam
Martín, Arantza Santesteban, Diego Sztulwark, Juan Gutiérrez, Jun Fujita, Lucía
Gómez, José Miguel Fernández-Layos, Franco Ingrassia (al quale rubo
l’espressione “immagine feconda”), Francisco Jodar (che mi ha fatto vedere la
questione di “credere nel mondo” a partire da Gilles Deleuze).
Il
sapore dei dettagli e gli stereotipi si è intensificato con i
concetti di “segni” e “tensori” di Jean François Lyotard in Economia libidinale.
L’immagine
in alto è un dettaglio dell’opera Esto es lo verdadero, di Rafael
Sánchez-Mateos Paniagua e Fernando Baena, anche loro maestri nel vedere,
nel lasciar vedere.
Articolo
pubblicato su eldiario.es con il titolo “Dar a ver, dar que
pensar: contra el dominio de lo automático“.
Traduzione
per Comune-info: Daniela Cavallo
mercoledì 26 dicembre 2018
Sorpresa: il governo del cambiamento regolarizzerà gli abusivi della sanità - Elisa Serafini
Fisioterapisti, ostetrici, tecnici della riabilitazione. Si stava per
istituire un albo professionale per queste figure. Ma il ”Governo del
cambiamento” ci ha messo lo zampino. Aprendo a chi non ha svolto i corsi
universitari le porte della professione. Non sapremo sotto le mani di chi
finiremo.
C’è fermento tra chi, in Italia, ha studiato
fisioterapia, ostetricia, tecniche della riabilitazione e altri corsi delle
facoltà sanitarie italiane. Centinaia di migliaia di giovani che hanno
scelto di investire in percorsi universitari, sostenendo decine di esami e
svolgendo tirocini professionalizzanti.
Professioni, per loro natura, molto delicate, visto
l’impatto che hanno sulla salute di pazienti e cittadini. Ebbene queste
professioni, oggi, rischiano di essere letteralmente calpestate da un
emendamento sostenuto dal Governo, che equipara, di fatto, la professione
svolta da chi è abilitato con corsi universitari, a quella di chi, magari, non
ha neanche mai aperto un libro o effettuato un’esercitazione.
Andiamo con ordine: lo scorso anno, su richiesta
delle diverse categorie delle professioni sanitarie, il Ministro Lorenzin aveva
avviato la creazione di specifici albi professionali, con l’obiettivo di
regolarizzare lo svolgimento delle professioni sanitarie I professionisti
(infermieri, fisioterapisti, ostetriche, tecnici riabilitativi ecc..), erano
quindi stati invitati a versare, nell’arco del 2018, un contributo di circa 300
euro, per potersi iscrivere all’albo, la cui entrata in vigore era prevista per
il 2019. Facendo una rapida stima, considerando i circa
250.000 professionisti, un incasso di oltre sette milioni di euro. Non male.
Pochi giorni fa, però, la sorpresa. Viene presentato
un emendamento (il numero 1.6003, modifica alla legge 42/99) che istituisce un
elenco “speciale”, che garantisce la continuità della professione, a chi ha svolto
per trentasei mesi, anche non continuativamente, negli ultimi dieci anni,
l’attività professionale senza averne i titoli.
Una persona che in questi
ultimi dieci anni, ha svolto per almeno 36 mesi, autonomamente o da dipendente,
una professione sanitaria senza titolo di studio, potrà continuare ad
esercitare la stessa professione di chi ha seguito un percorso universitario
Tradotto: una persona che in questi ultimi dieci anni, ha
svolto per almeno 36 mesi, autonomamente o da dipendente, una professione
sanitaria senza titolo di studio, potrà continuare ad esercitare la stessa
professione di chi ha seguito un percorso universitario di tre anni con tirocini,
specializzazioni e quant’altro.
Una persona che ha effettuato un corso professionale
di qualche mese, potrà quindi scrivere sul biglietto da visita la stessa
professione di un professionista che ha conseguito la laurea in un
corso di professioni sanitarie. Non solo, potrà anche scrivere “iscritto
all’albo”, creando ancora più confusione tra i consumatori e i pazienti. Per
questo motivo, le associazioni di categoria hanno diramato diversi comunicati,
tuonando contro il Ministro Grillo complice di aver scelto di sostenere una
politica di “sanatoria tombale”.
Qualcuno riterrà, che dovrebbe essere il mercato a
stabilire chi può o non può svolgere una professione.Vero, ma quando si
tratta di salute è legittimo domandarsi se l'asimmetria
informativa che si verifica tra paziente e professionista, non debba essere compensata,
almeno in parte, dalla trasparenza di accesso ai
titoli di chi esercita la professione poichè effettuare una scelta di consumo che
riguarda la propria salute, non è proprio come scegliere un avvocato, un
tassista, o un notaio.
Il governo riesce magistralmente in due obiettivi: scontentare chi
è a favore degli albi e della regolamentazione delle professioni, e chi è
contrario agli ordini professionali, incassando, al tempo stesso, milioni di
euro.
Infine il paradosso, ed il capolavoro dell’esecutivo: istituendo ben due
albi, il governo creerà nuova spesa pubblica, peggiorerà gli adempimenti
burocratici, e incasserà milioni di euro senza tutelare, alla fine, proprio
nessuno: nè professionisti, nè pazienti.
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lavoro,
malattie
martedì 25 dicembre 2018
Perché salvare insieme dune e spiaggia di Chia non vuol dire “pagare un riscatto”
E’ davvero molto
grande il sostegno
collettivo creatosi in
pochissimi giorni in favore della campagna promossa
dall’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico onlus “Salviamo
insieme dune e spiaggia di Chia” con il coinvolgimento di tantissime personeche hanno
ben compreso il significato “popolare” dell’acquisto di parte
delle dune e della spiaggia di Chia, uno straordinario gioiello del Mediterraneo.
L’obiettivo,
come noto, è salvaguardare le dune e la spiaggia anche per
le generazioni future e garantirne la fruizione
pubblica.
Non vogliamo
certamente sostituirci a chi istituzionalmente deve perseguire il fine pubblico
della tutela ambientale.
Non ci passa nemmeno
per l’anticamera del cervello.
Stato, Regioni, Comuni,
qualsiasi amministrazione pubblica competente dovrebbe farlo per dettato
costituzionale (artt. 9 e 117 cost.).
Ma che succede se non
accade?
In Sardegna dovrebbe
provvedere specificamente l’Agenzia per la
Conservatoria delle coste, lodevolmente istituita qualche anno fa proprio su nostre forti
richieste, ma colpevolmente è consegnata da
anni alla completa
inoperattività.
La presenza anche dei
più forti vincoli di tutela lungo le coste non esclude, poi,
che il proprietario possa chiudere l’accesso ai comuni
mortali.
Se qualsiasi
intervento di tutela ambientale e per salvaguardare gli interessi collettivi
dovesse essere prerogativa esclusiva delle amministrazioni pubbliche, non
esisterebbero le associazioni ambientaliste: per esempio, il WWF non
avrebbe potuto acquistare la foresta di
Monte Arcosu,
meritoriamente salvandola dal taglio e contribuendo a salvare il Cervo sardo,
il F.A.I.non avrebbe potuto acquisire Casa Dal Prà per poterla meritoriamente poi aprirla
al pubblico, Legambiente non dovrebbe svolgere le meritorie
giornate di Puliamo il
Mondo, visto che si tratta
di tipica attività di competenza delle amministrazioni locali, né
meritoriamente Italia Nostra potrebbe gestire e aprire al
pubblico la Torre Canai.
Non si tratta nemmeno
di “pagare il riscatto” per liberare un bene ambientale, come qualcuno potrebbe
pensare. Non significa che associazioni e cittadini debbano
comprare tutte le aree costiere “a rischio”. Questo sì, sarebbe
compito delle amministrazioni pubbliche.
Acquistare parte delle
dune e della spiaggia di Chia non significa sostituirsi ad alcuna amministrazione
pubblica, significa intervenire per tappare un buco al fine di
garantire la salvaguardia di un’area ambientale di elevatissimo pregio e
la permanenza della fruizione pubblica.
Possiamo farlo
insieme.
Per farlo abbiamo
bisogno dell’aiuto di tutte le persone che tengono al proprioambiente,
alla propria identità, al futuro della propria Terra.
Contribuisci all’acquisto delle dune e
della spiaggia di Chia con un
versamento sul conto corrente postale n. 22639090 intestato a
“associazione Gruppo d’Intervento Giuridico“ (causale “dune e
spiaggia di Chia”) oppure con un bonifico bancario con
il codice IBAN IT39 G076 0104 8000 0002 2639 090 (per
i versamenti dall’Estero il codice BIC/SWIFT è BPPIITRRXXX).
A chi contribuirà con
almeno 30,00 euro sarà inviato un simbolico attestato di benemerenzae
la tessera associativa, se gradita.
Ricordiamo, fra le
tante agevolazioni previste, che per le erogazioni
liberali in favore delle onlus come il Gruppo d’Intervento Giuridico è
prevista la detrazione del 19% degli importi donati fino a un
massimo di 2.065,83 euro (art. 15, comma 1°, lettera i – quater,
del D.P.R. n. 917/1986 e s.m.i., testo unico
delle imposte sui redditi – T.U.I.R.).
Naturalmente
anche imprese e aziende rispettose dell’ambiente possono
contribuire e ne sarà dato ampio risalto.
Il nostro ambiente e
la nostra identità non sono in vendita, insieme possiamo dimostrarlo
concretamente!
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus
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domenica 23 dicembre 2018
La matematica degli ultimi - Alessandro Ghebreigziabiher
C’erano una
volta leggere e far di conto.
Ah, quanto erano importanti, essenziali e imprescindibili da ogni umano scopo, allora.
Eppure, quanto lo sono ancora oggi, malgrado l’acuto starnazzare là fuori, con tutto il dovuto rispetto per il volatile verso.
Leggi pure come il rumore della folla senza volto di quantità artificiosamente gonfiata.
Ecco, esatto, il gioco, ovvero il trucco è tutto là.
Le parole ingannevoli in una mano e i numeri fasulli nell’altra.
E celate nelle maniche di entrambe i sottovalutati cuore e coscienza, dalla cui percezione nell’espressione altrui potresti avere la più attendibile macchina della verità mai esistita.
Nondimeno, leggere e far di conto, oggi sembrano superati.
Nel mondo attuale, tu guarda e credi, agli slogan, certo, ma soprattutto ai loro, di numeri.
Dove una donna coraggiosa, Patricia Okoumou, la quale scalò la Statua della Libertà per protestare contro una nazione insensibile innanzi alla migrazione che è linfa stessa del suo esistere, diventa l’una, la sola, punita per educarne cento.
Ah, quanto erano importanti, essenziali e imprescindibili da ogni umano scopo, allora.
Eppure, quanto lo sono ancora oggi, malgrado l’acuto starnazzare là fuori, con tutto il dovuto rispetto per il volatile verso.
Leggi pure come il rumore della folla senza volto di quantità artificiosamente gonfiata.
Ecco, esatto, il gioco, ovvero il trucco è tutto là.
Le parole ingannevoli in una mano e i numeri fasulli nell’altra.
E celate nelle maniche di entrambe i sottovalutati cuore e coscienza, dalla cui percezione nell’espressione altrui potresti avere la più attendibile macchina della verità mai esistita.
Nondimeno, leggere e far di conto, oggi sembrano superati.
Nel mondo attuale, tu guarda e credi, agli slogan, certo, ma soprattutto ai loro, di numeri.
Dove una donna coraggiosa, Patricia Okoumou, la quale scalò la Statua della Libertà per protestare contro una nazione insensibile innanzi alla migrazione che è linfa stessa del suo esistere, diventa l’una, la sola, punita per educarne cento.
Il mondo
dove i governi non si fanno eleggere più con le promesse, più o meno mantenute,
bensì con il cuoricino di
gradimento e la popolarità
sottoscritta ancor prima di avere le dovute risposte, senza i quali
né Salvini e tantomeno Di Maio avrebbero in
mano il destino di un paese.
Da ciò,
l’assurda, inquietante, eppur ormai dimostrata equazione: due, loro, moltiplicati per milioni di
“mi piace” e “ti seguo” – giammai voti –uguale guidare sessanta milioni di persone.
Il mondo, altresì, dove inevitabilmente e per fortuna la politica infame contro i rifugiati e addirittura l’aborto ti porta a rimanere solo, magari con al fianco l’Ungheria, di fronte al resto, compatto delle Nazioni Unite.
Il mondo, altresì, dove inevitabilmente e per fortuna la politica infame contro i rifugiati e addirittura l’aborto ti porta a rimanere solo, magari con al fianco l’Ungheria, di fronte al resto, compatto delle Nazioni Unite.
Ciò
nonostante, laddove quell’uno sia
il più potente e temuto tra tutti, ecco che ogni calcolo può risultare
irrisorio.
Se tutto ciò non bastasse, il mondo dove, ripetendo esattamente non il retto esempio, piuttosto uno tra i più atroci crimini del passato, le genti più fragili e bisognose di protezione e sostegno, come i bambini, vengono marchiati con dei numeri ignobili.
Se tutto ciò non bastasse, il mondo dove, ripetendo esattamente non il retto esempio, piuttosto uno tra i più atroci crimini del passato, le genti più fragili e bisognose di protezione e sostegno, come i bambini, vengono marchiati con dei numeri ignobili.
Ebbene, voi
che contate sull’ineluttabilità delle vostre disumane formule, sappiate che
dove il vostro avido occhio non può di certo arrivare esiste un’altra matematica.
Quella degli ultimi.
La storia lo racconta, la natura lo dimostra, questo è il nostro teorema.
Noi dividiamo lo zero che ci avete lasciato in parti uguali ed è così che diviene infinito.
Noi possiamo solo sottrarre, è vero, perché le somme le avete tutte voi, ma non siete in grado di immaginare quanto sia possibile sopravvivere alle privazioni.
Si chiama resistenza, è un assioma incorruttibile, ed è per questo che in ogni secolo fate l’errore di sottovalutarlo.
È così che ciò che per voi è poco, per noi diventa tutto.
Lentamente, certo, senza clamori, d’accordo.
Ma è così che ci riprendiamo il nostro.
Come fa la terra, così facciamo noi.
Come fiocchi di neve calpestata, costretti a un’esistenza ripida, inesorabilmente ci facciamo valanga.
Come granelli di polvere gettati nel vento, come tale torniamo indietro più forti di prima.
Come gocce di sangue martire, ci consoliamo a vicenda di ogni patimento.
Questo ci rende popolo reale, quello che voi non sarete mai.
Quella degli ultimi.
La storia lo racconta, la natura lo dimostra, questo è il nostro teorema.
Noi dividiamo lo zero che ci avete lasciato in parti uguali ed è così che diviene infinito.
Noi possiamo solo sottrarre, è vero, perché le somme le avete tutte voi, ma non siete in grado di immaginare quanto sia possibile sopravvivere alle privazioni.
Si chiama resistenza, è un assioma incorruttibile, ed è per questo che in ogni secolo fate l’errore di sottovalutarlo.
È così che ciò che per voi è poco, per noi diventa tutto.
Lentamente, certo, senza clamori, d’accordo.
Ma è così che ci riprendiamo il nostro.
Come fa la terra, così facciamo noi.
Come fiocchi di neve calpestata, costretti a un’esistenza ripida, inesorabilmente ci facciamo valanga.
Come granelli di polvere gettati nel vento, come tale torniamo indietro più forti di prima.
Come gocce di sangue martire, ci consoliamo a vicenda di ogni patimento.
Questo ci rende popolo reale, quello che voi non sarete mai.
C’erano una
volta, quindi, leggere e far di conto.
Ecco, verrà il giorno in cui
sarete obbligati ad allontanare lo sguardo dai sacri andamenti della borsa per vedere a occhio nudo e finalmente capire.
Cosa voglia davvero dire.
Essere in tanti…
Ecco, verrà il giorno in cui
sarete obbligati ad allontanare lo sguardo dai sacri andamenti della borsa per vedere a occhio nudo e finalmente capire.
Cosa voglia davvero dire.
Essere in tanti…
sabato 22 dicembre 2018
Una medaglia di sabbia dal Niger - Mauro Armanino
La seconda medaglia storica ai giochi olimpici di Rio
del 2016 è d’argento. In continuità con la lotta tradizionale nigerina, il
giovane Alfaga Abdoulrazak è
arrivato in finale nella specialità di taekwondo. Si è guadagnato l’argento
e meritatamente gli onori di casa. È diventato da allora un modello per i giovani nigerini, abituati a
vedere il proprio Paese in fondo alle altre classifiche. Per esempio l’indice
sullo sviluppo umano che ci conferma in un discutibile ultimo posto nella lista
dei paesi esaminati. C’è invece un primato di cui andiamo fieri e che portiamo
con dignità. Con un’ètà media di 15, 4 anni siamo il più giovane paese del
mondo. A titolo di illustrazione potremmo ricordare che in Italia, uno
dei paesi più vecchi, la media di età è di circa 45,5 anni. I nostri, qui, sono
anni spuntati da poco, da quindicenni appunto. Anni verificabili sulle strade,
nelle campagne e soprattutto nei reparti di maternità. Portiamo con onore la medaglia di sabbia.
Il primo ad entrare nella leggenda sportiva del Niger
è stato un pugile che ha guadagnato la medaglia di bronzo. Si tratta di Issaka Daboré che l’aveva ricevuta nel lontano 1972, ai
giochi olimpici di Monaco in Germania. Dopo il bronzo c’è stato l’argento del
giovane Abdoulrazake. Festeggiamo
adesso ciò che ci compete d’ufficio, una medaglia di sabbia tutta per noi, il
Paese più adolescente del mondo. Ci perdonerete se facciamo
confusione tra regolare o irregolare, tra certificati di nascita e visa
turistico. Per i numerosi colpi di stato, per le eccezioni alla carta
costituzionale e ai progetti di sviluppo che non arrivano mai a buon fine.
Abbiamo dalla nostra parte l’adolescenza, la prima giovinezza e l’infanzia che
ci accompagna. Non ci sogneremmo mai di competere con voi in altri ambiti ben
più importanti. Alla vostra età si presume un saggezza che non abbiamo. Per
esempio fare armi sofisticate, banche virtuali, speculazioni finanziarie, muri
di cinta e ponti levatoi tra un mare e l’altro. E non è finita qui. Con 45 anni di media avete paura di vivere
invece di rischiare come da noi.
C’è chi è ancora più piccolo
di noi, la bimba guatemalteca che, dopo non aver mangiato e bevuto per alcuni
giorni, è morta disidratata prima di raggiungere l’ospedale. Aveva sette anni e
aveva appena passato l’ultima frontiera della vita con suo padre e altri
migranti come lui. Un lungo viaggio senza ritorno dal suo Paese
all’Altro. Quello dove le frontiere sono armate, assediate e studiate perché le
bambine come lei non arrivino mai a destinazione. Sette anni sono pochi,
soprattutto per chi possiede una media di età che si avvicina ai cinquanta. La
piccola è più vicina alla nostra media, appena quindici anni e tutta una vita
davanti. Ecco perché, in definitiva, cominciamo a pensare che la saggezza non
dipende dall’età, ma dal luogo di nascita. C’è chi a sette anni è molto più maturo di chi ha una media di età che
supera i quarantacinque anni. Pochi di voi, possiamo supporre, mai non hanno
mangiato e bevuto per alcuni giorni. Meno ancora coloro che hanno passato
illegalmente le frontiere. La saggezza della piccola non è bastata a salvarla.
Vorremmo dunque dare a lei, la piccola guatemalteca di sette anni, la medaglia
di sabbia a cui tenevamo tanto. Come un fiore tra i capelli.
Niamey, dicembre 2018
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giovedì 20 dicembre 2018
il turismo procreativo - Massimo Crivelli
Certo che noi
sardi a volte siamo un po' bizzarri. Siamo capaci di prendere cappello per una
battuta infelice (il "sorcio nero" di Panatta a un giocatore
rossoblù, il "Ti mando a Ovodda!" di Amendola in uno sceneggiato
televisivo) - delle inezie, insomma - e invece non battiamo ciglio di fronte ad
autentiche nefandezze che riguardano questioni serie e che, occorre aggiungere,
spesso sono dei veri e propri autogol che confezioniamo senza il concorso dei
tanto vituperati "continentali".
Credo che
i trasporti e la sanità siano purtroppo forieri di esempi lampanti. Dalla
continuità territoriale vecchia e nuova sino alla sciagurata riforma della
sanità potremmo pescare a piene mani argomenti per alzare la voce, reclamare un
drastico cambio di rotta da parte dei nostri governanti regionali. Invece tutto
passa senza grandi scossoni. E a errore si aggiunge un altro errore, fino a che
- improvvisamente- ci svegliamo e ci chiediamo: come è stato possibile arrivare
a tanto?
Per
limitarci alla sanità, l'ultima perla è un emendamento alla Finanziaria di
sette consiglieri regionali (e già approvato) che, nella sostanza, smonta
quella che senza tema di smentita possiamo definire una delle nostre
eccellenze. Sto parlando della struttura complessa di ginecologia e diagnosi
genetica prenatale del Microcitemico di Cagliari. Un reparto sorto nel 1982
grazie alle competenze di un luminare come il professor Antonio Cao e alla
sensibilità di un fine politico come Emanuele Sanna.
Negli
anni questa struttura pubblica ha acquisito una lusinghiera fama nazionale e
internazionale, consentendo a tantissime donne sarde di effettuare indagini
prenatali o di accedere alle tecniche di procreazione assistita, sia omologa
che eterologa. Bene, l'emendamento in questione ha ottenuto lo stanziamento di
una cospicua somma per "garantire" alle coppie residenti in Sardegna
l'accesso a queste tecniche medicalmente assistite presso "strutture
pubbliche o private accreditate in ambito nazionale ed estero". Cioè, anziché
potenziare e accreditare una struttura pubblica sarda che funziona
egregiamente, si è preferito dirottare risorse fuori dall'Isola, prevedendo tra
l'altro un contributo che di certo non basterà a coprire gli ingenti costi di
una procreazione eterologa in una struttura privata.
Vado
oltre i problemi di privacy (qual è la coppia che dichiarerà a cuor leggero di
voler accedere alla procreazione eterologa?) e di certificazione (chi vidimerà
la pratica, un consigliere regionale?), e arrivo alle amare conclusioni. A
furia di affidarci a politici che assomigliano ad apprendisti stregoni stiamo
snaturando i criteri della sanità, perché i due sistemi, pubblico e privato,
vanno contemperati in maniera intelligente e non avventata. E così si torna ai
tempi dei viaggi della speranza, con la variante del turismo procreativo.
mercoledì 19 dicembre 2018
Sofferenza ecologica - Pietrina Chessa
La questione dei diritti animali contiene implicazioni sociali, sanitarie,
finanziarie e, non ultime, etiche. Tempo fa, il settimanale “Panorama” ha
pubblicato una classifica che attribuiva un voto ai canili da 1 a 5 stelle,
sulla base delle condizioni in cui vengono tenuti i cani. Sono stati
censiti anche alcuni canili sardi, uno dei quali, a Sassari, è stato definito
addirittura la “favelas” dei cani.
A queste notizie se ne sono aggiunte, tempo fa, altre più allarmanti, provocate da una denuncia della Presidente del movimento U.N.A. (Uomo Natura Animali) Leila delle Case, nella quale ha informato sia la Procura della Repubblica, sia l’Assessore Regionale On. Dirindin, sul presunto invio di cani che dalla Sardegna verrebbero trasferiti in Germania, accompagnati da volontari, presso famiglie adottanti. Ci si è chiesti : ma non ci sono cani a sufficienza in Germania, per quelle famiglie i disponibili all’adozione, o, il “cagnetto sardo” sta diventando più ambito e richiesto del “porcetto sardo “? La Sardegna potrebbe diventare famosa per la produzione di randagi da export, mentre importa suinetti, agnelli e cavalli ? Ma tant’è, l’Europa …e la direttiva Bolkenstein forse spingono in questa direzione!
La stampa riporta inoltre che , vi sono Amministrazioni Comunali, che propongono un’alimentazione nelle mense scolastiche fatta esclusivamente di prodotti sardi.
Noi valutiamo positivamente quest’orientamento, legato alla esigenza della tracciabilità, tuttavia, riteniamo opportuno, affiancare alle possibilità di scelta, anche un menu di tipo vegetariano. I cittadini orientano i propri consumi verso alimenti la cui produzione non sia causa di sofferenza animale. Sono numerosi i genitori che si fidano dei nutrizionisti, che sfatano la convinzione secondo la quale la dieta carnea sia la più adatta soprattutto per i bambini e gli adolescenti. Possiamo , a tal proposito citare Benjamin Spock, pediatra di reputazione mondiale. Nella settima edizione del suo “Baby and Child Care”, 1998, (rivista ed ampliata) sostiene : “Per i bambini una dieta a base di vegetali è generalmente più salutare di una dieta che contenga colesterolo, grassi animali ed eccessive proteine che si trovano nella carne e nei latticini. Tuttavia, una dieta vegetariana non deve essere povera di calorie. Le calorie debbono provenire da un’ampia varietà di vegetali a foglia verde, frutta, cereali integrali, fagioli e altri legumi “. Alle considerazioni di tipo salutistico, vanno aggiunte quelle di tipo sociale: Indagini di etnografi, antropologi, storici ed anche biologi mostrano come il consumo di carne abbia poco a che fare con le esigenze alimentari ma, sia, piuttosto, un fatto di abitudini e di costume. Anche lo stile di vita alimentare determina il consumo di gran parte delle risorse del pianeta. Infatti, una dieta carnea prevede questo perverso meccanismo : si adibisce un terreno a pascolo o a coltivazioni di vegetali per nutrire animali da carne o da latte. Ma per ogni chilo di carne ottenuto, ogni animale di media avrà consumato almeno sei chili di vegetali, cereali soprattutto.
Alle considerazioni salutistiche e sociali, si aggiungono quelle etiche: essere vegetariani è un passo necessario per agire, in prima persona, a favore di una vita migliore per la terra e per tutti i suoi abitanti, e per ridurre il fenomeno della fame nel mondo. I dati ribaditi dalla FAO ultimamente sono ormai noti a tutti: 850 milioni di persone al mondo soffrono la fame! Cosi come, termini tipo “ impronta ecologica” sono ormai di comune conoscenza.
Nel numero del 13 settembre la rivista scientifica internazionale “The Lancet”, nell’articolo “Cibo,
allevamenti, energia, cambiamenti climatici e salute” mostra quanto questi aspetti siano correlati
tra loro e quanto sia urgente una diminuzione drastica del consumo di carne per evitare il disastro
ambientale. Nel mondo, le attività agricole, soprattutto l’allevamento del bestiame, sono responsabili per circa un quinto del totale delle emissioni di gas serra, che contribuiscono al cambiamento climatico. L’attuale media dei consumi di carne è di 100 grammi al giorno per persona, ma con molte differenze (anche di 10 volte) tra le varie regioni del mondo.
L’unica soluzione è quella di ridurre il consumo di prodotti animali nei paesi più
ricchi, e fissare una soglia da non superare per i paesi in via di sviluppo, in modo che tutti i
paesi convergano verso lo stesso livello di consumo, molto più basso di quello attuale dei paesi
ricchi: non più di 90 grammi di carne al giorno pro-capite.
A queste notizie se ne sono aggiunte, tempo fa, altre più allarmanti, provocate da una denuncia della Presidente del movimento U.N.A. (Uomo Natura Animali) Leila delle Case, nella quale ha informato sia la Procura della Repubblica, sia l’Assessore Regionale On. Dirindin, sul presunto invio di cani che dalla Sardegna verrebbero trasferiti in Germania, accompagnati da volontari, presso famiglie adottanti. Ci si è chiesti : ma non ci sono cani a sufficienza in Germania, per quelle famiglie i disponibili all’adozione, o, il “cagnetto sardo” sta diventando più ambito e richiesto del “porcetto sardo “? La Sardegna potrebbe diventare famosa per la produzione di randagi da export, mentre importa suinetti, agnelli e cavalli ? Ma tant’è, l’Europa …e la direttiva Bolkenstein forse spingono in questa direzione!
La stampa riporta inoltre che , vi sono Amministrazioni Comunali, che propongono un’alimentazione nelle mense scolastiche fatta esclusivamente di prodotti sardi.
Noi valutiamo positivamente quest’orientamento, legato alla esigenza della tracciabilità, tuttavia, riteniamo opportuno, affiancare alle possibilità di scelta, anche un menu di tipo vegetariano. I cittadini orientano i propri consumi verso alimenti la cui produzione non sia causa di sofferenza animale. Sono numerosi i genitori che si fidano dei nutrizionisti, che sfatano la convinzione secondo la quale la dieta carnea sia la più adatta soprattutto per i bambini e gli adolescenti. Possiamo , a tal proposito citare Benjamin Spock, pediatra di reputazione mondiale. Nella settima edizione del suo “Baby and Child Care”, 1998, (rivista ed ampliata) sostiene : “Per i bambini una dieta a base di vegetali è generalmente più salutare di una dieta che contenga colesterolo, grassi animali ed eccessive proteine che si trovano nella carne e nei latticini. Tuttavia, una dieta vegetariana non deve essere povera di calorie. Le calorie debbono provenire da un’ampia varietà di vegetali a foglia verde, frutta, cereali integrali, fagioli e altri legumi “. Alle considerazioni di tipo salutistico, vanno aggiunte quelle di tipo sociale: Indagini di etnografi, antropologi, storici ed anche biologi mostrano come il consumo di carne abbia poco a che fare con le esigenze alimentari ma, sia, piuttosto, un fatto di abitudini e di costume. Anche lo stile di vita alimentare determina il consumo di gran parte delle risorse del pianeta. Infatti, una dieta carnea prevede questo perverso meccanismo : si adibisce un terreno a pascolo o a coltivazioni di vegetali per nutrire animali da carne o da latte. Ma per ogni chilo di carne ottenuto, ogni animale di media avrà consumato almeno sei chili di vegetali, cereali soprattutto.
Alle considerazioni salutistiche e sociali, si aggiungono quelle etiche: essere vegetariani è un passo necessario per agire, in prima persona, a favore di una vita migliore per la terra e per tutti i suoi abitanti, e per ridurre il fenomeno della fame nel mondo. I dati ribaditi dalla FAO ultimamente sono ormai noti a tutti: 850 milioni di persone al mondo soffrono la fame! Cosi come, termini tipo “ impronta ecologica” sono ormai di comune conoscenza.
Nel numero del 13 settembre la rivista scientifica internazionale “The Lancet”, nell’articolo “Cibo,
allevamenti, energia, cambiamenti climatici e salute” mostra quanto questi aspetti siano correlati
tra loro e quanto sia urgente una diminuzione drastica del consumo di carne per evitare il disastro
ambientale. Nel mondo, le attività agricole, soprattutto l’allevamento del bestiame, sono responsabili per circa un quinto del totale delle emissioni di gas serra, che contribuiscono al cambiamento climatico. L’attuale media dei consumi di carne è di 100 grammi al giorno per persona, ma con molte differenze (anche di 10 volte) tra le varie regioni del mondo.
L’unica soluzione è quella di ridurre il consumo di prodotti animali nei paesi più
ricchi, e fissare una soglia da non superare per i paesi in via di sviluppo, in modo che tutti i
paesi convergano verso lo stesso livello di consumo, molto più basso di quello attuale dei paesi
ricchi: non più di 90 grammi di carne al giorno pro-capite.
“The Lancet “ pubblica inoltre una tabella sui consumi giornalieri di carne
pro-capite in grammi
Africa – 31
Asia meridionale e orientale – 112
Asia occidentale (compreso il medio oriente) – 54
America Latina – 147
Paesi in via di sviluppo (media) – 47
Paesi sviluppati (media) – 224
Totale – 101
Africa – 31
Asia meridionale e orientale – 112
Asia occidentale (compreso il medio oriente) – 54
America Latina – 147
Paesi in via di sviluppo (media) – 47
Paesi sviluppati (media) – 224
Totale – 101
Per arrivare a 90 grammi, nei paesi industrializzati come l’Italia, occorre
dunque più che dimezzare
il consumo di carne, arrivare a un consumo che sia del 40% rispetto all’attuale.
Maggiore sarà la contrazione dei consumi di alimenti animali, maggiore sarà il benessere che si può raggiungere da ogni punto di vista: impatto sull’ambiente, consumo di risorse ed energia, salute, benessere degli animali.
I cittadini più responsabili non si accontentano più di chiedere i cambiamenti necessari alla politica , che sembra molto preoccupata per lo stato del pianeta dal punto di vista ambientale e meno per quello animale, separandolo, come se questo fosse un aspetto a sé stante. Capita che tanti si commuovano occasionalmente per l’orso ucciso dal boccone avvelenato o per la tartaruga o il delfino che si disorientano in mare, a causa dell’inquinamento, ma meno del vitello costretto ad una vita infame per mantenere le sue carni innaturalmente bianche.
Sul consumo di carne, così come sui diritti degli animali – problematiche connesse l’una con l’altra, esiste un’ampia letteratura, in parte frutto di ricerca scientifica. Ha fatto scuola ed è uscito dalla cerchia dei catastrofisti dove era stato confinato Jeremy Rifkin, il quale in Ecocidio (Mondadori, Milano, 2001), esamina e mette a confronto aspetti economici, medici, ecologici ed etici e offre un’ampia rassegna degli studi e della produzione letteraria in merito.
In qualità di presidente ( di sinistra ) di un’associazioni animalista, mi preme sensibilizzare i cittadini, facendoli riflettere sul fatto che la questione dei diritti degli animali è un cosa “di sinistra”, perché : riguarda esseri indifesi, che non hanno voce, cosi come è stato storicamente per tutte le classi subalterne che si sono dovute emancipare, per acquisire pari diritti e dignità, gli schiavi, le donne, le persone di diverso colore, gli omosessuali , i bambini. E cosi dovrà essere per gli animali che, se avessero una vita dignitosa, contribuirebbero a rendere il mondo migliore. Rispettare il loro ciclo di vita naturale è la cartina tornasole dello stato di benessere del pianeta. Le loro condizioni di vita devono essere compatibili con la loro natura, ma ciò non avviene quando vivono stipati in allevamenti intensivi, ingrassati con l’ausilio di farmaci per aumentare il loro peso prima del tempo, perchè l’imperativo è : venderli al più presto. Le loro deiezioni , avvelenano il suolo e l’aria e contribuiscono all’aumento dei costi energetici. Inoltre, altro aspetto importante per il “cittadino consumatore”, la carne di questi animali è gonfia di antibiotici. Chi consuma carne di cavallo, ignora che gli equini provengono dai paesi dell’Est, dove vivono allo stato brado e brucano l’erba di campi contaminati da veleni depositati al suolo, perche’ in quei Paesi , non esistono normative ambientali adeguate agli standard europei. Per non parlare delle sostanze nocive depositate anche a seguito dei conflitti di qualche anno fa. Quei cavalli importati ed avviati alla macellazione, dopo viaggi di sofferenza, nonostante siano previste per legge le soste , guadagnano le prime pagine dei giornali se si rovescia il tir in autostrada o se qualche personaggio famoso ne parla. Il comune cittadino deride gli animalisti perché si preoccupano eccessivamente degli animali, e non si rende conto che gli animalisti, difendendo gli animali, difendono anche la sua salute., Anche la produzione di carne, aggiungendosi all’effetto “dumping” degli altri settori alimentari, aumenta l’impoverimento di masse diseredate e contribuisce ad aumentare la fame nel mondo.
il consumo di carne, arrivare a un consumo che sia del 40% rispetto all’attuale.
Maggiore sarà la contrazione dei consumi di alimenti animali, maggiore sarà il benessere che si può raggiungere da ogni punto di vista: impatto sull’ambiente, consumo di risorse ed energia, salute, benessere degli animali.
I cittadini più responsabili non si accontentano più di chiedere i cambiamenti necessari alla politica , che sembra molto preoccupata per lo stato del pianeta dal punto di vista ambientale e meno per quello animale, separandolo, come se questo fosse un aspetto a sé stante. Capita che tanti si commuovano occasionalmente per l’orso ucciso dal boccone avvelenato o per la tartaruga o il delfino che si disorientano in mare, a causa dell’inquinamento, ma meno del vitello costretto ad una vita infame per mantenere le sue carni innaturalmente bianche.
Sul consumo di carne, così come sui diritti degli animali – problematiche connesse l’una con l’altra, esiste un’ampia letteratura, in parte frutto di ricerca scientifica. Ha fatto scuola ed è uscito dalla cerchia dei catastrofisti dove era stato confinato Jeremy Rifkin, il quale in Ecocidio (Mondadori, Milano, 2001), esamina e mette a confronto aspetti economici, medici, ecologici ed etici e offre un’ampia rassegna degli studi e della produzione letteraria in merito.
In qualità di presidente ( di sinistra ) di un’associazioni animalista, mi preme sensibilizzare i cittadini, facendoli riflettere sul fatto che la questione dei diritti degli animali è un cosa “di sinistra”, perché : riguarda esseri indifesi, che non hanno voce, cosi come è stato storicamente per tutte le classi subalterne che si sono dovute emancipare, per acquisire pari diritti e dignità, gli schiavi, le donne, le persone di diverso colore, gli omosessuali , i bambini. E cosi dovrà essere per gli animali che, se avessero una vita dignitosa, contribuirebbero a rendere il mondo migliore. Rispettare il loro ciclo di vita naturale è la cartina tornasole dello stato di benessere del pianeta. Le loro condizioni di vita devono essere compatibili con la loro natura, ma ciò non avviene quando vivono stipati in allevamenti intensivi, ingrassati con l’ausilio di farmaci per aumentare il loro peso prima del tempo, perchè l’imperativo è : venderli al più presto. Le loro deiezioni , avvelenano il suolo e l’aria e contribuiscono all’aumento dei costi energetici. Inoltre, altro aspetto importante per il “cittadino consumatore”, la carne di questi animali è gonfia di antibiotici. Chi consuma carne di cavallo, ignora che gli equini provengono dai paesi dell’Est, dove vivono allo stato brado e brucano l’erba di campi contaminati da veleni depositati al suolo, perche’ in quei Paesi , non esistono normative ambientali adeguate agli standard europei. Per non parlare delle sostanze nocive depositate anche a seguito dei conflitti di qualche anno fa. Quei cavalli importati ed avviati alla macellazione, dopo viaggi di sofferenza, nonostante siano previste per legge le soste , guadagnano le prime pagine dei giornali se si rovescia il tir in autostrada o se qualche personaggio famoso ne parla. Il comune cittadino deride gli animalisti perché si preoccupano eccessivamente degli animali, e non si rende conto che gli animalisti, difendendo gli animali, difendono anche la sua salute., Anche la produzione di carne, aggiungendosi all’effetto “dumping” degli altri settori alimentari, aumenta l’impoverimento di masse diseredate e contribuisce ad aumentare la fame nel mondo.
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