giovedì 27 dicembre 2018

Contro il dominio dell’automatico - Amador Fernández-Savater



Trascorriamo la giornata guardando, ma siamo capaci di vedere qualcosa? Qual è il rapporto tra vedere e pensare? E in che senso la percezione è un problema politico? Il dominio degli stereotipi ci rende ciechi e ottusi.
Lo scrittore Albert Camus ha detto: “Pensare è apprendere di nuovo a vedere e a prestare attenzione”. È una frase sorprendente  perché il pensiero non si vincola al sapere, al conoscere, all’analisi o alla verità, ma alla trasformazione della percezione e dell’attenzione.
Apprendere: andare oltre il conosciuto. Di nuovo a vedere: ricreare il nostro sguardo su qualcosa, vederlo in modo diverso. E a prestare attenzione: prendere in considerazione una altro piano della realtà, un altro tipo di segnali.
Affronterò questa immagine del pensiero, come ricostruzione dello sguardo e dell’attenzione, con due esempi che ho a portata di mano. E incoraggio tutti a immaginare i propri.

Rinominare la realtà
Il primo è un articolo breve  che di recente mi ha inviato la mia amica Amarela Varela, perché sia pubblicato su eldiario.es. Amarela è una professoressa di Città del Messico e da molto tempo è impegnata – con la parola e con il corpo – nei movimenti e nelle lotte dei migranti. L’articolo parla della carovana di migranti, in maggioranza honduregni, che in questi giorni attraversa il Messico verso gli Stati Uniti, monopolizzando la visibilità mediatica globale (l’articolo di Amador è stato scritto a metà novembre, ndt).
Amarela spiega che la massiccia migrazione centroamericana non è una novità in Messico. La novità è come ora si è organizzata: dopo una lunga storia di arresti, deportazioni e massacri, i migranti si sono messi a camminare assieme, autonomamente, senza i coyotes di mezzo, con una voce pubblica e propria, accompagnati da organizzazioni per i diritti umani e da mass media.
L’articolo è un invito a vedere la politicità di questo gesto di autonomiaA smettere di guardare ai migranti solo come vittime della fatalità o come persone manipolate da qualche complotto dei potenti. A prestare attenzione e ad ascoltare la loro voce, quello che loro stessi dicono della loro situazione e della loro esperienza.
In questa nuova politicità, non troveremo sicuramente alcuni degli elementi classici (programma o slogan anticapitalistici, ecc.), ma una disobbedienza praticata con il corpo al regime delle frontiere e un interpellare positivo alla solidarietà del popolo messicano, che sta rispondendo con gesti di ospitalità radicale molto incoraggianti.
L’articolo di Amarela conclude dicendo: “Non è una carovana di migranti, ma un esodo di sfollati, però soprattutto è un nuovo movimento sociale che cammina per una vita vivibile”.
Qual è la forza di questo articolo? A mio giudizio, consiste nella sua capacità di rinominare la realtà. Rinominando la realtà, vediamo qualcosa di diverso e la nostra attenzione si attiva. Penso che quel gesto di spostamento spieghi l’impatto che il testo ha avuto su tanti lettori.
Ne posso parlare in prima persona: seguivo quanto accadeva con la carovana di migranti attraverso le immagini della televisione, ma niente di quanto veniva detto o mostrato ha rotto, in alcun momento, la barriera degli stereotipi che anestetizzava la mia percezione: “Ahi, povera gente”. Guardavo, però non vedevonulla. Niente di particolare, niente che mi colpisse.
Ma all’improvviso c’è qualcosa da vedere. All’improvviso si apre qualcosa da vedere.
Vista così, come ci propone Amarela, possiamo percepire altre cose nella carovana. Non si tratta solo di vittime spinte dalla disgrazia o manipolate dai politici, ma c’è anche capacità politica, intelligenza, autonomia. E possiamo ascoltare anche un appello: a inventare gesti di solidarietà, ma non più con la disgrazia che ha toccato gli altri, ma con una lotta che ci riguarda.
Un’immagine allontana e raffredda: “Sono le disgrazie altrui”, “Non bisogna fidarsi degli altri perché sono manipolati”. Mentre l’altra avvicina e invita: “Qui c’è una potenza, c’è qualcosa che non conosci”, “Presta attenzione e torna a guardare”.
Qualcosa che altrimenti non è chiaro. Perché l’articolo non cambia un’etichetta con un’altra, affermando per esempio: “Non sono vittime, ma un altro movimento sociale”. Questo “nuovo movimento sociale” che è la carovana, non è ovvio, non è evidente, non è un classico movimento sociale. Il testo ci propone di avvicinarci per vedere e pensare qualcosa che ancora non è stato visto e pensato.
Chiameremo “immagine feconda”, quest’immagine che ci dà qualcosa da vedere. L’immagine che ci commuove e ci colpisce. L’immagine che ricrea il nostro sguardo e che ci dà da pensare. L’immagine aperta e incompiuta che richiede da noi un movimento.

Non c’è niente da vedere: gli stereotipi
Queste immagini possono provenire dai luoghi più diversi, dal cinema o dal saggio, dalla fotografia o dalla poesia, dal teatro o dalla letteratura, si possono fabbricare con materiali molto differenti (parola, colore, gesto, movimento), ecc.
Il problema, pertanto, non è che viviamo in mezzo a un’inflazione di immagini, ma a un’inflazione di immagini sature e saturanti: gli stereotipi.
Lo stereotipo è un senso impacchettato. Che dice, cosa fa? “Qui non c’è niente da vedere”. Vale a dire: non c’è nulla che non avessimo già vistoIl mondo è già-visto, già-sentito, già-pensato.
Lo stereotipo è una risposta automaticaIl risultato dell’applicazione di un codice sulla realtà: mediatico, politico, ideologico, ecc. In questo modo non vediamo o pensiamo più, ma semplicemente riconosciamo. Non vediamo o pensiamo, ma solo ricordiamo ciò che sta nel codice.
I codici non sempre sono consci, ma funzionano attraverso di noi: siamo visti, pensati e agiti da loro. Balzano fuori automaticamente lì dove non c’è un lavoro di elaborazione propria. Durante la maggior parte del tempo, noi siamo ripetitori di stereotipi. Ci riteniamo unici, ma siamo fatti in serie.
Cos’è che vediamo se presupponiamo la realtà a partire da un codice?Solamente illustrazioni del nostro racconto precedente, metafore della nostra spiegazione del mondo, riflessi servili del codice applicato. Ogni volta lo stesso:mai oggetti o avvenimenti unici, sempre casi di una serie. Un’altra disgrazia ancora, un’altra manipolazione ancora, un altro movimento sociale ancora….
Dal codice, lo sguardo vede sempre ciò che vuole vedereLa realtà si appiattisce, si semplifica, si riduce: scartiamo come rumore tutto ciò che non rientra nel codice, che è proprio tutto ciò che potrebbe darci da pensare. Le ombre, le contraddizioni, le impurità, la confusione del reale.
Secondo il filosofo, la dignità di qualsiasi cosa – da un essere vivente fino a un evento – consiste nell’essere trattata come un fine e non come un mezzo. Lo sguardo codificato è tuttavia uno sguardo che strumentalizza: non vede nient’altro che pezzi e mezzi dei fini. Niente ha valore o potenza in sé, la potenza di dare origine a nuovi sguardi, idee o azioni.
Ci indigniamo quando vediamo come i codici altrui trattano la dignità delle cose che conosciamo e che amiamo. Perché le forzano fino a farle rientrare nelle forme precedenti e le violano fino a far loro dire quello che si vuole che dicano. Molto di rado, però, riesaminiamo in modo critico i codici stessi.
Lo stereotipo anestetizza la nostra percezione, ma non in modo freddo e spassionato. Al contrario: quasi nulla ci produce più godimento e ardore che il ripetere gli stereotipi. Li replichiamo come se stessimo affermando quanto di più intimo, più profondo e più autentico del nostro essere. Ci emozionano, ci infiammano, ci portano fino alle lacrime. C’è una vera passione per la ripetizione, la conferma, la mimesi, l’adesione. È il godimento del riconoscimento e dell’identità.
Infine, lo stereotipo cerca il potere: riprodursi, diffondersi, convincere, vincere, occupare l’intero spazio di attenzione. È un potere di saturazione, di assimilazione, di normalizzazione. Vuole di più di sé stesso, eliminare tutto il resto. Che non rimanga nulla da vedere, che non rimanga nulla da pensare.

Pensare a partire dai dettagli
Un secondo esempio, questa volta una storia personale. Pochi giorni dopo che il 15M era emerso nelle piazze di tutta la Spagna, ho sentito il desiderio di scrivere su quanto stavamo vivendo. Di solito, si scrive per condividere ciò che si è capito, ma in questo caso si trattava di scrivere per capire, scrivere proprio perché non capisci.
E come scrivere su quello che non capisci? Al riguardo, nelle conversazioni con gli amici alla Puerta del Sol, uno di loro mi cita una frase dello storico greco Erodoto sul suo metodo: “Annoto tutto ciò che non capisco”. Comincio allora a registrare dettagli della piazza che richiamano la mia attenzione e che mi danno da pensare: micropercezioni,  sensazioni, domande, appunti di conversazioni, una certa scena, un certo slogan, un certo dipinto, balbettii di interpretazione o riflessione alla luce di quanto succede, un certo intervento in assemblea, un grido, una vibrazione, un tono affettivo…
Compongo così un “quaderno di dettagli”, che pubblico a puntate (fino a nove) nel mio blog del giornale Público con il nome di “Apuntes de acampadasol”.
Vedere è la cosa più difficile, perché prima bisogna fermare il mondo. Quello che dice lo stregone Don Juan al suo apprendista Carlos Castaneda in quella serie di mitici libri degli anni 60-70 . Cosa significa fermare il mondo? Fermare la descrizione che gli dà forma giorno dopo giorno, la descrizione che condividiamo e che costruisce una percezione del mondo consensuale e normalizzata. Fermare gli automatismi.
Nel mio caso, fermare il mondo ha significato anche fermare le teorie filosofico-politiche tra le quali vivo – per vocazione e professione – e che sono state subito dispiegate per spiegare quello che succedeva. Perché qualsiasi cosa può trasformarsi in codice e non lasciarci vedere, anche una teoria molto sofisticata che è nata per rendere conto della complessità socialeApplicarla sulla realtà può essere un modo come un altro di presupporreciò che succede con schemi precedenti e non ascoltare. Quindi, invece di vedere la piazza 15M o quel che si vuole, vediamo il codice di Jacques Rancière, di Toni Negri o di Ernesto Laclau. E la materialità delle cose vive si dissolve in astrazioni spettrali.
Mettere un po’ tra parentesi le teorie e pensare a partire dai dettagli:questo è stato il mio modo particolare di fermare il mondo al fine di vedere. Un modo di entrare in contatto, lasciarsi toccare e colpire da quanto accadeva.
Mentre applicare un codice qualsiasi è un modo di dematerializzare la realtà, il dettaglio è al contrario un colpo di colore, di voce, di affetto o di intensità. E dico colpo perché non lo scegliamo esattamente noi: è il dettaglio che richiama la nostra attenzione, non la nostra attenzione che scopre il dettaglio. Ci richiede un’attenzione che non è di caccia e cattura, quanto piuttosto di attenzione galleggiante.
Il dettaglio non lo possiamo riconoscere o ricordare. Non è illustrazione, una metafora o il riflesso di un codice precedente. È quello che c’è da vedere e da pensare. Non è la conclusione di qualcosa, bensì un’apertura, un inizio del viaggio. Non ha già un senso: è ciò che apre la via alla creazione di senso.
Il dettaglio è sempre unico: non è mai il caso di una serie, ma sempre tale, così, questo, questa, qui, adesso.
E una singolarità alquanto opaca o misteriosa. È ciò che non torna, ci fa domande, ci pone problemi, ci mette a disagio, ci induce a smuoverci. Per questo motivo, quelli che vogliono elevare la “chiarezza” e la “comunicabilità” a regola generale dell’espressione o della creazione, in realtà non vogliono vedere o pensare nulla: solo il già visto e pensato è chiaro e trasparente, “immediatamente comunicabile”.
Il dettaglio passa per il corpo, ma in maniera diversa dal godimento dello stereotipo. Non ci conferma di fronte alla realtà, ma ci pone in relazione con essa. Ci commuove: ci tira fuori dalle nostre caselle e ci apre all’altro. Ci incita, ci apre gli occhi, attiva la nostra curiosità, ci connette e ci coinvolge con il mondo. Non è il godimento della stabilità, ma il piacere di una certa destabilizzazione.
Infine, il dettaglio non vuole il potere: un dettaglio non si oppone agli altri e possono esserci tanti dettagli quanti sono i viaggi del pensiero. Il dettaglio non satura il visibile, ma lo apre. Non pretende di dire ciò che si deve pensare, ma dà da pensare.

Intensificare un sapore
Tutta una venerabile tradizione di pensiero diffida dei dettagli in modo radicale. Platone diceva: “Per pensare bisogna strapparsi gli occhi”. Ciò che è sensibile porta all’errore: vediamo una cosa, ma la verità è altrove. Bisogna sospettare di quanto accade e perseguire l’eterno, il fisso e l’immutabile. I dettagli sono solo apparenze o sintomi di ciò che è essenziale e vero. Si tratta di astrarli, vedere il mondo con l’occhio della mente.
Seguendo questa tradizione, nelle nostre accademie e università, oggi si obbligano gli studenti che fanno un lavoro a elaborare anzitutto un “quadro teorico”. In primo luogo, fabbricarsi delle lenti. Quindi, applicarle a questo o quell’oggetto di pensiero. In realtà, ciò che così si insegna è a diffidare di quello che si vede. Di quello che uno può vedere per conto suo, dei dettagli che lo colpiscono e che possono attivare il pensiero.
Due sono le conseguenze nefaste di questa procedura. In primo luogo, lo studente rimane, così, insicuro e fragile: il quadro teorico non sarà mai sufficientemente solido, mancheranno sempre riferimenti e letture. Nell’idea del sapere come accumulazione saremo sempre in deficit, in difetto. In secondo luogo, lo studente si trasforma in un ripetitore: vede solo quello che il quadro teorico (un autore o una serie di autori) lo lascia vedere. Non si permette di vedere da solo, di trasformarsi lui stesso in autore.
Pensare è fuggire da questa prigione. Autorizzarci a pensare a partire dai dettagli che ci colpiscono, come il solo modo di produrre qualcosa di diverso e di nostro.
Il dettaglio non è il piccolo, l’isolato, ciò che trova il suo senso in un’altra parte (la parte di un tutto), bensì quel che contiene in sé il mondo (il tutto sta nella parte). Possiamo distendere il dettaglio: tirarlo e tirarlo fino a dispiegare il mondo intero che contiene.
I riferimenti esistenti possono servire per intensificare i dettagli. Proviamo a pensare che il dettaglio sia un sapore. Quali condimenti intensificano quel sapore? Ci sono condimenti (e modi di combinarli) che cancellano il sapore, lo annullano. Ma altri lo possono prolungare e raffinare. Un certo autore o una certa teoria valgono se e solo se intensificano il sapore unico del dettaglio.
È una questione di cucina. Il buon condimento coglie e valorizza il sapore del dettaglio. E quello cattivo lo copre: non ci permette di apprezzare la materialità di una situazione, la particolarità di questo o quel dettaglio della realtà. Non ci fa assaporare il mondo da una prospettiva singolare, la prospettiva di qualcuno. Lo schema teorico sostituisce il dettaglio invece di intensificarlo. E allora tutti i dettagli hanno lo stesso sapore. Riconosciamo così un cattivo autore.

Credere nel mondo
Comprendere senza pensare, pensare senza ascoltare, ascoltare senza sentire: il dominio degli stereotipi è profondamente nichilista. Ci aliena dal mondo. Come mai? In che senso?
Nulla di ciò che c’è si prende in modo affermativo, per la sua potenza di dar luogo a, ma sempre in funzione del nostro codice, di quello che vogliamo vedere. Con lo stereotipo non succede mai nulla, torna sempre qualcosa.
L’importante non è mai qui e ora, davanti agli occhi, ma nelle linee del nostro codice. Il mondo e i suoi dettagli non ci importano più, non ci richiedono più: è la vittoria dell’indifferenza e della sfiducia verso quanto c’è, verso quanto accade.
Al contrario, l’immagine feconda fa succedere qualcosa, rilancia e condivide qualcosa che ci è successo. Ci permette così di tornare a “credere nel mondo”: ci sono cose da vedere, cose da pensare, cose da fare.L’immagine feconda ci apre alla ricchezza di quanto viene dato come ovvio, di quanto è catturato nello stereotipo. Quello che (ci) succede, importa. Il mondo è pieno di dettagli, quindi è pieno di punti di potenza. Possiamo averne fiducia.
La povertà o la nullità di una situazione si trova prima nel nostro sguardo stereotipato rispetto alla situazione stessa. Pensare (e dar da pensare) è imparare di nuovo a vedere e a porre attenzione. È, in definitiva, apprendere a essere presenti nel mondo, a essere vivi nella vita.


Riferimenti:
Questa è una versione delle note che ho letto di recente in due contesti di lavoro sull’immagine cinematografica: Zineleku (Vitoria)  e  Cine por Venir (Valencia).
I migliori riferimenti, come sempre, sono le conversazioni con tutti gli amici e maestri nell’arte del vedere: Marta Malo, Hugo Savino, Amarela Valera, Miriam Martín, Arantza Santesteban, Diego Sztulwark, Juan Gutiérrez, Jun Fujita, Lucía Gómez, José Miguel Fernández-Layos, Franco Ingrassia (al quale rubo l’espressione “immagine feconda”), Francisco Jodar (che mi ha fatto vedere la questione di “credere nel mondo” a partire da Gilles Deleuze).
Il sapore dei dettagli e gli stereotipi si è intensificato con i concetti di “segni” e “tensori” di Jean François Lyotard in  Economia libidinale.
L’immagine in alto è un dettaglio dell’opera  Esto es lo verdadero, di  Rafael Sánchez-Mateos Paniagua e Fernando Baena, anche loro maestri nel vedere, nel lasciar vedere.

Articolo pubblicato su eldiario.es con il titolo “Dar a ver, dar que pensar: contra el dominio de lo automático“.
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo

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