Dai cesti del mercato
fuoriescono frutti lucidi e colorati. Mazzetti di erbe fresche sono posizionati
su di una foglia di palma, una fattoria biologica sullo sfondo. Un tavolo
traboccante di piatti multicolori ha in primo piano un boccone di pane caldo
che si tuffa in una ciotola di tahin e olio d’oliva. Volti giovani e attraenti
sorridono alla telecamera, mentre cuccioli di animali saltellano sullo sfondo.
Se sei vegano, Israele sembra il paradiso. Almeno, questo è quello che Vibe Israel
e i suoi partner della Israel Brand Alliance vogliono che tu pensi. Il loro
tour Vibe Vegan per food blogger è solo un piccolo elemento della campagna di
veganwashing sponsorizzata dal governo israeliano che mira a sostituire le
notizie sulle sue ricorrenti violazioni dei diritti umani con la compassione e
l’amore per la pace solitamente associata al veganismo e quindi a
rivalutare la sua immagine sulla scena globale . Non lasciatevi
ingannare: Israele sta usando il veganismo come una calcolata facciata per
giustificare il suo programma militare di terrore,sorvolare sull’occupazione
della Palestina e appropriarsi di una cultura e di tradizioni regionali che
precedono Israele di centinaia se non migliaia di anni.
Lungi dall’essere uno
“stile di vita politicamente neutro”, il vero veganismo è una radicale
filosofia anti-oppressione, eppure uno dei governi più oppressivi al mondo sta
cooptando il veganismo per i propri fini.
Il veganismo è
essenzialmente una posizione politica, nonostante il fatto che molte persone
che si identificano come vegane lo vedano solo come un insieme di scelte di
consumo . La mia definizione preferita di veganismo è “un quadro ideologico che
cerca di abolire lo status di merce degli animali e che sostiene la liberazione
degli animali”. Indipendentemente dalle motivazioni individuali che portano
all’adozione del veganismo, la scelta è inestricabile dall’impegno di
cancellare i danni agli esseri viventi. Sareste quindi perdonati per aver
pensato che tutte le persone che dichiarano di essere vegane siano convinte
sostenitrici dei diritti umani. Dopotutto, una persona impegnata nella
liberazione animale è impegnata anche nella liberazione umana. Giusto?
Sbagliato.
In parole povere, il
veganwashing è l’atto di usare il veganismo per creare associazioni di
immagini positive o apparire più compassionevoli di quanto qualcuno non lo sia
realmente. Un esempio classico è la linea di gelati non caseari di Ben &
Jerry, che usano etichettare l’azienda come vegan-friendly senza mai ridurre il
loro contributo allo sfruttamento degli animali. Il Veganwashing fa appello a
un ethos di nonviolenza e quindi è una strategia particolarmente utile per
coloro che hanno un interesse acquisito nel nascondere gli atti di
violenza in corso, come, per esempio, un governo coloniale.
“Non è un segreto che
da decenni lo Stato di Israele sta sottoponendo la Palestina a una brutale
occupazione, impegnandosi in una serie ben documentata di omicidi e
distruzioni. Nel tentativo di nascondere queste violazioni dei diritti umani e
definirsi “l’unica democrazia in Medio Oriente”, Israele ha usato una serie di
tattiche per fare appello ai valori progressivi, passando dal greenwashing al
pinkwashing.
Il veganwashing di
Israele, tuttavia, è particolarmente insidioso. Questo perché il veganwashing
promuove l’idea che Israele, in quanto paese che sostiene di avere il 5% di
popolazione vegana, sia una società necessariamente meno violenta e più
compassionevole di altre. Israele è l’unico stato che ho visto investire così
tante risorse nel promuovere su scala globale l’immagine di Paese “vegan
friendly”. Gli israeliani chiamano orgogliosamente Tel Aviv la capitale vegana
del mondo.
La campagna israeliana
di veganwashing si compone di molti elementi, di cui parlerò più in dettaglio di
seguito. Non c’è niente di più scandaloso, tuttavia, dei suoi tentativi di
ritrarre le forze armate israeliane, chiamate forze di difesa israeliane o IDF,
come un’istituzione compassionevole”.
“L’esercito più vegano
del mondo”
Ahmad Safi, direttore
esecutivo di Palestinian Animal League, riesce ad evidenziare l’incredibile
ipocrisia dell’IDF sul veganismo nel suo pezzo “Sui guerrieri vegani dell’IDF :
una prospettiva vegana palestinese “. Nel descrivere uno speciale della BBC sui
“guerrieri vegani” dell’IDF, Safi afferma: “Sono rimasto
sconcertato da un particolare passaggio del servizio, tratto da un’intervista
radiofonica che diceva, riferendosi a una soldatessa vegana : “La sua dieta è
per lei così importante che se l’esercito non fosse stato in grado di fornirle
prodotti che non avevano danneggiato nessuna creatura vivente, si
sarebbe rifiutata di arruolarsi in un’unità di combattimento” “L’unico modo in
cui posso interpretare questo passaggio, è che la soldatessa in questione
non considera i palestinesi come ” creature viventi “. L’IDF non disumanizza
solo i palestinesi, fa un passo ulteriore per oggettivarli e posizionarli al di
fuori della sfera degli esseri viventi, animali umani e animali non umani, che
meritano considerazione morale. Un simile atto è terribile, ma non dovrebbe
sorprendere che provenga da un’istituzione il cui capo di stato maggiore è un
“filosofo vegano” noto soprattutto per aver personalmente distrutto le case dei
campi profughi con un martello.
Safi prosegue ,
arrivando al cuore del problema di un esercito che si definisce
compassionevole, morale o, nel caso dell’IDF, “l’esercito più vegano del
mondo”. L’esercito israeliano non fa solo del male e uccide i palestinesi in
modi specifici e mirati, l’idea di un “esercito vegano” è di per sé assurda e
smentisce un fondamentale fraintendimento (o errata e intenzionale
caratterizzazione) di cosa significhi veganismo. Cercate di ricordate la
definizione di veganismo data all’inizio dell’articolo e tenetela
a mente mentre leggete le parole di Safi: “Se il veganismo riguarda
davvero il non danneggiare un altro essere vivente al meglio delle nostre
capacità, e concordiamo sul fatto che le persone sono animali, è logico che un
soldato “vegano” impegnato in combattimenti armati contro una popolazione
civile non sia solo privo di senso, ma semplicemente non può essere definito
vegano “. Il governo e le forze armate israeliane o non capiscono la filosofia
alla base del veganismo o hanno interiorizzato così tanto il loro
veganwashing che non riescono a riconoscere la perversione dietro
l’affermazione che, poiché i loro stivali non sono fatti di pelle, in qualche
modo non stanno causando danni quando con quegli stivali prendono qualcuno a
calci in faccia.
La colpa non è
esclusivamente dell’IDF; anche le principali organizzazioni del movimento
vegano al di fuori di Israele hanno abboccato. PETA ha espresso
l’incredibile auspicio che forze militari di altri Paesi cerchino di essere
maggiormente simili all’IDF, e l’importante sito web vegano VegNews ha
recentemente pubblicato un articolo che elogia un membro della Knesset per aver
richiesto che il suo scranno in pelle venga sostituito con materiale vegano
in quanto la pelle simboleggia un’inutile sofferenza. Il pezzo cita anche
il Primo Ministro israeliano e criminale di guerra Benjamin Netanyahu il quale
proclama che i diritti degli animali sono un problema “che è diventato
gradualmente più vicino al mio cuore”. Se solo i politici israeliani si
preoccupassero così tanto delle inutili sofferenze dei loro vicini palestinesi!
Rendere fantastica
l’occupazione
Man mano che il
veganismo è diventato sempre più mainstream, la percezione generale dello stile
di vita vegano si è drasticamente allontanata dai trancianti stereotipi che
erano soliti dominare il veganismo nell’immaginario popolare. Ora, il veganismo
è fantastico. Lo stanno sposando tutti, da Ariana Grande a Zac Efron, e
gli influencer dei social media con un vasto seguito fanno sembrare l’essere
vegan sfolgorante e chic come qualsiasi altra tendenza di Instagram.
YouTube in particolare è la piattaforma preferita degli influencer vegani. In
effetti, una delle blogger più seguite quando nel 2016 diventai vegana,
era una donna israeliana che postava video su “cosa mangio oggi”
nei numerosi ristoranti vegani di Tel Aviv.
Restando al passo con
i tempi, la campagna di veganwashing di Israele si è fortemente concentrata
verso i millennial che navigano sulle pagine e sui siti di questi
influencer. L’organizzazione no profit Vibe Israel ha invitato eminenti blogger
e YouTuber vegani a ciò che equivaleva a una vacanza di veganwashing,
interamente pagata, per conoscere la cultura vegana israeliana. La missione
dichiarata di Vibe Israel è quella di migliorare la reputazione globale di
Israele, e sulla home page del suo sito Web l’organizzazione afferma in
modo chiaro che sta “sfruttando il potere dei social media e delle
strategie di branding del Paese” per convincere il mondo che Israele è un luogo
alla moda e di successo. Birthright Israel, un programma governativo che offre
viaggi gratuiti in Israele per ebrei dai 18 ai 26 anni provenienti da tutto il
mondo, (ignorando completamente il fatto che la maggior parte dei palestinesi
non può tornare a casa), ora ha un’opzione vegana per adolescenti e ventenni
che vogliono “un’ esperienza senza crudeltà ”nei Territori Occupati.
Guardando il video del
tour di Vibe Vegan, non si ha la minima idea che a pochi chilometri dagli
scatti gioiosi delle lezioni di cucina e dei prodotti freschi si possano verificare
brutali violazioni dei diritti umani. E questo è, ovviamente, il punto. Alcuni
degli influencer dei social media che hanno partecipato al viaggio hanno
ricevuto critiche nella loro sezione commenti per aver promosso il Brand
vegano israeliano, ma non è stato sufficiente per indurli a uscire dalla bolla
del Brand Israel. Palestinian Animal League ha anche invitato uno dei You
Tuber coinvolti, The Buddhist Chef, a visitare i Territori Palestinesi durante
il viaggio, ma questi ha rifiutato a causa di un “programma serrato”. Dato che
era ospite di Israele, probabilmente non gli sarebbe stato comunque permesso di
attraversare il checkpoint in Palestina.
Appropriazione
culturale e islamofobia
L’ultimo aspetto della
campagna di veganwashing di Israele si basa sull’appropriazione della cucina
palestinese e sulla contemporanea cancellazione della tradizione vegetale nella
storia culinaria palestinese. Sia il governo israeliano che gli stessi vegani
israeliani reclamano spesso cibi palestinesi che esistono da centinaia di anni
e li riconfezionano come “cucina israeliana”, indipendentemente dal fatto che
lo Stato Israele esista solo dal 1948. Gli chef israeliani pubblicizzano
piatti a base vegetale come falafel, hummus, tabbouleh e baba ghanoush come prova
che il cibo israeliano è particolarmente adatto ai vegani. Quello che non
menzionano è che ciascuno di questi piatti è in realtà un piatto palestinese e
levantino che da secoli precede la presenza di Israele nella regione.
I ristoranti
accanto alla mia attuale casa di Washington, DC si impegnano sempre in
questo tipo di appropriazione culturale, che potrebbe essere leggermente meno
inquietante per me, se non riscuotesse così tanto successo. Quando i residenti
del distretto scoprono che sono vegana, mi chiedono sempre se sono stata ai
ristoranti di proprietà israeliana Shouk e Little Sesame. Questi
ristoranti sono rapidamente diventati i preferiti di vegani e non vegani
che non si rendono conto di quanto sia problematico mangiare in un posto che
definisce la sua cucina “moderno cibo di strada israeliano” (Shouk). Ho
anche appena saputo che la catena di falafel “Tel Aviv style ” Taïm, con sede a
New York, aprirà la sua prima sede a Washington il prossimo autunno. Nel caso
in cui i potenziali commensali siano preoccupati per il furto delle tradizioni
culinarie, sul sito web di Taïm una pagina soprannominata “Lezione di storia”
recita: “Ricorda che stiamo parlando di cibo, non di religione o di politica”.
Il problema, tuttavia,
è che non possiamo separare il cibo dalla politica così facilmente, e
soprattutto non nel caso di Israele e Palestina. Questi ristoranti hanno
approfittato della loro appropriazione dei piatti palestinesi per diventare
punti di riferimento popolari nella scena vegana, frequentati da vegani ignari
(e soprattutto bianchi) che non sono a conoscenza o non si preoccupano di
quanto sia ingiusto rubare in questo modo un patrimonio culturale.
Giustamente critichiamo molti altri ristoratori coinvolti in palesi
appropriazioni culturali, ma questi ristoranti israeliani sono rimasti in
qualche modo esenti dai giudizi. La verità è che la maggior parte dei deliziosi
piatti a base vegetale che attirano i vegani in questi luoghi sono
di origine palestinesi.
Un altro aspetto della
cancellazione degli elementi vegetali della cucina palestinese è la promozione
dell’idea che le culture musulmane nel loro insieme non siano favorevoli ai
vegani, un concetto che nella migliore delle ipotesi non è corretto e nella
peggiore è razzista e islamofobo. Numerosi blogger e giornalisti israeliani
hanno affermato che la festa musulmana di Eid al-Adha, che tradizionalmente
comporta il sacrificio di un agnello, significa che le culture musulmane sono
meno compassionevoli verso gli animali. Gli israeliani diffondono anche
stereotipi orribilmente distruttivi, in particolare sui palestinesi, sostenendo
che la cultura palestinese abbraccia la violenza e usano questi tropi per
giustificare la propria violenza contro i civili palestinesi.
La sfortunata realtà è
che la maggior parte, se non tutte le culture umane, hanno tradizioni che
implicano il consumo di animali. Anche se vorrei che non fosse così, credo che
nulla dica di più di una cultura quanto il tipo di relazioni tra umani e
animali non umani in generale. Inoltre, Israele è tra i primi tre paesi che
consumano carne al mondo, un fatto che i suoi sostenitori vegani opportunamente
omettono.
Veganismo
intersezionale
Non possiamo
pretendere che le nostre scelte, come fare un viaggio sponsorizzato in Israele
o patrocinare un determinato ristorante, siano prive di conseguenze. Per essere
chiari: come vegana, sono felice di vedere le persone diventare più sensibili
sul come trattiamo gli animali. Sono anche sicura che ci sono molti israeliani
vegani che si impegnano a porre fine all’occupazione della Palestina, motivo
per cui mi sono concentrata deliberatamente sul veganwashing propagandato dal
governo israeliano, dalle corporazioni e da personaggi pubblici come blogger e
imprenditori, piuttosto che su privati cittadini di Israele. Detto questo, non
accolgo con favore la promozione del veganismo ad ogni costo, perché un
veganismo che non si occupa di questioni intersezionali di oppressione umana è
logicamente incoerente e non mi interessa.
Una critica sulla
complicità della comunità vegana nella campagna di veganwashing di Israele è
stata fatta in uno dei miei episodi preferiti del podcast di Vegan Vanguard: se
i vegani non fossero stati così rapidi nel commercializzare il veganismo come
una semplice scelta di stile di consumo, il veganismo non sarebbe stato così
facilmente co-optato per scopi ingannevoli. Un movimento vegano anticapitalista
esplicitamente intersezionale non potrebbe mai fornire una giustificazione
coerente per le violazioni dei diritti umani, anche a livello superficiale. Nel
nostro desiderio di rendere il veganismo più attraente per le masse, noi vegani
abbiamo svenduto la nostra politica. E le persone sbagliate l’hanno
acquistata, insieme all’hummus preferito dell’IDF.
Sebbene ci troviamo di
fronte a potenti sistemi industriali e militari, possiamo ancora procedere
verso la giustizia. Rifiutare una visione consumistica del veganismo, conoscere
la cucina e la cultura palestinese e unirsi al movimento palestinese della
società civile del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) sono solo
alcune delle azioni che possiamo intraprendere. Non solo possiamo impegnarci
simultaneamente nella liberazione umana e animale, ma dovremmo farlo, perché le
due si rafforzano reciprocamente. I legislatori che chiedono seggi in ecopelle
da cui approvare leggi sull’apartheid o i soldati che richiedono berretti
senza lana da indossare mentre terrorizzano le persone non sono vegane e non
rappresentano il veganismo. Il veganismo è libertà, benessere e liberazione per
tutti. O almeno dovrebbe esserlo. Ma solo se c’è giustizia per la Palestina.
(Sarah Doyel è una
scrittrice e blogger, sostenitrice dei diritti della salute, con sede a
Washington, DC. -
Trad: Grazia Parolari
“contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org)