martedì 7 agosto 2018

Come il supermercato è diventato un’industria - Fabio Ciconte, Stefano Liberti



Seconda puntata di un’inchiesta in tre parti sulla grande distribuzione organizzata.Prima puntataterza puntata.

“Sei un pragmatico o un cacciatore?”. La domanda riecheggia per la sala conferenze. La grande stanza immersa nella luce artificiale del neon è affollata, quasi tutti uomini, età media sui 40. Il relatore ha un microfono in mano e un telecomando con cui fa scorrere infografiche e dati su una lavagna luminosa. Il pubblico guarda le slide e ascolta rapito.
Non siamo a una seduta collettiva di life-coaching guidata da qualche guru di nuova tendenza, ma a Marca, la grande fiera dei prodotti a marchio della grande distribuzione organizzata (gdo) che si tiene ogni anno a Bologna, nel cuore dell’imponente e labirintico spazio fieristico. L’uomo in piedi accanto allo schermo sta presentando una ricerca condotta dall’istituto Gfk per conto dell’Associazione della distribuzione moderna (Adm) sui “nuovi processi d’acquisto”. Sono indicate le varie tipologie di clienti dei supermercati. La tassonomia è affascinante e ognuno è assorto nell’ascolto, impegnato senza dubbio a pensare a quale categoria appartenga.
C’è il “pragmatico”, il consumatore che non perde tempo e va dritto verso quello che deve comprare guardando solo le caratteristiche del prodotto e il prezzo. Secondo i ricercatori ha un’istruzione medio-bassa e tende ad acquistare al prezzo minore. C’è il “cacciatore”, che si aggira tra gli scaffali anche lui alla ricerca del risparmio ed è pronto a cambiare marca, prodotto e perfino supermercato a seconda della convenienza. Nella corsia a fianco troviamo il “prudente”, pure lui orientato dal prezzo ma con un enorme bisogno di rassicurazione. Spostandosi nel nord Italia sarà più facile invece imbattersi nell’“esperto”, che legge le etichette, si informa, ha un’istruzione medio-alta. Infine il “brand fan”, che vuole il meglio, di marca, senza badare a spese perché l’importante è essere appagati.
Largo ai prodotti “della casa”
La fiera dura due giorni. Per gli operatori del settore è un’occasione per fare il punto del mercato, incontrarsi e stringere relazioni d’affari. Ma soprattutto per celebrare la crescita inarrestabile della grande protagonista della kermesse: la marca del distributore, ovvero il prodotto con il logo del supermercato.
Pasta, pomodori, biscotti, gelati, detersivi, basta entrare in un qualunque punto vendita per toccare con mano questa evoluzione: i prodotti con il marchio del distributore (Coop, Conad, Carrefour, eccetera) sono sempre di più, in posizioni sempre migliori, e sempre più concorrenziali rispetto ai marchi più noti. Il volume d’affari della private label, si chiama così in gergo, ha raggiunto i 9,5 miliardi di euro, circa il 18 per cento dei prodotti di largo consumo confezionati (il cui fatturato totale è 52 miliardi). Percentuale che sale di molto se si considera il comparto discount.
Cifre ancora ben lontane da quelle di altri paesi europei come il Regno Unito, dove la marca commerciale raggiunge il 45 per cento, che indicano però una chiara direzione di marcia. Secondo le previsioni dell’Adm, che rappresenta le aziende della distribuzione, la private label raggiungerà nel 2025 la quota del 50 per cento dei prodotti in vendita. Ma già la percezione nei supermercati è quella: perché, accanto al prodotto di marca tradizionale, quello a marchio del distributore è sempre più visibile.
“Se consideriamo che le grandi catene italiane, Coop e Conad, hanno percentuali di private label maggiori del 25 per cento, possiamo dire che la gdo è diventata la più grande industria alimentare italiana”, sintetizza Corrado Giacomini, professore di marketing dei prodotti alimentari all’università di Parma.
Un elemento di rassicurazione
Quand’è che la grande distribuzione è diventata un’industria? Nata negli anni venti del novecento nel Regno Unito, la private label è sempre stata associata a prodotti di minor valore, poveri anche nella confezione, destinati a clienti con scarso potere d’acquisto. Negli ultimi anni questa impostazione è cambiata: le grandi catene curano la qualità, il packaging, cioè le confezioni, investono il loro “potenziale di fiducia” presso i consumatori. Quelli che un tempo erano per definizione prodotti non di marca, a buon mercato e alla portata di tutti, oggi si sono trasformati in brand, conquistando la fiducia dei consumatori che, sempre di più, vedono in quel marchio un elemento di rassicurazione.
Accanto a Coca-Cola, Barilla, Ferrero, troviamo quindi ormai le marche di Coop, Conad, Esselunga, ognuna con la sua linea specifica e orientata alle esigenze del singolo consumatore. Stesso scaffale, prodotti diversi: ci sono le aziende leader, quelle che fanno prodotti unici conosciuti in tutta Italia e spesso nel mondo, come le bevande gassate e le creme da spalmare. Li trovi in bella vista, pronti per essere messi sul carrello dalle mani sicure del cosiddetto “brand fan”.
Gli altri clienti invece mirano ad articoli diversi. I pragmatici si dirigono verso i cosiddetti prodotti primo prezzo, più economici. I prudenti vogliono risparmiare ma essere rassicurati sulla qualità. Puntano quindi a marche minori, i cosiddetti “follower”: quelli che, dietro ai leader, cercano di ritagliarsi uno spazio non sempre agevole tra gli scaffali. È proprio in quest’articolazione tra tipologie di consumatore e gerarchie di marchi che si è inserita ormai in modo sempre più preponderante la private label.
La strategia della gdo è chiara: differenziare l’offerta e puntare sempre più verso l’alto. Se con i primi prezzi troviamo prodotti di gamma inferiore rispetto alle marche tradizionali, con la “premium” qualità e prezzo sono più elevati rispondendo alla richiesta di prodotti ricercati, tipici e regionali. Ed è così che negli ultimi anni c’è stato un fiorire di marchi commerciali che vogliono essere garanzia di qualità: Sapori e dintorni di Conad, Fior fiore di Coop, il Viaggiator goloso di Unes, Terre d’Italia di Carrefour. Per non parlare delle linee biologiche, del commercio equo, interi scaffali riservati ai vegani o ai celiaci.
“La grande distribuzione si è ormai sostituita alla signora Maria dell’alimentari sotto casa, che ti garantiva la qualità del prodotto”, riassume efficacemente Giacomini. “Così oggi i prodotti a marca commerciale hanno varie categorie, ma puntano soprattutto sulla premium, quella di maggiore pregio, che mira a fare concorrenza ai grandi marchi industriali”.
Rispetto all’industria classica, la distribuzione gode di alcuni vantaggi incomparabili: non deve fare pubblicità sui prodotti né preoccuparsi dell’accesso al mercato. A differenza dei prodotti industriali, quelli a marca commerciale hanno un canale di vendita dedicato, già pronto, ovvero lo scaffale dello stesso supermercato che mette il marchio sul prodotto. E così si spiega perché, in un mercato in cui il 70 per cento degli acquisti alimentari passa per i punti vendita della gdo, la private label è il nuovo Eldorado. E l’industria, che una volta dettava le leggi e i prezzi, oggi deve adeguarsi.

Concorrenza contraddittoria
Non c’è persona più indicata per parlare di questo tema di Francesco Pugliese. L’attuale direttore e amministratore delegato di Conad è uno dei pochi del settore ad aver fatto il salto della barricata: per anni attivo nell’industria, prima come direttore generale Europa di Barilla, poi come amministratore delegato e direttore generale del gruppo Yomo, dal 2004 ha preso le redini del secondo gruppo distributivo italiano. Conosce quindi sia il mondo del commercio sia quello dell’industria, con i loro rispettivi pregi, difetti, potenzialità.
Con un fatturato di circa tre miliardi di euro la marca Conad è una delle più performanti: rappresenta il 27,4 per cento di un fatturato di poco più di 12 miliardi di euro. Un risultato che stacca di quasi dieci punti percentuali la media italiana. “Il che equivale a dire che nei nostri carrelli, un prodotto su tre è a marchio Conad”, esclama con una certa soddisfazione.
Nella sede del gruppo nel quartiere fieristico di Bologna, questo manager di 58 anni analizza le tendenze di sviluppo della marca del distributore e i rapporti con gli industriali che la producono. Perché, per quanto ovvia, è bene fare una puntualizzazione: non è che i supermercati si siano messi direttamente a trasformare e inscatolare i prodotti. La marca del distributore è prodotta da fornitori in appalto, che spesso sono gli stessi che producono le marche industriali, con il risultato un po’ contraddittorio che i due articoli – che magari provengono dallo stesso stabilimento e sono prodotti con la stessa materia prima – si fanno concorrenza sul medesimo scaffale con marchi diversi.
In un mercato con margini sempre più risicati e con un accesso stretto al consumatore finale, le industrie si trovano così davanti a un bivio: continuare a produrre con il proprio marchio, oppure diventare fornitrici della distribuzione, perdendo cioè la propria identità imprenditoriale ma mantenendo la speranza di non avere problemi nella commercializzazione dei prodotti.
Una scelta quasi obbligata, leggendo i numeri crescenti della private label, ma che presenta non poche criticità. Secondo una ricerca dell’associazione Industrie beni di consumo (Ibc) illustrata proprio alla fiera Marca, su un campione di 75 fornitori della gdo il 92 per cento produce sia un proprio marchio sia un marchio commerciale. Al contempo, il 42 per cento lamenta un enorme aumento della competizione con altri concorrenti. Perché se diventi un subappaltatore, è la gdo a monte e non più il consumatore a valle a promuovere o bocciare il tuo marchio. E i voti alti in pagella possono essere determinati anche da una richiesta di prezzi più bassi.
Tra marchio industriale e marchio commerciale sugli scaffali non c’è partita. Non dovendo pagare spese di marketing né le varie tipologie di contributi e sconti che normalmente la grande distribuzione chiede all’industria per fare entrare i prodotti nei suoi punti vendita, la private label ha solitamente un migliore rapporto qualità/prezzo. E così, come sottolinea l’indagine conoscitiva sulla grande distribuzione dell’agenzia per la concorrenza, la gdo si trova a svolgere ruoli diversi: “Acquirente, concorrente (attraverso le private label), ‘venditore’ degli spazi a scaffale, controllore degli accessi (il cosiddetto gate keeper) al principale canale distributivo”.

La legge del mercato o quella del più forte?
“È una questione di regole di mercato: se sei una marca conosciuta e affermata hai un posizionamento di primo piano e maggiore potere negoziale”, ribatte Pugliese. Il manager ha ben chiaro in mente dove si sta dirigendo il mercato: “La tendenza in atto vede l’affermazione delle marche leader e la crescita costante della marca del distributore, come avviene in tutta Europa”. Da questo punto di vista Conad persegue una strategia di sviluppo in questo senso molto ben definita: “La marca del distributore è un’opportunità per il produttore, piccolo o medio che sia, perché gli mette a disposizione un mercato molto ampio. Ma lo è anche per il consumatore, al quale garantisce prodotti di qualità a prezzi convenienti”.
L’amministratore delegato difende la listing fee e gli altri contributi che la gdo chiede ai fornitori: “La presenza di prodotti sugli scaffali comporta un rischio di impresa che deve essere condiviso. La gdo ha costi di gestione come qualunque altro attore del commercio, ma margini molto ridotti, in media lo 0,4-0,5 per cento, mentre quelli dell’industria raggiungono il 5-6 per cento”. Proprio per incentivare la spinta verso il private, i contratti che Conad chiude con i fornitori delle sue marche non prevedono le listing fee che impongono invece ai marchi industriali, ma sono net-net: cioè il prezzo netto pulito, senza contributi o scontistiche. Così, il piccolo è spinto a produrre per il distributore e a non lanciarsi in rischi imprenditoriali eccessivi che potrebbero portarlo contro un muro.
Pugliese è molto diretto: “Lo scenario è cambiato in pochi anni. La piccola e media industria sono chiamate a misurarsi con la reale domanda di mercato”. Ed è così che sempre più si sta verificando un grande stravolgimento dei rapporti di forza: se i gruppi della gdo in Italia, in particolare Conad e Coop, sono nati come unione di dettaglianti per fronteggiare il potere della grande industria, oggi è la gdo a farla da padrona rispetto a un universo di fornitori che appare decisamente poco coeso.
L’industria è quindi destinata a diventare una pura subappaltatrice, realizzatrice di processi dettati da altri attori della filiera? Il manager di Conad respinge quest’obiezione: “Si tratta di una dinamica di condivisione. Fare la marca del distributore è un lavoro specifico che richiede uno sforzo di progettazione e implementazione molto significativo unito a una visione strategica chiara. Noi con i nostri fornitori della private label abbiamo rapporti duraturi di mutua fiducia”.
Salvo aggiungere, tanto per essere precisi: “Molte innovazioni, soprattutto in determinati ambiti, sono partite proprio da sollecitazioni della gdo, che interfacciandosi direttamente con i consumatori conosce meglio i loro orientamenti e le loro esigenze”. In effetti spesso le richieste di certificazione etica partono dalla grande distribuzione e sono recepite successivamente e a volte obtorto collo dagli altri anelli della filiera: è il caso per esempio della campagna “Buoni e giusti” di Coop Italia nata per garantire legalità e assenza di sfruttamento e caporalato sui prodotti in vendita.
A sentire l’altra campana, cioè l’industria, le relazioni non sono però così rosee. Molti fornitori sostengono, sempre in forma anonima per non inimicarsi la gdo, che le condizioni dettate da quest’ultima sono spesso dure, al limite del vessatorio. Alcuni degli operatori interpellati per quest’inchiesta lamentano che i buyer spesso non conoscono le aree di produzione, i costi, il valore degli articoli. E badano prevalentemente a ottenere il prodotto a costi bassi. Insomma, è un cane che si morde la coda: i fornitori non possono più fare a meno della private label, ma produrre per la private label erode il loro potere negoziale.

Chi è causa del suo mal…
Il punto critico del sistema è proprio questo: l’asimmetria contrattuale. In un paese fatto per lo più di piccole e medie imprese, la grande concentrazione della distribuzione nelle mani della gdo genera elementi di distorsione: da una parte c’è un attore potentissimo, che controlla l’accesso al mercato, dall’altra un mondo estremamente frastagliato, poco incline all’aggregazione e quindi incapace, con poche eccezioni, di avere una reale forza negoziale. Migliaia di piccoli e medi agricoltori che non si mettono insieme a fare sistema, una miriade di industrie di trasformazione con fatturati minuscoli se paragonati a quelli della gdo, con la conseguenza che in queste condizioni il rischio di esondare nel cosiddetto eccesso di potere contrattuale è sempre più alto.
“Non bisogna demonizzare la gdo. Si tratta di una grande opportunità per tutta la filiera agroalimentare”, continua Giacomini. Certo, riconosce il professore: “C’è una sproporzione di forze tra i giganti delle catene dei supermercati e gli altri attori della filiera”.
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, taglia corto con i suoi toni un po’ caustici Pugliese. “Credo che sia necessario sempre più che gli altri attori definiscano un indirizzo di filiera per avere un rapporto meno sbilanciato con la gdo”, propone in modo più diplomatico Giacomini. “Se è vero che i gruppi della gdo hanno un fatturato enormemente superiore a quello di qualsiasi impresa agricola, è vero anche che se ognuna di queste si presenta da sola nella contrattazione, non ha alcuna possibilità di spuntare un prezzo congruo”.
Perché negli anni la gdo si è aggregata nelle centrali e nelle super centrali, mentre non si può dire lo stesso per i fornitori che, salvo rare eccezioni, continuano ad andare in ordine sparso. In un certo senso, ha ragione Pugliese: le stesse organizzazioni di produttori, create in campo agricolo su impulso dell’Unione europea proprio per favorire l’aggregazione, in molti casi si sono rivelate unioni fittizie, determinate più dalla necessità di intercettare i fondi dei piani operativi europei che da un desiderio di fare sistema e di unirsi per essere più forti. Così, in un paese costituito da piccole e medie imprese e da aziende agricole con una superficie media di pochissimi ettari, è ovvio che il piccolo industriale o il piccolo agricoltore avranno potere contrattuale nullo di fronte ai giganti della gdo.
Come natura crea
Se gli agricoltori e gli industriali che non si aggregano dovrebbero solo “piangere se stessi”, che danno ne ricava il cittadino consumatore? In definitiva, ottiene prodotti alimentari a basso costo della cui qualità si fa garante la catena di distribuzione. Ma siamo sicuri che sia proprio così?
In un approccio più sistemico, se i prodotti sono a basso costo, è tutta un’economia a risentirne. E alla fine la stessa qualità: perché l’industriale che vende al ribasso alla gdo, si rifarà sull’agricoltore e sul fornitore di materia prima. E quest’ultimo cercherà in tutti i modi di aumentare le rese, usando sementi più performanti, aumentando l’uso di pesticidi e riducendo al massimo le spese accessorie. Produrrà quindi sempre di più una merce, prodotto indistinguibile per qualità il cui valore si misura solo in quantità, perché il costo a cui la vende sarà legato sempre più unicamente a quest’ultima variabile.
È questo quello che sta accadendo? I grandi attori della gdo giurano di no. “Il rapporto con i fornitori di prodotti della nostra marca è basato sulla reciproca soddisfazione, una soddisfazione che si stabilizza nel tempo, con rinnovi annuali per una durata media di oltre otto anni”, afferma Pugliese. “Nell’ortofrutta la media di durata delle relazioni è di 25 anni a evidente dimostrazione di rapporti proficui da entrambe le parti”, puntualizza Coop Italia. I responsabili della gdo sostengono che quella della marca commerciale è un’evoluzione naturale, che loro ci mettono la faccia e garantiscono prezzi più bassi, che stabiliscono relazioni solide e di mutua convenienza con i fornitori.
E che nei supermercati ci sarà sempre una varietà di scelta per tutte le tipologie di clientela. Ma il rischio molto concreto è un altro: che alla fine i cittadini, siano essi clienti esperti, prudenti, cacciatori o pragmatici, si trovino a comprare prodotti diversificati solo nel marchio e nel marketing ma in realtà spesso identici, perché in un universo di grandi concentrazioni è facile imporre un’omologazione verso il basso. E perché gli orientamenti della produzione saranno in effetti sempre più dettati da attori che non necessariamente conoscono i problemi dell’agricoltura o dell’industria di trasformazione, ma avranno come orizzonte d’azione quello dell’acquisto della fornitura al più basso costo possibile.
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