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giovedì 26 gennaio 2017
mercoledì 25 gennaio 2017
La ribellione indigena nelle Americhe - Silvia Ribeiro
Da un estremo all’altro, i popoli indios delle
Amériche vivono, costruiscono e resistono. Resistono alle invasioni, sui loro
territori, di miniere, industrie petrolifere, grandi dighe, gasdotti,
all’abbattimento dei loro boschi e alle mega piantagioni di monocolture di
alberi, ai parchi eolici, alle piantagioni di transgenici e alle fumigazioni di
agrotossici, all’avanzare indiscriminato di progetti immobiliari, alla
contaminazione e furto delle loro terre, fiumi, laghi, e aria. Resistono inoltre ai
mille modi per tentare di renderli invisibili, di affermare che non esistono o
che non sono popoli; affinché ogni lotta, quando viene alla luce e suscita
solidarietà, venga vista come un fenomeno localizzato e isolato, dove non c’è storia,
non c’è identità, non c’è organizzazione, non c’è solidarietà e reti con molti
altri. Le lotte indigene hanno molti livelli di significato che ci toccano
tutti e tutte, anche se spesso li percepiamo solo a partire dalle loro
resistenze nei momenti di repressione e minaccia.
Nel Sud del continente, i Mapuche, tanto in
Cile quanto in Argentina – il loro territorio ancestrale non ha mai avuto
questa frontiera – sono perseguiti giudizialmente e militarmente perché difendono
i loro territori contro le grandi imprese forestali, idroelettriche,
petrolifere e altre imprese e contro gli affari dei governi di turno con le loro
terre. In ogni conflitto, nei loro confronti sono state applicate – o si è
cercato di farlo – le leggi antiterrorismo, leggi che provengono dalle
dittature militari, con persecuzione militare, poliziesca e giudiziaria. In
entrambi i casi, in particolare in Argentina, il discorso ufficiale e mediatico
nega perfino che esistano popoli indios, come è successo nel caso di molti
altri conflitti in territori indigeni. Alla fine del 2016, il caso della machi
mapuche Francisca Linconao (autorità morale, medica e consigliera della sua
comunità) ha sollevato solidarietà in tutto il mondo, quando la machi
Francisca, che si dichiara innocente ed è stata arrestata senza prove, accusata
di un incendio che ha fatto due morti in una tenuta forestale che occupa e
devasta i territori della comunità, ha iniziato lo sciopero della fame che è
durato due settimane, fino a quando, il 6 gennaio 2017, le hanno concesso, non
la libertà, ma gli arresti domiciliari. Il processo contro di lei, continua.
Lo scorso 10 e 11 gennaio, il governo
argentino e il governatore Mario das Neves della provincia di Chubut, in
un’operazione congiunta della Gendarmeria Nazionale e della polizia locale,
hanno lanciato una feroce repressione contro una comunità (lof) mapuche che difende il suo
territorio nel dipartimento di Cushamen, Chubut. Questo lof mapuche ha
rioccupato la terra nel marzo del 2015, dopo che era rimasto incapsulato in
quella che dal 1991 è la proprietà della multinazionale italiana Benetton, uno dei maggiori
proprietari terrieri dell’Argentina, con circa 900.000 ettari in Patagonia.
In quella che Amnesty International ha
definito come “operación cerrojo” [operazione serratura], 200 gendarmi hanno
chiuso tutte le vie di accesso e sono avanzati sparando pallottole di gomma e
di piombo contro la comunità, con un’enorme brutalità, attaccando donne, uomini
e bambini. Il primo giorno avevano un ordine del tribunale per liberare i binari
di un treno turistico che la comunità aveva bloccato con materiali, non persone.
Nient’altro. Il secondo giorno non avevano nemmeno questo esiguo ordine, ma in
entrambe le occasioni hanno attaccato la comunità con violenza, lasciando una
scia di feriti e di arresti.
Al brutale attacco, sono seguite le
manipolazioni mediatiche. I media locali hanno accusato i mapuche di tirare
sassi e di “resistere violentemente a un procedimento giudiziario”, implicando
che erano stati loro a provocare la repressione. Il governatore ha aizzato il
conflitto dichiarando che “Da un po’ di tempo nel Chubut c’è un gruppo di
violenti che non rispettano le leggi, la patria, né la bandiera… Su questo sarò
duro fino in fondo, affinché si rispettino le leggi e la gente viva tranquilla”
(12/01/17 lavaca.org). Per il governatore, “la gente” è la multinazionale Benetton.
Così come ha denunciato l’amato storico
Osvaldo Bayer sul sito Garganta Poderosa, si tratta, un’altra volta, della
Patagonia ribelle, una rinnovata “Campagna del deserto” (che venne condotta
da Julio Argentino Roca agli inizi del 1900) per farla finita con i popoli e le
tribù del Sud, per far posto adesso alle imprese multinazionali.
In tutta l’Amazzonia, nella resistenza
all’industria mineraria, petrolifera e alle altre devastazioni, ci sono i
popoli indigeni. In Ecuador, membri del popolo Shuar della comunità di
Nankitz, Morona Santiago, a novembre e a dicembre hanno cercato di recuperare
il loro territorio, dal quale erano stati violentemente cacciati nell’agosto 2016 da forze
militari e di polizia del governo che, ancora una volta, ha preso in
considerazione un ordine giudiziario a favore della società mineraria cinese
Explorcobres S.A, malgrado lo stesso governo non aveva nemmeno attuato la
consultazione libera, preventiva e informata alla quale hanno diritto le
comunità indigene Shuar. Negli scontri è morto un poliziotto e diversi sono
rimasti feriti. Come ripercussione, il governo ha cercato di chiudere
l’organizzazione ecologista Acción Ecológica, che da anni denuncia gli impatti
dell’attività mineraria e petrolifera e la violazione dei diritti indigeni e
umani in queste aree, compreso il caso Shuar. Si è riusciti a fermare
quest’azione, sia per la vacuità delle accuse contro questa organizzazione, sia
per la vasta protesta nazionale e internazionale; però le minacce proseguono:
continua la militarizzazione nella zona Shuar e analoghe situazioni di
sgomberi, abuso e violenza, si ripetono in diversi territori indigeni
dell’Ecuador dove vogliono portare avanti le mega attività estrattive, a favore
delle imprese straniere, soprattutto cinesi.
La difesa territoriale dei popoli indigeni
ha un ruolo fondamentale nella difesa della vita e della giustizia per tutte le
Amériche, come è successo anche con la mobilitazione del Popolo Sioux a Standing
Rock, nel Nord Dakota, contro l’oleodotto DAPL, un’altra devastante
impresa che a dicembre è stata fermata per l’estesa e ferma resistenza
indigena. La convergenza di popoli indigeni e di organizzazioni ecologiste di
base, così come in diversi luoghi con altri movimenti sociali, femministi,
urbani, contadini, non è nuova, ma sta assumendo forme e significati nuovi.
La storia e le convincenti realtà del
movimento e delle comunità zapatiste avalla, direttamente o indirettamente,
tutti questi processi di resistenza. Il Messico, quasi come un continente in
sé, è attraversato da conflitti territoriali, ambientali, sociali, di
ingiustizie, con innumerevoli casi di repressione aperta o occulta, e con
centinaia di lotte e resistenze locali, molte con base nelle comunità indigene
e contadine. Le testimonianze e le denunce del Congresso Nazionale Indigeno
riflettono molti di questi. La decisione di formare un Consiglio Indigeno di
Governo e contrapporre una candidata donna e indigena ai discorsi elettorali è
un altro modo per presentare, invitando molti altri movimenti, queste realtà,
ferite, resistenze, indignazioni e costruzioni.
.
Pubblicato su
Desinformémonos con il titolo De Dakota a la Patagonia,
rebeldía que no cesa
Traduzione per Comune di Daniela Cavallo
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martedì 24 gennaio 2017
ricordo di Mark Baumer (tempi impossibili per i sognatori)
Mark Baumer attraversava gli Usa a piedi (nudi) per smuovere le coscienze sui cambiamenti climatici.
qui sotto il video del suo centesimo giorno di camminata, il giorno dopo è stato ammazzato da un'automobile (da qui)
qui il suo diario di viaggio
qui il canale youtube dove postava i video del viaggio
mi ricorda il viaggio di Pippa Bacca (qui)
e il viaggio di Christopher Supertramp Mccandless (qui)
qui sotto il video del suo centesimo giorno di camminata, il giorno dopo è stato ammazzato da un'automobile (da qui)
qui il suo diario di viaggio
qui il canale youtube dove postava i video del viaggio
mi ricorda il viaggio di Pippa Bacca (qui)
e il viaggio di Christopher Supertramp Mccandless (qui)
lunedì 23 gennaio 2017
gioventù bruciandosi e perdendosi
un articolo davvero interessante, leggerlo per credere - francesco
…Il 17% degli studenti delle scuole secondarie superiori è frequent player, ha giocato, cioè, una volta a settimana o anche più spesso. Tuttavia, il gioco è nella maggior parte dei casi
un passatempo
occasionale e ha un
impatto limitato sulla vita quotidiana: l’11% degli studenti gioca con cadenza
mensile, un altro 21% gioca più raramente; per il 72% dei giocatori la spesa
media settimanale è inferiore a 3 euro e il 62% degli studenti (il 41% di chi
gioca) non spenderebbe nulla in giochi davanti a un’inaspettata disponibilità
di 100 euro.
L’IDENTIKIT DEL GIOVANE GIOCATORE D'AZZARDO
La propensione al gioco non è uniforme e varia in modo marcato per tipologia di gioco, genere e contesto sociale e familiare degli studenti. Vi sono alcuni fattori che incidono sulla propensione al gioco d’azzardo: innanzitutto il genere. L’incidenza del gioco d’azzardo è sensibilmente maggiore tra i ragazzi (59% rispetto al 38% delle ragazze). Altri fattori incisivi sono: area geografica, età, tipo di scuola frequentata e background familiare. La propensione al gioco è maggiore al Sud-Isole e al Centro rispetto al Nord (rispettivamente il 53% e il 54% dei giovani gioca vs il 42% al Nord), per i maggiorenni (53% contro il 47% dei minorenni), negli istituti tecnici e professionali (rispettivamente 58% e 52% vs 42% dei licei) e nelle famiglie in cui vi è un’abitudine al gioco (64% vs 9% in famiglie non giocatrici).
L’interesse per il gioco d’azzardo è spesso legato alle competenze necessarie a valutare le probabilità della possibile vincita. La propensione al gioco cambia - ad esempio - in relazione al rendimento scolastico in matematica: la quota di giocatori raggiunge il 51% tra chi ha un rendimento insufficiente, mentre è pari al 46% tra chi ha votazione superiore a 8 decimi. Anche il possesso di specifiche competenze probabilistiche è un fattore predittivo: la quota di giocatori sale al 55% tra chi non è in grado di risolvere semplici quesiti probabilistici (mentre la quota di giocatori tra chi ha competenze in merito diminuisce - 46%).
Anche la connessione tra gioco e stili di consumo è rilevante: la quota di giocatori sale nel caso di consumo frequente di energy drink (63%), super-alcolici (60%) e sigarette (57%). Dalla ricerca Young Millennials Monitor Nomisma emerge quindi un gruppo di giocatori che ha un rapporto problematico con il gioco d’azzardo, causa di riflessi negativi sulla vita quotidiana e sulle relazioni familiari: il 36% dei giovani giocatori ha nascosto o ridimensionato le proprie abitudini di gioco ai genitori, il 4% ha derogato impegni scolastici per giocare, mentre il gioco ha causato discussioni con familiari/amici o problemi a scuola nel 5% dei giocatori.
COME INDIVIDUARE I GIOCATORI PROBLEMATICI
Young Millennials Monitor Nomisma in collaborazione con l’Università di Bologna ha adottato uno strumento di screening riconosciuto a livello internazionale (il South Oaks Gambling Screen – Revised For Adolescents, SOGS-RA) che identifica la presenza di eventuali comportamenti di gioco problematici che producono effetti negativi tanto sulla sfera psico-emotiva (ansia, agitazione, perdita del controllo), quanto su quella delle relazioni (familiari, amicali e scolastiche).
L’indicatore SOGS-RA individua nel 5% degli studenti italiani la quota di ragazzi con un rapporto problematico con il gioco d’azzardo. Un ulteriore 9%, inoltre, può essere considerato a rischio rispetto alla probabilità di sviluppare comportamenti di gioco problematici. Per contro, il 33% degli studenti, pur giocando, non evidenzia alcuna problematicità ed ha un rapporto con il gioco che non appare disfunzionale. L’individuazione delle principali caratteristiche dei giocatori problematici è di estrema importanza per determinare non solo chi necessita di specifici interventi di aiuto e supporto, ma anche per identificare i potenziali fattori di rischio correlati con il rischio di sviluppare un rapporto problematico con il gioco.
L’indagine conferma alcuni risultati emersi in altre recenti ricerche: l’incidenza di giocatori con approccio problematico è più alta in alcune regioni meridionali e tra la componente maschile (14% dei giocatori) rispetto a quella femminile (6% delle giocatrici).
Il conseguimento della maggiore età, invece, non appare un elemento significativo…
...GIOCO D'AZZARDO E COMPORTAMENTI DEVIANTI
L’IDENTIKIT DEL GIOVANE GIOCATORE D'AZZARDO
La propensione al gioco non è uniforme e varia in modo marcato per tipologia di gioco, genere e contesto sociale e familiare degli studenti. Vi sono alcuni fattori che incidono sulla propensione al gioco d’azzardo: innanzitutto il genere. L’incidenza del gioco d’azzardo è sensibilmente maggiore tra i ragazzi (59% rispetto al 38% delle ragazze). Altri fattori incisivi sono: area geografica, età, tipo di scuola frequentata e background familiare. La propensione al gioco è maggiore al Sud-Isole e al Centro rispetto al Nord (rispettivamente il 53% e il 54% dei giovani gioca vs il 42% al Nord), per i maggiorenni (53% contro il 47% dei minorenni), negli istituti tecnici e professionali (rispettivamente 58% e 52% vs 42% dei licei) e nelle famiglie in cui vi è un’abitudine al gioco (64% vs 9% in famiglie non giocatrici).
L’interesse per il gioco d’azzardo è spesso legato alle competenze necessarie a valutare le probabilità della possibile vincita. La propensione al gioco cambia - ad esempio - in relazione al rendimento scolastico in matematica: la quota di giocatori raggiunge il 51% tra chi ha un rendimento insufficiente, mentre è pari al 46% tra chi ha votazione superiore a 8 decimi. Anche il possesso di specifiche competenze probabilistiche è un fattore predittivo: la quota di giocatori sale al 55% tra chi non è in grado di risolvere semplici quesiti probabilistici (mentre la quota di giocatori tra chi ha competenze in merito diminuisce - 46%).
Anche la connessione tra gioco e stili di consumo è rilevante: la quota di giocatori sale nel caso di consumo frequente di energy drink (63%), super-alcolici (60%) e sigarette (57%). Dalla ricerca Young Millennials Monitor Nomisma emerge quindi un gruppo di giocatori che ha un rapporto problematico con il gioco d’azzardo, causa di riflessi negativi sulla vita quotidiana e sulle relazioni familiari: il 36% dei giovani giocatori ha nascosto o ridimensionato le proprie abitudini di gioco ai genitori, il 4% ha derogato impegni scolastici per giocare, mentre il gioco ha causato discussioni con familiari/amici o problemi a scuola nel 5% dei giocatori.
COME INDIVIDUARE I GIOCATORI PROBLEMATICI
Young Millennials Monitor Nomisma in collaborazione con l’Università di Bologna ha adottato uno strumento di screening riconosciuto a livello internazionale (il South Oaks Gambling Screen – Revised For Adolescents, SOGS-RA) che identifica la presenza di eventuali comportamenti di gioco problematici che producono effetti negativi tanto sulla sfera psico-emotiva (ansia, agitazione, perdita del controllo), quanto su quella delle relazioni (familiari, amicali e scolastiche).
L’indicatore SOGS-RA individua nel 5% degli studenti italiani la quota di ragazzi con un rapporto problematico con il gioco d’azzardo. Un ulteriore 9%, inoltre, può essere considerato a rischio rispetto alla probabilità di sviluppare comportamenti di gioco problematici. Per contro, il 33% degli studenti, pur giocando, non evidenzia alcuna problematicità ed ha un rapporto con il gioco che non appare disfunzionale. L’individuazione delle principali caratteristiche dei giocatori problematici è di estrema importanza per determinare non solo chi necessita di specifici interventi di aiuto e supporto, ma anche per identificare i potenziali fattori di rischio correlati con il rischio di sviluppare un rapporto problematico con il gioco.
L’indagine conferma alcuni risultati emersi in altre recenti ricerche: l’incidenza di giocatori con approccio problematico è più alta in alcune regioni meridionali e tra la componente maschile (14% dei giocatori) rispetto a quella femminile (6% delle giocatrici).
Il conseguimento della maggiore età, invece, non appare un elemento significativo…
...GIOCO D'AZZARDO E COMPORTAMENTI DEVIANTI
Una cruciale dimensione aggiuntiva, è la
condizione di malessere, che l’indagine individua attraverso metodi diretti che
indiretti.
Tra gli adolescenti, c’è un forte consumo di superalcolici (il 39% ne ha fatto uso nell’ultimo mese e il 17% li ha assunti almeno una volta alla settimana) e di energy drinks. Il 14% ha usato stupefacenti (il 9% in maniera continuativa).
Anche il dato sull’uso dei farmaci fornisce utili informazioni sullo stato emotivo degli adolescenti: la metà ha utilizzato farmaci almeno 1 volta nell’ultimo mese, soprattutto per ragioni che non coincidono con malattie da trattare in maniera intensiva (es. mal di testa, disturbi digestivi, mancanza di energia, ansia): questi comportamenti possono essere indice di uso inappropriato dal punto di vista clinico e di un più generale stato di malessere dal punto di vista socio-sanitario.
La percezione di malessere - misurata dall’indicatore internazionale KIDSCREEN - riguarda il 21% dei giovani e si associa sia all’uso di farmaci sia al gioco problematico. Quando il malessere viene definito da una combinazione di percezione diretta e uso di farmaci legati ad esso è maggiormente predittivo di gioco problematico.
Tra gli adolescenti, c’è un forte consumo di superalcolici (il 39% ne ha fatto uso nell’ultimo mese e il 17% li ha assunti almeno una volta alla settimana) e di energy drinks. Il 14% ha usato stupefacenti (il 9% in maniera continuativa).
Anche il dato sull’uso dei farmaci fornisce utili informazioni sullo stato emotivo degli adolescenti: la metà ha utilizzato farmaci almeno 1 volta nell’ultimo mese, soprattutto per ragioni che non coincidono con malattie da trattare in maniera intensiva (es. mal di testa, disturbi digestivi, mancanza di energia, ansia): questi comportamenti possono essere indice di uso inappropriato dal punto di vista clinico e di un più generale stato di malessere dal punto di vista socio-sanitario.
La percezione di malessere - misurata dall’indicatore internazionale KIDSCREEN - riguarda il 21% dei giovani e si associa sia all’uso di farmaci sia al gioco problematico. Quando il malessere viene definito da una combinazione di percezione diretta e uso di farmaci legati ad esso è maggiormente predittivo di gioco problematico.
domenica 22 gennaio 2017
Simona e quella voglia di viaggiare
(di Vittoria Iacovella)
L’ennesima valigia si chiude, questa volta
per l’India: il rossetto preferito, la canotta “sì mamma”, la maglietta con il
mandala della raccolta fondi, i pantaloni facili da indossare, il cuscino
anatomico, il motorino per la sedia a rotelle così piccolo da entrare nella cappelliera
dell’aereo. Simona è malata di sclerosi multipla primaria progressiva a
evoluzione rapida, ha 42 anni. Dal 2012 a oggi ha perso l’uso delle gambe e ora
anche quello delle braccia. “All’inizio è stata dura, sono rimasta un anno
chiusa in casa, Roma è una città impossibile per un disabile, poi ho reagito,
ho cercato nuovi strumenti, ho imparato a chiedere aiuto a chiunque per strada
e ho ricominciato anche a viaggiare”.
Incontriamo Simona accanto al Vaticano. Mentre attraversa la strada, una ruota si incastra tra i sanpietrini, un autista irritato suona il clacson, un passante accorre a spingerla.
Incontriamo Simona accanto al Vaticano. Mentre attraversa la strada, una ruota si incastra tra i sanpietrini, un autista irritato suona il clacson, un passante accorre a spingerla.
Condividi Viaggiare come stile di vita. Prima di
ammalarsi lavorava come tour leader. Dopo la laurea in Belle Arti il
trasferimento a Londra, poi Danimarca, Svezia, New York, Chicago, Germania.
Inarrestabile era, inarrestabile è rimasta anche quando ha cominciato a
manifestarsi la malattia. “Mi sentivo come ubriaca, spesso mi si addormentavano
le gambe, i medici ipotizzarono fosse lo stress ma poi è arrivata la mazzata.
In ospedale mi dicono che non ci sono cure”. Appena scoperta la malattia,
Simona parte per il Brasile, foresta Amazzonica. “Non ho detto a nessuno cosa
avevo, spesso inciampavo, perdevo le scarpe. Peggioravo ogni giorno, ma
rimanere a casa a piangere mi faceva solo stare peggio. In viaggio dormivamo
anche all’aperto, sulle amache nella natura incontaminata”. Poi è stata la
volta di Miami e dell’Islanda.
Tra pochi giorni partirà per Nuova Delhi grazie a una campagna di crowfounding . “Per viaggiare non ci vogliono tanti soldi ma molta fantasia. L’India, poi, è un Paese che ti sbatte in faccia tanta povertà ma la gente ride e affronta la vita in modo spirituale: voglio assorbire la loro forza per affrontare questo mio mostro”. Grazie a CittadinanzAttiva è riuscita a trovare una serie di sponsor per il viaggio. “Risalirò la parte est dell’India fino a Calcutta muovendomi in treno. Non ho un tragitto preciso, mi lascerò guidare dagli eventi e dalle persone che incontrerò. Infine, mi sposterò a Varanasi e Kakinada e, se tutto andrà bene, la mia ultima tappa sarà ad Almora, la città ai piedi dell’Himalaya. Voglio abbattere ogni barriera, dimostrare che si può».
Tra pochi giorni partirà per Nuova Delhi grazie a una campagna di crowfounding . “Per viaggiare non ci vogliono tanti soldi ma molta fantasia. L’India, poi, è un Paese che ti sbatte in faccia tanta povertà ma la gente ride e affronta la vita in modo spirituale: voglio assorbire la loro forza per affrontare questo mio mostro”. Grazie a CittadinanzAttiva è riuscita a trovare una serie di sponsor per il viaggio. “Risalirò la parte est dell’India fino a Calcutta muovendomi in treno. Non ho un tragitto preciso, mi lascerò guidare dagli eventi e dalle persone che incontrerò. Infine, mi sposterò a Varanasi e Kakinada e, se tutto andrà bene, la mia ultima tappa sarà ad Almora, la città ai piedi dell’Himalaya. Voglio abbattere ogni barriera, dimostrare che si può».
Per arrivare fino alla montagna più alta
del mondo, Simona è riuscita ad ottenere una sedia a rotelle elettrica ultra
leggera e maneggevole. “Pensa che non la concedono in tutte le regioni. Nel
Lazio me l’hanno accordata ma ho dovuto iscrivermi all’Università per
dimostrare che avrei avuto bisogno di uscire. Una sedia così costa sui tremila
euro, io ho una pensione di invalidità di 300 euro e una di 500 euro per un
accompagnatore , è ovvio che costa molto di più un badante e non posso permettermelo.
Mia madre mi aiuta, ma da quando mi sono ammalata è caduta in
depressione. Ho anche pensato di andare in un campo profughi e chiedere a
qualcuno se per così poco se la sente di aiutarmi. Non posso permettermi un
professionista”.
Mentre giriamo tra i marciapiedi di Roma, alla ricerca di quelli con una discesa e una salita percorribili, Simona si accorge di dover andare in bagno. “Il pannolino non lo uso, mi rifiuto, anche se questa città è inaccessibile, se è necessario chiedo aiuto, ecco ora per favore aiutami tu”. Quattro bar, nessuno accessibile in una zona di grande turismo e pellegrinaggi, il quinto finalmente ha un servizio per disabili, per poter entrare, però, bisogna scalare tre grossi gradini. E’ un’impresa. In bagno Simona chiede di essere sollevata in piedi, le gambe sono rigide, appoggia la fronte al muro, apre la giacca, ogni movimento è faticosissimo, strizza gli occhi con aria di sfida, tira fuori una protesi a imbuto in silicone e ride. “Vedi, nulla mi ferma, arriverò anche sull’Himalaya”.
Mentre giriamo tra i marciapiedi di Roma, alla ricerca di quelli con una discesa e una salita percorribili, Simona si accorge di dover andare in bagno. “Il pannolino non lo uso, mi rifiuto, anche se questa città è inaccessibile, se è necessario chiedo aiuto, ecco ora per favore aiutami tu”. Quattro bar, nessuno accessibile in una zona di grande turismo e pellegrinaggi, il quinto finalmente ha un servizio per disabili, per poter entrare, però, bisogna scalare tre grossi gradini. E’ un’impresa. In bagno Simona chiede di essere sollevata in piedi, le gambe sono rigide, appoggia la fronte al muro, apre la giacca, ogni movimento è faticosissimo, strizza gli occhi con aria di sfida, tira fuori una protesi a imbuto in silicone e ride. “Vedi, nulla mi ferma, arriverò anche sull’Himalaya”.
sabato 21 gennaio 2017
In America Latina l’estrazione illegale dell’oro rende più del narcotraffico – Marcello Rossi
L’immagine dominante della criminalità organizzata latinoamericana è stata
per decenni quella del cartello della droga. Ma negli ultimi anni, per un
numero crescente di gruppi di narcotrafficanti, di milizie paramilitari di
destra e di ribelli di sinistra, la principale fonte di guadagno è
rappresentata dalle miniere d’oro illegali.
Fino all’inizio di questo decennio, il legame tra l’attività mineraria
illegale e i gruppi criminali non era considerato una questione di rilevanza
nazionale. Il problema è giunto all’attenzione dell’opinione pubblica nel 2011,
quando un rapporto del servizio di sicurezza colombiano ha segnalato al governo
che il 50 per cento delle miniere del paese era illegale e molte di esse erano
controllate da gruppi armati. Grazie alle indagini e alle denunce che ne sono
seguite, l’opinione pubblica ha cominciato a capire quanto fosse esteso il
business delle miniere illegali; oggi si ritiene che il suo valore sia
superiore a quello del traffico di droga.
Secondo il World drug
report pubblicato nel 2015 dall’Unodc (Ufficio delle Nazioni
Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine), in Colombia i
ricavi all’ingrosso dei cartelli della droga, tra cocaina ed eroina, ammontano
a 1-1,5 miliardi di dollari l’anno, mentre quelli dei trafficanti di oro
estratto illegalmente si aggirano tra 1,9 e 2,6 miliardi di dollari l’anno. In
Perù la situazione è simile: il valore delle esportazioni di oro illegale,
circa 2,6 miliardi di dollari l’anno,
ora supera ampiamente quello del traffico di cocaina (1-1,5 miliardi
l’anno).
Benché la produzione illegale sia difficile da quantificare, diverse stime,
tra cui un recente rapporto di Giatoc (Global
initiative against transnational organised crime, Iniziativa globale contro il
crimine organizzato transnazionale), concordano sul fatto che la percentuale
dell’attività mineraria illegale svolta in Sudamerica sia molto più alta di
quella dell’attività mineraria illegale in altre parti del mondo. Per esempio,
sia in Colombia che in Venezuela, due delle aree aurifere più ricche del mondo,
quasi il 90 per cento dell’oro viene estratto in modo illecito, mentre in
Ecuador questa percentuale è dell’80 per cento circa.
Secondo Livia Wagner, consulente di Giatoc per il settore privato e autrice
del rapporto, la portata del problema è sconcertante. “È spaventoso andare in
queste miniere illegali e vedere il loro impatto negativo sull’ambiente e sulle
persone,” afferma.
Questa moderna corsa all’oro è stata alimentata principalmente dalla
domanda crescente e dalla conseguente impennata dei prezzi negli ultimi 15
anni. In un’epoca segnata dallapolitica monetaria espansiva del mondo
sviluppato e dalla perdita di fiducia nelle monete a corso forzoso come il
dollaro statunitense, l’oro si è rivelato una delle opzioni migliori per creare
riserve di valore e persino per generare ritorni sugli investimenti. Il prezzo
dell’oro ha raggiunto il picco a ottobre del 2012, quando un chilo valeva
57mila dollari. Oggi, anche se i prezzi sono scesi notevolmente, un chilo d’oro
costa ancora 37mila dollari contro, per esempio, i mille o duemila dollari al
chilo della cocaina freebase all’ingrosso.
Il vero prezzo dell’oro
Benché sia stato estratto per secoli, l’oro è un bene estremamente raro sulla terra. Si stima che, nel corso della storia, siano state estratte dal suolo soltanto 161mila tonnellate d’oro – quanto basta per riempire a malapena due piscine olimpioniche. Il grosso è stato estratto negli ultimi cinquant’anni, e in questo periodo la produzione mondiale è raddoppiata, passando da circa 1.500 a quasi tremila tonnellate l’anno. Secondo il World gold council, quasi tre quarti dei giacimenti d’oro del pianeta sono esauriti, e le nuove scoperte sono rare.
Benché sia stato estratto per secoli, l’oro è un bene estremamente raro sulla terra. Si stima che, nel corso della storia, siano state estratte dal suolo soltanto 161mila tonnellate d’oro – quanto basta per riempire a malapena due piscine olimpioniche. Il grosso è stato estratto negli ultimi cinquant’anni, e in questo periodo la produzione mondiale è raddoppiata, passando da circa 1.500 a quasi tremila tonnellate l’anno. Secondo il World gold council, quasi tre quarti dei giacimenti d’oro del pianeta sono esauriti, e le nuove scoperte sono rare.
Alcuni dei più grandi giacimenti d’oro rimasti si trovano in America
Latina, dove perciò il minerale è un elemento cruciale di numerose economie
nazionali. In molte aree di questa regione è l’unica fonte di sostentamento per
gli abitanti privi di istruzione superiore.
Ma negli ultimi anni gran parte del suo valore è passato dalle mani dagli
stati a quelle dei gruppi criminali che operano nei loro confini. L’aumento del
prezzo dell’oro da una parte e, dall’altra, le sfide della “guerra alla droga”
portata avanti dagli Stati Uniti, hanno spinto molti gruppi armati e
terroristici verso la decisione più semplice: passare dal narcotraffico
all’attività mineraria illegale. Poiché i siti ricchi d’oro si trovano di
solito in zone isolate e di difficile accesso, per i cartelli è stato facile
infiltrarsi con la complicità dei militari locali.
C’è un altro fattore chiave che ha reso così facile per i gruppi criminali
latinoamericani appropriarsi dell’attività estrattiva: nella maggior parte dei
paesi ricchi di giacimenti auriferi (come gli Stati Uniti, la Cina, il
Sudafrica, l’Australia e il Canada) l’estrazione dell’oro è svolta da grandi
multinazionali che utilizzano tecnologie avanzate e operano in miniere a larga
scala. Ma in America Latina è un’attività
soprattutto artigianale, a scala ridotta. Alcune piccole miniere
sono esistite per decenni, echi delle frenesie risalenti al saccheggio
perpetrato secoli fa dai conquistadores spagnoli
in cerca di favolosi giacimenti d’oro.
Benché l’attività mineraria su scala ridotta e artigianale non sia di per sé
illegale, in America Latina il settore è in larga parte informale e privo di
regolamentazione, e perciò particolarmente esposto alle infiltrazioni
criminali. Quasi ogni settimana spunta una nuova miniera. Nel 2014 si stimava
che in Colombia fossero attive circa 17mila miniere (in cui lavoravano circa
50mila persone) prive di titoli e licenze ambientali, mentre in Brasile
(all’undicesimo posto tra i produttori mondiali d’oro) soltanto nel bacino
amazzonico operano illegalmente circa 75mila minatori. In Colombia le Farc (il
gruppo guerrigliero di sinistra che ha appena firmato uno storico accordo di
pace con il governo), hanno ottenuto più del 20 per
cento dei loro finanziamenti attraverso l’estrazione illegale
di oro, con il trentaquattresimo fronte del gruppo guerrigliero che guadagnava
oltre un milione di dollari al mese.
L’estrazione illegale dell’oro è anche uno dei modi più semplici e
redditizi per riciclare il denaro. La natura e le dimensioni del mercato, la
forte dipendenza di quest’ultimo dai pagamenti in contanti, la possibilità di
vendere e comprare l’oro in forma anonima, la difficoltà nel tracciare e
verificare le transazioni: tutto ciò rende questa attività particolarmente
attraente per i gruppi criminali organizzati, poiché fornisce un meccanismo per
convertire il denaro sporco in un bene da reinvestire caratterizzato da
stabilità, anonimato e facile commerciabilità.
Costi umani e ambientali
Oltre a finanziare le attività criminali, in America Latina l’estrazione illegale dell’oro ha avuto un pesante impatto ambientale. La regione possiede alcune delle zone più ricche di biodiversità del mondo, e molte di esse sono messe a rischio dall’attività mineraria illegale su scala ridotta, molto più distruttiva di quella delle grandi compagnie. Mentre queste ultime tendono a concentrarsi su aree con ricche vene aurifere sotterranee, le piccole attività illegali di solito si spostano rapidamente all’interno di vasti territori. Aprono grandi varchi nella giungla e passano al setaccio tonnellate di terreno per trovare qualche granello d’oro, lasciandosi alle spalle quello che sembra un paesaggio lunare.
Oltre a finanziare le attività criminali, in America Latina l’estrazione illegale dell’oro ha avuto un pesante impatto ambientale. La regione possiede alcune delle zone più ricche di biodiversità del mondo, e molte di esse sono messe a rischio dall’attività mineraria illegale su scala ridotta, molto più distruttiva di quella delle grandi compagnie. Mentre queste ultime tendono a concentrarsi su aree con ricche vene aurifere sotterranee, le piccole attività illegali di solito si spostano rapidamente all’interno di vasti territori. Aprono grandi varchi nella giungla e passano al setaccio tonnellate di terreno per trovare qualche granello d’oro, lasciandosi alle spalle quello che sembra un paesaggio lunare.
Tra il 2001 e il 2013, soltanto per l’estrazione dell’oro su scala ridotta sono stati
abbattuti circa 168mila ettari di foresta. Altre perdite
significative si sono verificate nell’ecoregione della foresta umida della
Guyana, nella foresta umida dell’Amazzonia sudoccidentale peruviana, nella
foresta umida brasiliana di Tapajós-Xingú e nelle regioni colombiane di Urabá e
della valle del fiume Magdalena. Secondo la Fao,
tra il 2000 e il 2015 la Colombia ha perso oltre il 5 per cento delle proprie
foreste.
L’anno scorso, un gruppo di ricerca della Carnegie institution for science
di Washington ha pubblicato una valutazione
sulla regione diMadre de Dios, nel bacino amazzonico del Perù
sudorientale, utilizzando satelliti, aerei e ricercatori sul campo. Lo studio
ha scoperto che l’estrazione illegale dell’oro distrugge ogni giorno dai cinque
ai dieci ettari di foresta pluviale protetta. “Per noi è stato uno shock,” dice
il coordinatore del progetto Greg Asner. “Siamo tutti abituati a considerare la
deforestazione un problema serio. Ma questa è una rimozione totale
dell’ecosistema oltre il livello del suolo.”
Inoltre, le attività estrattive in territori senza legge stanno inquinando
pericolosamente fiumi e bacini idrici, con conseguenti rischi sanitari per le
comunità vicine e lontane. Dopo che l’oro viene estratto, deve essere separato
dal materiale in cui è incorporato. Nelle attività informali e illegali, l’oro
grezzo polverizzato si unisce al mercurio per creare una miscela che viene poi
bruciata dai lavoratori: in questo modo il mercurio evapora e resta solamente
l’oro allo stato solido. Questo procedimento, spesso eseguito senza
attrezzature di sicurezza, sta portando i livelli di mercurio in molti laghi e
fiumi della regione a più di 34 volte il limite di sicurezza. Analizzando
campioni di capelli, un’altra ricerca
della Carnegie ha scoperto che il 78 per cento delle persone
nella regione di Madre de Dios ha nel corpo il triplo della concentrazione di
mercurio normale. In alcuni casi, più di 27 volte oltre il limite
internazionale stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità.
A livello globale, l’estrazione artigianale dell’oro su scala ridotta è la
prima causa di inquinamento da mercurio nei corsi d’acqua causato da attività
umane (almeno mille tonnellate l’anno secondo le stime
dell’Onu). Si ritiene che l’estrazione artigianale dell’oro su scala
ridotta rilasci ogni anno circa 800 tonnellate di mercurio nei corsi d’acqua e
nei terreni; soltanto nella regione di Madre de Dios, si stima che ogni anno
siano scaricate nell’ambiente da 30 a 40 tonnellate di mercurio. Questa pratica
avvelena il pesce e può causare problemi di salute permanenti agli esseri umani
che vivono fino a quattrocento chilometri a valle. Il recupero di queste aree,
spogliate di tutto lo strato superficiale del terreno e cariche di mercurio,
secondo gli esperti potrebbe richiedere decine di anni.
Circa un terzo delle 45mila persone che lavorano nelle
miniere d’oro boliviane è costituito da bambini
La proliferazione di attività minerarie artigianali in tutta l’America Latina
sta comportando costi umani notevoli. Poiché le miniere si trovano generalmente
in zone prive di vere e proprie autorità governative, i lavoratori sono
estremamente esposti al lavoro forzato e alla servitù per debiti. Il lavoro in
sé è sporco, pericoloso e difficile, e perciò poco attraente per chiunque,
tranne che per i più disperati. Sfollati, minoranze e singoli individui privi
di documenti di identità spesso lavorano nelle miniere per mancanza di altre
opportunità.
Tutto ciò per quanto riguarda gli uomini. Le donne, a cui è vietato
lavorare nel sottosuolo, sono invece oggetto di tratta e di sfruttamento
sessuale. I responsabili delle attività minerarie criminali usano false offerte
di lavoro che promettono alti salari per attirare le ragazze nelle città
minerarie e costringerle a lavorare nei bordelli. Un esempio impressionante è
La Rinconada, un centro minerario peruviano vicino al confine con la Bolivia. La polizia stima che
oltre 4.500 ragazze siano state vittime di tratta finalizzata allo sfruttamento
sessuale nei bar frequentati dai minatori.
Va poi ricordato che circa un terzo delle 45mila persone che lavorano nelle
miniere d’oro boliviane è costituito da bambini. Alcuni anni fa, il difensore
civico nazionale della Bolivia, Rolando Villena, ha affermato che nella regione
mineraria di Potosí i bambini
possono essere acquistatiper una cifra che va dai tre ai sette
dollari.
Lo sfruttamento da parte dei responsabili delle attività minerarie illegali
ha colpito anche le tribù locali. Nel 2012 ha fatto notizia il caso della tribù indigena
yanomami, dopo che alcuni suoi membri sono stati trovati con dei
numeri tatuati sulle spalle, come schiavi.
La debole risposta del governo
Negli ultimi due anni, i governi locali hanno aumentato moltissimo il numero delle operazioni volte a sradicare le miniere illegali. Le forze armate peruviane, colombiane e brasiliane hanno raso al suolo decine di campi minerari, e le autorità hanno limitato la vendita di gasolio e benzina nelle zone a rischio, nel tentativo di ostacolare le attività.
Negli ultimi due anni, i governi locali hanno aumentato moltissimo il numero delle operazioni volte a sradicare le miniere illegali. Le forze armate peruviane, colombiane e brasiliane hanno raso al suolo decine di campi minerari, e le autorità hanno limitato la vendita di gasolio e benzina nelle zone a rischio, nel tentativo di ostacolare le attività.
Tuttavia, la forza dei gruppi criminali e la loro determinazione nel
condizionare i funzionari locali attraverso la corruzione o l’intimidazione
rendono difficile questa battaglia. Inoltre, quando vengono ostacolate in un
determinato luogo, le attività di estrazione selvaggia si trasferiscono
rapidamente in altre aree difficilmente raggiungibili. Concretamente, finora la
maggior parte degli sforzi per stroncare l’attività mineraria illegale ha dato
risultati limitati.
L’estrazione dell’oro presenta un altro elemento chiave: i minatori
illegali possono guadagnare dei 30 ai 75 dollari al giorno. Non è abbastanza
per diventare ricchi, ma è molto più di quanto un adulto privo di istruzione
potrebbe guadagnare facendo il contadino sugli altopiani circostanti. Alcuni
politici locali hanno affermato che in realtà i governi non dovrebbero puntare
alla chiusura delle miniere illegali, perché creano posti di lavoro. In Perù,
per esempio, alcuni politici hanno dichiarato pubblicamente che si dovrebbe
permettere ai minatori di guadagnarsi da vivere, sostenendo che tutti hanno il
“diritto di sbarcare il lunario.”
“Questa battaglia non ha alcun senso”, dice Luis Pardo, direttore del think
tank Colombia punto medio. Ma Pardo ha una soluzione: il governo dovrebbe dare
la caccia a chi sta dietro alle attività estrattive, anziché ai minatori o ai
siti in cui avvengono le operazioni.
“Puoi bombardare una ruspa e mandare in galera il ragazzo che la faceva
funzionare, ma il vero proprietario dei macchinari vive in una grande città e
ha soldi a sufficienza per comprare un’altra ruspa nel giro di poche
settimane,” afferma Pardo. “Perciò, quando il governo deciderà davvero di
stroncare le attività minerarie illegali, dovrà dare la caccia a chi investe in
queste attività”.
(Traduzione di Cristina Biasini)
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mercoledì 18 gennaio 2017
Sardegna, La difesa di un paradiso
grazie ad Alessia per la segnalazione
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lunedì 16 gennaio 2017
Bayelsa, Nigeria: 1000 riversamenti di petrolio l'anno, accuse infinite all'ENI - Maria Rita D'Orsogna,
"AGIP has continued to pollute a canal within its
facility in
Brass despite several representations by the community
and state government"
Attorney-General e Commissioner for Justice
Bayelsa State Government, Nigeria
“We cannot drink water, we cannot bathe in the
river,
our aquatic life such as fish and animals are
dying."
Lettera aperta dei residenti di Bayelsa sull'ennesimo episodio
di inquinamento AGIP nelle loro comunita'
Filippo Cotalinni, Media Relations Manager at
ENI,
has yet to respond to a request for comments on the
incident.
Qualche mese
fa il Bayelsa State Government ha rilasciato i dati per l'inquinamento da petrolio nell'anno
2014.
Un totale di
1,000 sversamenti di greggio nel paese in un solo anno.
Zero
rimedi. Zero rimborsi.
Secondo
l'Attorney-General e Commissioner for Justice, Kemeasuode Wodu, nessuna delle
grandi compagnie ha fatto molto per migliorare le cose, che la situazione
in Bayelsa e' drammatica a causa dei signori del petrolio.
Anche
l'ENI/AGIP e' chiamata in causa.
Nel 2015
scoppio' l'oleodotto dell'AGIP presso Clough Creek, Azuzuama.
Morirono in
14 fra cui un membro dello staff del Ministero dell'Ambiente di Bayelsa.
La nostra
beneamata, secondo Wodu, evacuo' i corpi dei feriti e dei morti in fretta in
furia a Port Harcourt nel vicino Rivers State, per cercare di insabbiare le
indagini. Non hanno mai cooperato con le autorita' per far si che ci fosse una
investigazione appropriata sull'incidente.
E poi ancora
Wodu ricordo' l'enorme sversamento da un'impianto a mare dell'AGIP on localita'
Brass il 27 Novembre 2010, che causo' enormi danni all'ecosistema.
Neanche qui gli elegante eredi di Enrico Mattei fecero niente. Niente fecero loro, niente fecero gli enti nigeriani. Anzi, l'AGIP continua a inquinare i canali marini, nonostante le proteste della comunita' e delllo stato di Bayelsa.
Neanche qui gli elegante eredi di Enrico Mattei fecero niente. Niente fecero loro, niente fecero gli enti nigeriani. Anzi, l'AGIP continua a inquinare i canali marini, nonostante le proteste della comunita' e delllo stato di Bayelsa.
Passa
neanche un mese, e il 2 Novembre 2016 i residenti di Ekole Creek sempre dello
stato di Bayelsa riportano un "massive oil leak" dell'AGIP di
Nigeria.
Distrutta la pesca distrutti i campi
Secondo i residenti, il petrolio ha coperto uno strato di circa5 centimetri sulla
superficie dell'acqua dei loro fiumi. Il copione e' sempre lo stesso, pesci
morti, spaventati, ed impossibile da catturare sani o da mangiare. Acqua
contaminata che non si puo' piu' usare ne per bere, ne par farsi il bagno.
In una lettera aperta, i residenti scrivono
“We cannot drink water, we cannot bathe in the river, our aquatic life such as fish and animals are dying."
Il rappresentante ENI, Filippo Cotalinni, il loro Media Relations Manager non ha risposto alle richieste di speigazioni o di commenti da parte della stampa di Nigeria.
Distrutta la pesca distrutti i campi
Secondo i residenti, il petrolio ha coperto uno strato di circa
In una lettera aperta, i residenti scrivono
“We cannot drink water, we cannot bathe in the river, our aquatic life such as fish and animals are dying."
Il rappresentante ENI, Filippo Cotalinni, il loro Media Relations Manager non ha risposto alle richieste di speigazioni o di commenti da parte della stampa di Nigeria.
Siamo nella
regione dell'Ogbia dove la Shell rilascia petorlio da un oleodotto nel piu'
importante fiume della zona, l'Ekoli. Sono morti in due. Perche' e' successo
questo? Secondo Sodaguwa Festus-Omoni, rappresentante dell'area, a causa della
scarsa manutenzione di oloeodtto vecchi e corrosi.
Era vecchio
di 40 anni. Avrebbe dovuto essere rimpiazzato dopo venti.
Cioe' venti
anni fa.
Sono dieci
anni che accadono queste cose, a Ogbia come a Bayelsa, da parte della Shell
come da parte dell'ENI e nessuno fa niente.
Sodaguwa
Festus-Omoni dice chiaramente che e' la politica di queste multinazionali di
sperare che il silenzio conservi lo status quo. Cioe' qui non si preoccupano
nemmeno di dichiarare il tuttapposto, non dicono proprio niente:
“I think it is a practice of these oil majors to cover up. They take it for granted that the people are so ignorant that it will not go anywhere."
Ovviamente fa sempre comodo parlare invece di vandali e di attacchi da parte dei ribelli.
Ma secondo Sodaguwa Festus-Omoni tutto questo disastro di cui non parla nessuno ne in Nigeria ne tantomeno in Europa o negli USA, e' solamente a causa della negligenza da parte della Shell.
Con la scusa del vandalismo, i vecchi oleodotti non vengono controllati, riparati o sostituiti, e .. voila',
petrolio dappertutto. E silenzio.
Anche qui la storia e' la stessa, di fiume essenzialemente distrutto, pesca e usi potabili non piu' possibili, gente con eczemi a causa degli idrocarburi dispersi nel mare.
La Shell dice di ora stare facendo delle indagini.
E infine, il
2017 si apre con la stessa Royal Dutch Shell che ha dovuto chiudere l'oleodotto
nigeriano Trans Niger oil pipeline a causa di un incendio in
localita' Kpor, in Ogoniland.
Passano qui
circa 180,000 barili di petorlio al giorno, greggio che arriva fino al Bonny
Export Terminal nel Niger Delta.
La
produzione di petrolio dalla Nigeria continua a crollare a causa dei ribelli e
di attacchi alle infrastrutture che si sono asusseguiti nel 2016. Ad Agosto
2016 il minimo storico delle estrazioni con circa 1.39 milioni di barili al
mese, il valore piu' basso dal 1988.
La Shell non
ha avuto alcun commento.
Tutto questo accade lontano.
Ma quel petrolio lo usiamo noi.
L'ENI e' al 30% di proprieta' statale.
Siamo noi.
Tutto questo accade lontano.
Ma quel petrolio lo usiamo noi.
L'ENI e' al 30% di proprieta' statale.
Siamo noi.
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domenica 15 gennaio 2017
persone che restano umane
Questo è il momento di alzarsi in
piedi - Marco
Arturi
L’uomo che vedete nella foto qui sopra si chiama
Cedric Herrou e vive a Breil sur Roya, un villaggio al confine con
l’Italia, più precisamente con l’entroterra di Ventimiglia (qui l’archivio
delle notizie sulle lotta con i migranti nella cittadina della provincia
di Imperia). È un contadino ed è sotto processo per
avere dato aiuto e ospitalità nei mesi scorsi ad alcune centinaia di profughi (molti dei quali
bambini e bambine) costretti, visto l’ormai celebre blocco di Ventimiglia, a
tentare clandestinamente il passaggio in cerca di una vita migliore.
È accusato di favoreggiamento e rischia cinque anni di carcere e una
sanzione economica pesante. Qualche giorno fa di fronte a un giudice di Nizza ha rivendicato le proprie azioni affermando che è
giusto trasgredire le leggi davanti alla disperazione e che continuerà perché “questo è il momento di alzarsi in piedi”.
La notizia, che ha cominciato a fare il giro di
mezzo mondo – è comparsa anche sulle pagine del New york times (qui articolo e
video, Farmer
on Trial Defends Smuggling Migrants: ‘I Am a Frenchman’) – è ignorata dai media italiani per ragioni che sono davvero
difficili da spiegare se non mettendo in dubbio la libertà, l’indipendenza e la
buona fede della stampa in questo paese, forse condizionata o forse distratta
da questioni come il maltempo, le stronzate di Saviano oppure le liti tra
Partito democratico e grillini. Sia come sia, pubblichiamo questa notizia per
chiedervi di seguire e diffondere una vicenda esemplare in un momento nel quale
i migranti vengono dipinti come un’emergenza nazionale e continentale con il
chiaro fine di distogliere l’attenzione da altre questioni.
Cedric Herrou non va lasciato solo (il giudizio sul
caso di Herrou è previsto per il 10 febbraio), come non vanno lasciati soli i migranti che hanno l’unica colpa di essere
nati dalla parte sbagliata del mondo: o stiamo con loro o stiamo con chi è
impegnato a diffondere il terrore, l’egoismo e l’intolleranza. E allora sarà
troppo comodo dire “non è colpa mia”.
Salvare di nascosto i rifugiati - Phil Wilmot
Certo, la Danimarca ha una legge sul sequestro
dei beni ai migranti, ha diversi gruppi i neonazisti e un insopportabile
Partito del Popolo danese. Tuttavia, lontano dalle attenzioni dei “grandi”
media migliaia di persone comuni negli ultimi mesi hanno cominciato a
disobbedire alle leggi e a fornire ai rifugiati letto caldo, via clandestine
per raggiungere la Svezia, indumenti e spesso anche chiavi per una casa. Tutto
in modo informale e spontaneo. Si tratta in realtà di strumenti ritagliati dai
ricordi della II Guerra mondiale, quando migliaia i danesi portarono di
nascosto alla salvezza centinaia di famiglie ebree.
Martedì 18 ottobre, circa cento danesi, vecchi
e giovani, stavano in piedi davanti al tribunale cittadino al freddo vento che
arrivava dal mare, per mostrare la loro solidarietà a quattro attivistisospettati di avere
illegalmente aiutato dei rifugiati ad attraversare il mare dalla Danimarca alla
Svezia.
Mentre soltanto due degli accusati sono
cittadini danesi, tutti sono membri diMedMenneskeSmuglerne, o “Coloro che fanno entrare di nascosto il loro amico” – un
“prodotto” dell’iniziativa con una base più ampia «Benvenuti in Danimarca» che
accoglie i migranti e i rifugiati in questo Paese. L’anno scorso, oltre un
milione di migranti provenienti da Siria, Afghanistan, Eritrea e da altre
regioni instabili, hanno affrontato i rischi di un esodo in Danimarca, e in
altre parti di Europa. Molti sono morti durante
il viaggio o sono finiti in campi
profughi per periodi prolungati. Questa ondata migratoria si correla
direttamente alla crescente xenofobia e allo spostamento a destra in atto in
molti Paesi europei, compresa la Danimarca.
“Praticamente tutte le organizzazioni di
sinistra in Europa hanno trascurato di considerare il flusso dei rifugiati
nelle loro agende” ha detto Mimoza Murato, una delle attiviste non-danesi che
quel giorno affrontava accuse penali. “Avremmo dovuto essere preparati perché
conosciamo il panorama politico”.
Mentre gli accusatori danesi forse non erano
d’accordo, il loro caso alla fine è stato rigettato per mancanza di prove
sostanziali. I quattro membri di Med Menneske Smuglerne sono stati accolti da
applausi trionfali dalle loro coorti di «Benvenuti in Danimarca», fuori
dall’edificio del tribunale.
Fornire ospitalità per chi cerca
asilo
Quando Trime Simmel, una giovane attivista
danese di Aarhus, ha visto alla televisione le masse di migranti che si
riversavano nella penisola danese dello Jutland, attraversando il confine
tedesco, nel settembre 2015, si è messa in contatto con i suoi amici per capire
che cosa potevano fare per provvedere alle necessità elementari per i nuovi
arrivati. I migranti venivano scortati dai poliziotti nello Jutaland e quindi i
giovani all’inizio hanno programmato di
aspettare su un cavalcavia dove potevano lasciar cadere dei pacchi pieni di
indumenti caldi, di prodotti per l’igiene e altri articoli essenziali. I migranti, tuttavia, avevano il
sospetto di poter essere scortati dalle autorità statali e si sono sparsi nelle
foreste, e questo ha reso molto più difficile rintracciarli.
“I giovani residenti nello Jutland
telefonavano ai loro genitori per riunire quattro o cinque
macchine, in modo che le scarpe e altri articoli simili
potessero essere distribuiti – ha spiegato Simmel – Quando gli autisti
incontravano i migranti, gli offrivano i pacchi di generi alimentari e
chiedevano loro dove volevano andare all’interno della Danimarca”.
Un buon numero di rifugiati decideva di andare
a Copenhagen, appena al di là del mare dalla Svezia, dove alcuni avevano già
dei familiari.
“Molte persone apolitiche si facevano avanti
per aiutare a guidare coloro che camminavano lungo i binari – ha detto Simmel –
Molte di queste persone avevano contesti familiari come immigrati e provavano
comprensione, ma di solito non erano attivi
rispetto a problemi politici”. Una rete di ospitalità informale nota
come Venligboerne, che comprende oltre 150.000 membri in tutta la Danimarca, ha
contribuito a facilitare gli sforzi dei volontari.
Attivisti come Simmel sentivano che questa
crisi offriva l’occasione di
allontanarsi dai tipici doveri di un attivista di incontri e dimostrazioni,
e di fornire un servizio diretto. L’afflusso dei rifugiati dava uno strattone
alle loro coscienze.
“Proprio come mio nonno, dovetti decidere da
quale parte della storia volevo stare – ha detto Simmel – I politici ci
demonizzavano perché mettiamo fotografie su Facebook di migranti che venivano
aiutati, ma anche i danesi durante la II Guerra Mondiale furono demonizzati e
considerati trasgressori della legge [perché aiutavano gli ebrei]”.
Far rivivere una tradizione di
far entrare di nascosto i rifugiati
La Danimarca è stato l’unico Paese in Europa
che ha ridotto le dimensioni delle sue forze armate all’inizio della II Guerra Mondiale, e tuttavia è
stata senza dubbio tra le più operative a opporsi all’occupazione tedesca. Poco
dopo un’invasione notturna della Danimarca, il 9 aprile 1940, lo studente
diciassettenne di Slagelse, Arne Sejr, divenne frustrato a causa della
passività danese verso il dominio straniero. Tornò a casa da scuola e usò la
sua macchina da scrivere per stampare 25 copie dei suoi “Dieci Comandamenti
per i Danesi”. L’ultimo di questi diceva: “Proteggerai chiunque venga
inseguito dai tedeschi.”
I giovani danesi componevano in modo nascosto
dei volantini di questo tipo nel corso dell’occupazione tedesca. Gruppi come
l’Associazione della Gioventù Danese guidato dal professore di teologia Hal
Koch e il Club Churchill ad Alborg sabotavano regolarmente le autorità
tedesche, a volte distruggendo i veicoli che trasportavano armi e munizioni. Le
comunità cristiane facevano circolare messaggi contro l’occupazione tedesca per
mezzo delle loro prediche. Questo provocò l’uccisione di Kaj Munk, che era tra
gli ecclesiastici più espliciti che sostenevano l’autogoverno danese.
Fra tutte le tattiche impiegate, i danesi dell’epoca della II Guerra
Mondiale sono forse ricordati soprattutto per aver efficacemente fatto entrare
di nascosto, attraverso il confine, in Svezia i rifugiati ebrei. Nel corso di pochi mesi, nel 1943, 7.220 ebrei – quasi l’intera
popolazione ebraica della Danimarca – riuscirono a scappare in Svezia con
l’aiuto dei loro compagni danesi. Soltanto 472 furono catturati all’inizio di
ottobre durante i raid dei nazisti.
“All’inizio, usavamo questa storia del
servizio diretto ai rifugiato, come nostra motivazione” ha detto
l’organizzatore di «Benvenuti in Danimarca», Søren Warburg. Fornire un letto caldo, una via clandestina per la
Svezia, indumenti caldi e una chiave per una casa: queste sono tattiche
letteralmente ritagliate dai ricordi della II Guerra mondiale e
appiccicate all’attuale contesto della migrazione in Europa. Anche mentre
l’attuale governo della Danimarca si è reso intenzionalmente sgradevole ai
richiedenti asilo politico, i danesi stessi – rafforzati da una storia di
sindacati e di organizzazione di comunità – stanno fornendo i servizi che i
loro rappresentanti eletti nello stato sociale, si rifiutano di concedere.
Riflettendo sull’aiuto danese ai rifugiati
ebrei, la portavoce di «Benvenuti in Danimarca», Line Søgaard ha detto:
“Avevamo la sensazione che qualcosa di storico stava accadendo di nuovo”.
Secondo lei, cinquecento danesi hanno inizialmente risposto all’invito
all’azione e hanno formato gruppi di lavoro, che si focalizzano sia su una
campagna politica che sui servizi diretti”.
Navigare in solidarietà
Dato che Copenhagen è situata circa venti
miglia al di là dello Stretto di
Öresund da Malmö, in Svezia, i membri della comunità che
voleva aiutare i rifugiati a cercare i membri delle loro famiglie, o degli
amici, decisero di agire. Raccolsero una lista di quasi cento nomi di
proprietari di barche e organizzarono il trasporto
dei migranti come pubblico atto di sfida.
“All’inizio non pensavamo che nessuno sarebbe
stato perseguito – ha detto Søgaard – Ci sono veri trafficanti di esseri umani
che potrebbero essere perseguiti, ma invece i capi dicono che noi siamo quelli
che tradiscono la nazione”.
Salire di nuovo sulla barca non è una cosa
facile per i rifugiati che sono sopravvissuti all’attraversamento del Mar
Mediterraneo. “Molti dei migranti che abbiamo aiutato a raggiungere la Svezia
di solito ci mandavano messaggi audio dopo che erano sollevati per il fatto di
aver raggiunto i membri della loro famiglia” ha detto Søgaard.
“C’era questa sensazione che stessimo
continuando l’eredità della II Guerra mondiale di assistenza ai rifugiati, che
avevano cominciato alcuni membri della nostra famiglia. Eravamo rimasti
attaccati al nostro senso della morale e dell’etica anche quando la legge
contro l’uscita clandestina dei migranti è sbagliata”.
Attraversare il mare non era, tuttavia,
l’unico modo di raggiungere la Svezia. Calle Vangstrup, uno degli altri quattro
attivisti che affrontano accuse penali, lavorava con i membri del suo movimento
per fornire assistenza ventiquattro ore su ventiquattro alle stazioni di Rødby, Padborg e
a quella centrale, tre importanti punti di incontro da dove i migranti che di
solito non parlano danese o che non sono in grado di capire il sistema dei
trasporti, potrebbero partire per la Svezia in treno.
“C’erano gruppi di persone che erano
disponibili ad aiutare secondo la legge e quelli che volevano infrangerla (che
proibisce l’assistenza durante il trasporto al di là del confine)” ha detto
Vangstrup. “Fortunatamente, gli svedesi sono più aperti in questi giorni, al
contrario che durante la II Guerra mondiale quando spesso rimandavano indietro
gli ebrei fatti entrare di nascosto e mettendoli di nuovo a rischio”.
Vangstrup crede che i membri dei gruppi nazisti danesi e
il Partito del Popolo danese,
populista, sono stati quelli a vedere Med Menneske Smuglerne nel notiziario e
che li hanno denunciati alla polizia. “Come socialista e come essere umano
penso che non dovrei godere di così tanti diritti quando i rifugiati non ne
hanno nessuno” ha detto Vangstrup.
Anche se la polizia ha compiuto indagini che
hanno provocato accuse contro Vangstrup e i suoi amici attivisti, la polizia non sempre ha perpetuato quella xenofobia
che caratterizza la crescente ideologia politica di destra della Danimarca.
Durante la II Guerra mondiale, migliaia di
poliziotti furono arrestati dalle autorità tedesche: la polizia danese sviluppò
la reputazione di essere inaffidabile e spesso deliberatamente trascurava gli
atti di sabotaggio compiuti dai giovani danesi contro gli occupanti. Questo
tipo di umanità tra la polizia è riemersa durante il recente flusso di migranti
in Danimarca. “Molte persone chiedevano alla polizia che cosa potevano fare per
aiutare i rifugiati” ha detto Line Søgaard. “La polizia non sapeva neanche in
che modo consigliare le persone, e quindi alcuni guardavano dall’altra parte
quando i trasportatori continuavano il loro lavoro”.
Dopo che i quattro attivisti accusati di traffico di esseri umani sono
stati assolti dalle accuse, hanno
parlato a una conferenza stampa, incoraggiando chi aiuta direttamente i
migranti e i rifugiati, a continuare il loro lavoro.
“Non siamo neanche un gruppo estremista” ha
detto Line Søgaard. “Diciamo soltanto le stesse cose che dicono i gruppi come
l’Onu [circa la crisi dei migranti]. Tuttavia c’è ancora opposizione ai nostri
sforzi”. Alla fine della giornata, i cosiddetti trafficanti di esseri umani
stavano proprio aiutando altre persone che avevano bisogno di un passaggio
dovunque andassero.
“Tutti abbiamo diritto alla sicurezza e a un
posto sicuro per noi e i nostri figli – ha continuato – Non possiamo soltanto
chiudere i confini e vivere una vita confortevole”
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