lunedì 30 novembre 2020
domenica 29 novembre 2020
La merce in forma vivente transitoria - Annamaria Rivera
Si dice «negazionisti» di coloro che negano o minimizzano la pandemia in corso. Ma lo stesso potrebbe dirsi delle numerose persone che, nonostante sia stato scientificamente provato il ruolo decisivo svolto dagli allevamenti intensivi e dai mattatoi industriali rispetto a ciò che viene detto «salto di specie», seguitano a cibarsi di carne; per non dire di coloro che perseverano perfino nell’acquistare e indossare pellicce animali.
Queste/i
ultime/i continueranno a farlo, probabilmente, anche dopo aver appreso dell’olocausto (uso
volutamente questo termine) cui sono stati destinati in Danimarca i 17
milioni di visoni presenti negli allevamenti del Paese, uno dei principali
esportatori mondiali di pellicce di queste disgraziate creature: assiepate,
tra cumuli di escrementi, in spazi angusti per massimizzare il profitto;
costrette a vivere in condizioni infernali durante il breve tempo sufficiente a
raggiungere la giusta dimensione per essere uccise (perlopiù con l’azoto o il
biossido di carbonio) e poi scuoiate; reificate a tal punto
che è considerato normale e accettabile sacrificare la vita di ben sessanta di
loro per ottenere un solo metro di pelliccia. E in tal modo soddisfare
anzitutto l’industria della moda, il profitto e il mercato, ma anche la crudele
frivolezza dei/delle consumatori/trici di una tale sinistra merce.
Tutto ciò
non riguarda la sola Danimarca. Precedentemente, già agli esordi di giugno, il
governo olandese aveva ordinato l’abbattimento di migliaia di visoni in nove
allevamenti-mattatoi destinati alla «produzione di pellicce» Lo stesso era accaduto
in Spagna, in particolare in Aragona, e anche l’Irlanda ne progetta
l’abbattimento di massa. Inoltre, casi di Covid-19 tra questi mustelidi si sono
verificati pure in Italia, Svezia e negli Stati Uniti: qui sono stati già
uccisi almeno 15mila visoni.
Certo, le
ragioni della propensione a cibarsi di «carne» e perfino a indossare le spoglie
di taluni animali vanno ricercate in primo luogo sul versante del mercato e
degli interessi dell’industria zootecnica, alimentare e della moda. Ma
va considerato anche il versante soggettivo nonché quelli dell’ideologia, del
costume, della cultura. I maltrattamenti, le torture, gli
avvelenamenti, le mutilazioni che vengono inflitti agli animali da allevamento
non sono percepiti come tali: sarebbe come chiedere a chi produce e a chi
consuma una qualsiasi merce di commuoversi per la sua sorte.
Come
già scriveva Voltaire nella voce « Sensation»
del Dictionnaire philosophique, pubblicato dapprima in forma
anonima nel lontano 1764, «se mille animali muoiono sotto i vostri
occhi, voi non vi preoccupate affatto di sapere che fine farà la loro
facoltà di sentire (…): voi considerate quegli animali come macchine della
natura, nate per morire e far posto ad altre».
Ben più
tardi, nel 1999, Florence Burgat (1999: 48) avrebbe
scritto, a proposito dei corpi animali, che essi sono ormai trattati,
percepiti, pensati «come una materia la cui forma vivente è transitoria».
Le
condizioni di vita mostruose, il pessimo contesto igienico, di conseguenza lo
stress cronico inflitto a questi come ad altri animali «da allevamento», per
non dire della somministrazione abituale di dosi abnormi di antibiotici, ne
indeboliscono gravemente il sistema immunitario. E’ dunque assai
probabile che i mustelidi che hanno contratto il Covid-19 siano stati
contagiati da operai e/o allevatori positivi al virus.
Ho prima
usato, volutamente, il lemma olocausto a proposito dello
sterminio riservato ai visoni, in particolare in Danimarca. Come scrivo da
molti anni, v’è una certa continuità concettuale ed empirica fra
la de-animalizzazione degli animali, nel contesto della
produzione industriale serializzata, massificata, automatizzata, e
la de-umanizzazione degli umani che fu compiuta, in
modo altrettanto seriale e massificato, dalla macchina dello sterminio nazista.
Non per
caso abshlachten («macellare») era il verbo adoperato dagli
esecutori nazisti per nominare le stragi dei prigionieri nei lager, programmate e attuate secondo una
rigorosa logica industriale. Se v’è una differenza, è che oggi, al contrario,
si ricorre a un apparente eufemismo, assai rivelatore:
l’allevare e il macellare in massa gli animali da reddito si dice «produrre della
carne o della pelliccia» (Rivera 2000, p. 60).
In
realtà, l’ideologia della centralità e della superiorità della specie
umana su tutte le altre, che finisce per negare ai non-umani la qualità di
soggetti di vita senziente, emotiva e cognitiva, è il modello o la matrice
dello stesso razzismo nonché del sessismo. La dialettica negativa
proposta da Theodor W. Adorno (1979/1951), secondo il
quale il sé dell’umano si produce per mezzo dell’attiva
negazione dell’altro-da-sé, in primo luogo del non-umano,
riguarda anche il rapporto tra uomini e donne nonché tra noi e
gli altri: per meglio dire, gli alterizzati e
le alterizzate (Rivera, 2010, p.12).
Non
solo: il fatto di percepire, considerare e trattare gli animali al pari
di cose o merci – di oggetti inerti, dominabili, sfruttabili,
manipolabili, sterminabili – può essere considerato come il modello
generale di tutti i processi di discriminazione, dominazione, reificazione che
investono il mondo degli umani e del sociale. La «bestialità»
attribuita a coloro che sono in posizione dominata o subalterna diviene così la
garanzia dell’umanità di coloro che sono o soltanto si reputano in posizione
dominante.
Tutto ciò è
rappresentato esemplarmente dalle stragi di persone migranti che si consumano
in particolare nel Mediterraneo, la rotta più migranticida dell’intero pianeta, resa
sempre più tale anche per causa della «guerra» condotta dalle istituzioni
contro le Ong dedite alle operazioni di salvataggio in mare. Basta dire che
dall’inizio di quest’anno sono almeno 900 coloro che hanno perso la vita nel
tentativo di raggiungere le coste europee. Per non dire dei tanti e delle
tante – ben 11.000 – che sono state riportate/i con la forza in Libia,
nei cui lager subiranno trattamenti non molto dissimili da quelli inflitti agli
animali da allevamento.
Né servirà a
mutare le infami politiche italiane ed europee il sussulto di coscienza di
persone comuni, giornalisti/e, intellettuali suscitato dalla tragica vicenda
di Joseph, un bimbo di appena sei mesi,
originario della Guinea, che era a bordo di una nave rovesciatasi al largo
della Libia. Nonostante gli operatori della Ong Open Arms fossero
riusciti a sottrarlo alle acque, egli morirà l’11 novembre scorso a
causa dello scandaloso ritardo dei soccorsi “ufficiali”.
Che un
evento così tragico e struggente come quello del piccolo Joseph non riuscirà a
scalfire la fortezza-Europa ce lo insegna la vicenda di Ālān Kurdî, un bimbo di tre anni,
figlio di rifugiati curdo-siriani che tentavano, nel 2015, di raggiungere
il nostro continente. La foto, assai simbolica, del suo cadavere riverso sulla
spiaggia di Bodrum, in Turchia, fece il giro del mondo ed emozionò un gran numero
di persone. Ciò nonostante, nulla mutò sul piano delle politiche
istituzionali relative ad accoglienza, immigrazione e asilo, né servì, quella
foto, a incrinare il sistema-razzismo.
Analogamente,
le terribili immagini di migliaia di cadaveri di visoni ammassati hanno
fatto il giro del mondo, provocando pietas, sdegno e rabbia. Ma
questi sentimenti saranno presto superati se non interverrà la
consapevolezza politica della centralità della lotta contro lo
specismo, matrice del razzismo e del sessismo, e sempre più ispirato dalla
logica cinica del massimo profitto.
Riferimenti
bibliografici
Adorno T.W,
1979 (1951), Minima moralia. Meditazioni della vita offesa,
Einaudi, Torino.
Burgat F.,
1999, «La logique de la légitimation de la violence: animalité vs humanité»,
in: F.Héritier (s.l.d.), De la violence II, Ed. Odile Jacob,
Paris, pp. 45-62.
Rivera A.,
2000, «Una relazione ambigua. Umani e animali fra ragione simbolica e ragione
strumentale», in A. Rivera (a cura di), Homo sapiens e mucca pazza.
Antropologia del rapporto con il mondo animale, pp. 11-71.
Rivera A.,
2010, La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo, senza
escludere lo specismo, Ediesse, Roma.
sabato 28 novembre 2020
La pericolosa illusione dei rimedi alternativi anti-COVID - Agnese Codignola
L’ultima, in ordine di tempo è l’ivermectina, un antielmintico – cioè uno sverminatore – usato in veterinaria e talvolta anche sugli umani, che sta spopolando in America Latina. Al punto che Perù, Argentina, Bolivia e Guatemala ne stanno producendo e distribuendo a centinaia di migliaia di dosi. Ma l’anti-vermi da banco non è solo: arriva dopo lo sciroppo del Madagascar Covid-Organic, venduto ad almeno due dozzine di paesi africani dall’intraprendente presidente malgascio. Dopo l’Ayush-64, uno dei rimedi ayurvedici propagandati dall’apposito ministero indiano, il cui budget è triplicato all’uopo. Dopo lo Xuebijing, promosso a pieni voti (sulla fiducia) dal Ministero della salute cinese insieme ad altri medicamenti della medicina tradizionale, perché se curano il raffreddore male non fanno. Dopo che le agenzie africane hanno stilato con l’OMS i protocolli per cercare di iniziare a studiare decine di cure tradizionali che stanno circolando senza alcuna regola nel continente. E dopo che molti paesi occidentali hanno abbracciato dissenatamente e senza basi scientifiche l’utilizzo dell’antimalarico idrossiclorochina, salvo poi fare una clamorosa retromarcia e rifilare quintali di farmaco ormai inservibile a paesi più indifesi.
C’è una storia parallela a quella del gigantesco
sforzo in atto da parte della ricerca ufficiale, che faticosamente sta
verificando decine di farmaci anti-COVID, escludendoli via via quasi tutti, e
cercando di capire se, al di là degli annunci mirabolanti, ci si stia
avvicinando davvero a un vaccino soddisfacente e sicuro. Una storia che assume
venature politico-antropologiche molto evidenti: quelle dei rimedi purché
siano, quelle delle risposte che molti governanti, soprattutto (ma non
esclusivamente) populisti vogliono a ogni costo offrire ai loro cittadini, per
rassicurarli e giocare ai salvatori. E non importa se si tratta di pericolose
falsità che fanno leva sulla disperazione, sull’impossibilità di accesso alla
sanità, sulla fiducia in questo caso mal posta nelle medicine tradizionali,
concretizzata in “farmaci” che, nella migliore delle ipotesi, o non fanno nulla
o sono attivi in patologie vagamente (talvolta molto, molto vagamente) analoghe
– e l’analogia spesso non significa nulla in questo campo –, rimedi che in più
espongono chi sia disposto a crederci a due tipi di rischi: quelli del mancato
ricorso alle cure realmente efficaci (e qualcuna c’è come le eparine, i
cortisonici e, in piccola parte, l’antivirale remdesivir, tutti da dare in
momenti diversi e specifici della malattia) e quelli delle tossicità note
e meno note.
In attesa di capire se ci si stia avvicinando davvero
a un vaccino soddisfacente e sicuro, spopolano soluzioni “creative” e
inefficaci, spesso propagandate da politici e capi di stato.
L’OMS è preoccupata, e lancia continui appelli
affinché i governi evitino, i malati non diano ascolto, i medici non si
prestino. Ma i risultati sono praticamente nulli, soprattutto quando sono
appunto i governi i primi sponsor. E la vicenda dell’ivermectina, da questo
punto di vista, è esemplare.
Farmacologia clandestina
Come ha raccontato Nature,
che come le altre riviste scientifiche continua a seguire anche questa
farmacologia “clandestina”, l’antielmintico, che costa pochissimo, è usato da
decenni negli animali, e talvolta nelle persone, ma è diventato ancora più
popolare nello scorso mese di maggio, quando la Bolivia, tramite i suoi
operatori sanitari, ha distribuito 350.000 dosi ad alcune popolazioni del nord
del paese. Poche settimane dopo la polizia peruviana ha sequestrato 20.000 dosi
della versione veterinaria vendute al mercato nero per gli umani, ma in luglio
il governo dello stesso paese ha annunciato l’intenzione di produrne 30.000
dosi, per rispondere alla domanda interna.
Tutto questo senza che vi fosse alcuna dimostrazione
di effetto anti Sars-CoV 2, se non in qualche sparuto studio su colture cellulari.
In aprile uno studio australiano, uscito privo di revisione, suggeriva in
effetti che alte dosi di ivermectina riducessero la replicazione virale in
vitro. Subito dopo un altro, sempre non controllato, ipotizzava un abbassamento
della mortalità nei malati, ma è stato presto ritirato, perché si basava non su
dati reali, ma su dati virtuali, acquistati da una società al centro di una
truffa, la Surgisphere. In seguito ne è stato avviato qualcun altro (su
pochissime persone), e sembra che ci sia qualche indizio positivo, ma per ora
non ci sono dati verificabili. Se ne vorrebbero condurre su popolazioni più
ampie, ma tutti i ricercatori si scontrano con un ostacolo enorme: è
difficilissimo trovare persone che non abbiano mai assunto ivermectina. Nel
frattempo, già nel 2018 un’indagine ne segnalava tutti i rischi: dal tremore
alla letargia, dal disorientamento fino al coma, soprattutto ad alte dosi.
Conseguenze anche più gravi potrebbe avere la
diffusione di Covid-Organic, lo sciroppo malgascio pubblicizzato
nientemeno che dal Presidente Andry Rajoelina, che secondo Science potrebbe
portare all’annientamento di una delle ultime armi che ancora hanno qualche
effetto contro la malaria, soprattutto in Africa.
L’uso di artemisina contro la COVID-19 in Africa
potrebbe portare, in una drammatica reazione a catena, milioni di nuove vittime
della malaria.
L’esordio è stato col botto: in aprile lo
stesso Rajoelina ha annunciato che la mistura, realizzata dal Malagasy Institute of Applied
Research o IMRA, ma la cui composizione esatta è
ignota, avrebbe guarito due pazienti. La National Academy of
Medicine of Madagascar ha preso subito posizione, invitando alla
cautela, ma non è servito a niente: Tanzania e Repubblica Democratica del Congo
hanno immediatamente annunciato, per bocca dei rispettivi presidenti, di volerne,
di quello sciroppo, e parecchio. E in seguito altri paesi africani ne hanno
fatto incetta.
Il problema è che in quello sciroppo c’è l’artemisina,
principio attivo di una pianta, l’Artemisia annua, che è tra
i pochissimi antimalarici ancora efficaci, in alcune parti del mondo. Al punto
che non viene mai data, a tale scopo, da sola, proprio per scongiurare o almeno
ritardare lo sviluppo di una resistenza. Facile immaginare che cosa potrebbe
accadere se fosse presa da milioni di persone in tutta l’Africa: un disastro che
lascerebbe dietro di sé milioni di nuove vittime della malaria.
L’idea di proporla come anti Sars-CoV 2 nasce da una
ricerca cinese del 2005 sulla SARS, nella quale, in vitro, si era visto
qualcosa, ma nulla di più. In realtà l’artemisina non è mai stata studiata su
animali o nell’uomo per nessun coronavirus. E non si capisce perché, se
funziona un po’ su un protozoo come quello della malaria, dovrebbe agire contro
un virus: si tratta di due entità lontanissime, dal punto di vista biologico.
L’Unione Africana, così come i CDC (centri per il controllo delle malattie)
africani hanno chiesto numeri, dati, fatti, ma finora non hanno avuto risposte.
India e Cina
Un altro allarme arriva poi dall’India, dove lo stesso
Ministro per la salute Harsh Vardhan ha iniziato a raccomandare già
in primavera, per le forme più leggere di COVID, la medicina ayurvedica,
sostenuto dai colleghi del Ministero per l’ayurveda, lo yoga e la naturopatia,
lo Unani (medicina di ascendenza arabo-musulmana), il Siddha (medicina del Tamil
Nadhu) e l’omeopatia o AIYSH, creato dal Governo Modi nel 2014, al quale sono
stati triplicati i fondi, passati a 290 milioni di dollari. Anche in quel caso
la Indian Medical Association (IMA), ha subito chiesto prove,
parlando apertamente di frode alla nazione, ma non è servito a
nulla. I pazienti devono fidarsi e sperare che misture a base di pepe caldo,
ginseng e altre erbe facciano il miracolo, insieme alla miscela di 4 erbe
chiamata Ayush64, brevettata fino dagli anni ottanta. Secondo il segretario dell’AIYUS Vaidya
Rajesh Kotecha, ci sarebbero decine di studi di tutti i tipi su di esso: in
vitro, sugli animali e nell’uomo. Peccato che si tratti di studi condotti con
metodologie non riconosciute da nessuna comunità scientifica e, soprattutto, di
dati estrapolati da studi condotti su altre malattie, non sulla COVID. Per
esempio, riferisce Science,
l’Ayush 64 sarebbe stato provato in 38 persone con sintomi influenzali, che
prendevano già paracetamolo e altri farmaci. Se anche avesse funzionato, non è
affatto detto che un antinfluenzale possa agire contro Sars-CoV2, ed è anzi
improbabile, perché si tratta di virus molto, molto diversi.
Della situazione in India ha parlato anche Nature,
che nei giorni scorsi ha pubblicato un drammatico articolo in cui ha denunciato
l’approvazione, da parte della locale agenzia per i medicinali, di farmaci
utilizzati per altri scopi (con il cosiddetto repurposing). Tra
essi l’antivirale favipiravir, già rivelatosi fallimentare ed escluso in moti
paesi, che ha invece avuto un via libera per l’uso in emergenza, senza che però
da nessuna parte sia spiegato che cosa si intende, in India, per emergenza. Ora
sarà prodotto da tre aziende che propongono 3 dosaggi diversi (200, 400 o 800
mg), e anche in questo caso non è stata resa nota la ragione, né le eventuali
differenze di utilizzo, ma nel frattempo il farmaco è stato approvato anche in
Russia e Cina. E poi c’è l’anticorpo monoclonale usato per la psoriasi
itolizumab, approvato anche a Cuba, per il quale ci sarebbero i dati di una
trentina di pazienti, mai resi noti alla comunità scientifica internazionale.
In questi mesi le agenzie governative cinesi hanno
propagandato di tutto: due dozzine di tipi di pillole, decotti, tisane,
polveri e sostanze iniettabili.
Non manca, in questo scenario, la Cina, che i suoi
rimedi tradizionali li ha mandati anche in Italia nella scorsa primavera,
insieme a medici e infermieri arrivati in aiuto della sanità lombarda, e che li
raccomanda, anche in questo caso, attraverso il Ministero della salute e
l’Amministrazione della medicina tradizionale. In questi mesi, riferisce Nature,
le agenzie governative hanno propagandato di tutto: almeno due dozzine di tipi
di pillole, decotti, tisane, polveri e perfino sostanze iniettabili, affermando
che almeno tre di esse erano di provata efficacia.
Efficacia emersa, secondo China Daily, in
studi come quello sul Jinhua Qinggan, granuli a base di erbe sviluppati contro
l’influenza aviaria del 2009, che farebbero negativizzare il tampone in 2
giorni, o quello sullo Xuebijing, un mix di 5 erbe che agirebbe disintossicando
e smuovendo la stasi dei fluidi corporei e, se dato insieme a farmaci meno
tradizionali, ridurrebbe la mortalità dell’8%. Non sono noti i dettagli,
naturalmente: bisogna crederci, e basta. Ma è noto che molti decotti contengono
efedrina, una sostanza stimolante e anoressizzante ricavata dall’Ephedra, una
pianta, che è stata vietata in Europa e negli Stati Uniti già negli anni
novanta a causa di numerosi decessi cui è stata associata, e di una tossicità
rilevante a carico del cuore e di altri organi. L’OMS, che nei primi mesi
avvisava che queste terapie non erano efficaci e potevano essere pericolose, ha
poi rimosso l’avviso, giustificandosi con il fatto che molti, in Cina, usano la
medicina tradizionale, e non si può non tenerne conto.
L’infatuazione di Europa e USA per l’idrossiclorochina
Se nei paesi più poveri e dove l’accesso alla medicina
è più complicato i politici si affidano più a meno a qualunque cosa e
raggiungono vette inarrivabili, come quella della Corea del Nord – dove
l’organo di stampa ufficiale Rodong Sinmun ha
invitato le persone a restare a casa non per mancanza di presidi di
protezione personale, ma perché il Sars-CoV 2, ufficialmente assente dal paese,
potrebbe arrivare con il vento direttamente dal Deserto del Gobi cinese,
trasportato dai granelli gialli di sabbia per oltre 1.900 km –, anche in quelli
più sviluppati si sono visti e ancora si vedono eccessi che sarebbero
spettacolari, se non avessero conseguenze drammatiche.
Per mesi l’ex presidente Donald Trump ha pubblicizzato
l’uso dell’antimalarico idrossiclorochina, farmaco i cui pesanti effetti
collaterali sono noti da decenni e che non aveva mai mostrato un’attività
antivirale, pur essendo stato sperimentato, negli anni, su Zika, chikungunya,
Ebola, Epstein-Barr, febbre suina e altro, come ricordava un’esauriente
revisione uscita già in aprile sul Canadian
Journal of Medical Association. Al contrario,
talvolta ha peggiorato la situazione. Ma diversi capi di stato tra i quali
Emanuel Macron – che per qualche settimana ha subito il fascino di Didier
Raoult, un medico di Marsiglia assai discusso (che nega l’evoluzione darwiniana
e il cambiamento climatico, per restare alle sue affermazioni più fantasiose),
convinto propugnatore dell’antimalarico –, e Jair Bolsonaro, a un certo punto,
hanno deciso che quella era la soluzione. E anche l’Italia ha riconvertito la
produzione dello stabilimento farmaceutico militare di Firenze per aumentarne
la sintesi, visto che coloro che la utilizzavano per alcune malattie reumatiche
e il lupus rischiavano di restare senza. Il tutto prima che ci fossero prove.
Le quali però, presto sono arrivate copiose, e hanno portato tutte le
agenzie regolatorie (FDA, EMA e, a seguire, quelle nazionali) occidentali a
esprimersi contro l’idrossiclorochina, che non fa nulla al
Sars-CoV 2 ed è dannosa.
Nulla di tutto questo ha a che fare con la medicina e
la scienza: è la politicizzazione e la ricerca del consenso nella corsa al
farmaco anti-COVID.
Come faceva notare Science in
un articolo dedicato alla politicizzazione della corsa al farmaco anti-COVID,
nulla di tutto questo ha a che fare con la medicina e la scienza. E proprio con
l’idrossiclorochina c’è stato un epilogo che fa capire come non ci siano grandi
distinzioni tra paesi, quando si decide di accontentare l’elettorato, e non di
seguire la scienza medesima, assumendosi l’onere di dire la verità.
L’azienda farmaceutica Bayer ne aveva donato 200 kg
agli Stati Uniti, pari a 3 milioni di dosi. La Reuters,
con un’inchiesta esclusiva, aveva scoperto che si trattava del Resochin, un
prodotto mai approvato negli USA per gravi carenze nel processo di sintesi in
due stabilimenti di India e Pakistan, mai certificati né tantomeno
autorizzati. A quel punto, poiché, nel frattempo, iniziavano anche a
emergere i primi dubbi sull’efficacia, Trump si è scoperto molto generoso, con
un paese amico: ha mandato al Brasile del re dei negazionisti Bolsonaro due
milioni di dosi di idrossiclorochina (senza
specificare, almeno ufficialmente, da dove proveniva). Resta da capire che fine
abbia fatto il milione mancante, visto che non compariva nella lista dei
farmaci che hanno salvato l’ex presidente.
Le stesse dinamiche, purtroppo, si stanno vedendo con
la corsa al vaccino: governi che credono ai comunicati stampa delle aziende,
lanciati da organi di stampa finanziari, senza aspettare la pubblicazione dei
numeri completi nelle sedi opportune. Agenzie governative che si fidano di
quelli – assai fumosi e opachi – relativi qualche decina di volontari scelti
tra decine di migliaia di partecipanti senza un chiaro criterio. Ministeri che
decidono di acquistare milioni di dosi senza aspettare i dati sulla sicurezza,
e così via. Ma lo spettacolo, si sa, deve andare sempre avanti. Anche e
soprattutto in tempi di pandemia.
venerdì 27 novembre 2020
tanto sono solo animali
L’eterna Treblinka degli animali - Francesca de Carolis
Difficile allontanare dalla mente le immagini dello sterminio dei visoni di
Danimarca, uccisi per via di una versione mutata del coronavirus trovata in
alcuni di loro. 17 milioni di bestioline da allevamento per pellicce. Uccisi,
quelli malati insieme a tutti quelli sani. Per eradicare il virus mutato…
‘Samfudssind’,
bugia detta in danese
Leggo che in
Danimarca la parola dell’anno è “Samfudssind”, che significherebbe “solidarietà
pronta al sacrificio in nome degli altri e dell’interesse generale”.
Solidarietà, si immagina degli allevatori, che sacrificano il proprio interesse
privato in nome di quello generale. E le loro preziose pellicce da mercato
andate in fumo…
Un pensiero, dal punto di vista degli animali, a proposito di questa
“solidarietà pronta al sacrificio” di cui fanno le spese i loro corpi
straziati, dopo la tremenda vita prigioniera di “animale da pelliccia”, che se
appena appena ne conoscete le condizioni… se appena appena sapeste come
comunque viene posta fine alla loro sciagurata vita… e tutto quello che non
sappiamo, di visoni e non solo, perché non vediamo, e siamo ben lieti di questa
nostra cecità… ché l’elenco sarebbe ben lungo…
Di fronte alle immagini dei visoni uccisi, c’è una parola che preme, e si fa
fatica a pronunciare. Ma la pronuncio, anche perché in buona compagnia.
Olocausto.
L’oscena
analogia
Sì, ritorno
a quella che è stata definita l’ “oscena analogia” fra l’olocausto e il
trattamento che riserviamo agli animali. Che è pensiero di Isaac Singer, di
Primo Levi, di Charles Patterson…
Patterson, che nel suo forse più famoso libro, “Un’eterna Treblinka”, scrive:
“Si sono convinti che l’uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia
il vertice della creazione: tutti gli altri esseri viventi sono stati creati
unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati.
Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in
eterno”.
E Isaac Singer, che dell’Olocausto fu vittima insieme alla sua famiglia:
“Dovreste andare a leggervi i rapporti sugli esperimenti che i nazisti
effettuarono sugli ebrei nei loro laboratori e poi leggere i rapporti sugli
esperimenti che vengono fatti oggi sugli animali. Allora vi cadranno le bende
dagli occhi e sarà facile vedere la similitudine…. Tutto quello che i nazisti
hanno fatto agli ebrei, noi lo facciamo agli animali. I nostri nipoti un giorno
ci chiederanno: dov’eri durante l’olocausto degli animali?”.
L’olocausto
degli animali
E ad essere
sincera non riesco a non pensare, in questi giorni di affannata ricerca di vaccini,
a quanti animali, prima di passare alla sperimentazione sull’uomo, siano
sacrificati…
E via via scendendo lungo la scala delle nostre tante “necessità”… mi chiedo
cos’è quella nebbia della mente che ci fa ignorare (a noi che vantiamo
possibilità di accedere a informazioni come mai all’uomo è stato possibile) da
quali lager arrivano quelle cotolette messe in fila negli scaffali dei
supermercati… cosa palpitava dentro quelle pelliccette che fanno da bordo ai
colli dei nostri piumini…
Evidentemente “informazione” non è necessariamente “conoscenza”… oppure proprio
non ce ne importa nulla per via di quello che siamo convinti di poterci
permettere nei confronti di chi riteniamo sia a noi inferiore e in nostro
possesso. E la storia insegna quali trattamenti sappiamo riservare a chi,
esseri umani compresi, riteniamo a noi inferiore…
In paradiso
ad attenderci
E sempre
interrogandomi sul nostro rapporto con gli altri animali, e cercando e
leggendo, tempo fa sono incappata (forse ve ne ho già parlato) nel libro “In
paradiso ad attenderci”, che è conversazione fra il sociologo Maurizio Scordino
e il teologo e biblista Paolo De Benedetti. Dove la questione animale diventa
anche questione teologica. Un libro che consiglio di leggere, perché anch’io
sono convinta (fede o non fede) che se una possibilità di salvezza l’abbiamo,
questa passa attraverso la conciliazione con tutti gli esseri viventi. Ma
proprio tutti.
Pensatore profondissimo, De Benedetti, capace anche di “irriverenze”.
Certo l’uomo non ne esce benissimo. E c’è un punto, nel libro (che per altro
tocca temi tanto complessi e importanti quanto poco discussi) nel quale ci si
chiede “chissà quante cose sarebbero cambiate se Dio avesse salvato tutti gli
animali, spazzando via la sola umanità”.
De Benedetti, secondo cui il dolore degli animali sarebbe più misterioso da
comprendere rispetto a quello degli uomini, sa condire le sue parole con “quel
po’ d’ironia jiddish che per sangue gli appartiene” e… : “Come spesso dico,
anche a costo di sembrare irriverente, tutto deriva, diciamo così, da un
guasto, da un difetto del processo creativo di Dio che, se avesse chiuso la
propria officina il venerdì a mezzogiorno (l’uomo è stato creato nel
pomeriggio…) tutto sarebbe andato benissimo. La prova la fornisce proprio la
Bibbia, dove c’è scritto che quando Dio creò gli animali, le piante e il resto
disse ‘che era cosa buona’, mentre quando creò l’uomo tacque”.
L’uomo, che
degli animali dovrebbe essere custode e non padrone…
A proposito
di custodia… non vi sembri fuori luogo, ma visto che a suo tempo ne abbiamo
parlato… Vi siete chiesti come sta Papillon? L’eroico orso in cerca di libertà,
infine catturato e “preso in cura” nel centro di Casteller? C’è una denuncia
della LEAL, lega antivivisezionista, che ha diffuso alcune informazioni della
relazione dei carabinieri del Cites (che si occupa di tutela delle specie di
flora e fauna protette dalla Convenzione di Washington): M49 “ha smesso di
alimentarsi e si scarica contro la saracinesca della sua tana”. Vi risparmio i
gesti degli altri orsi prigionieri e del loro “severo stress psicofisico” per
via dei maltrattamenti che si denuncia subiscono nella struttura che li
dovrebbe accudire.
Il nostro delirio antropocentrico…
Ritorno a Paolo De Benedetti, che ci ricorda che la parola animale significa
“che ha l’anima”, che è soffio di vita. E arriva a chiederci di credere nella
resurrezione di tutto ciò che ha avuto la vita, perché “se ciò non avvenisse
bisognerebbe riconoscere che la morte è più potente di Dio, che la morte vince in
eterno la vita”.
“Non sempre serve dare una risposta a tutte le domande, a volte è sufficiente,
se non meglio, porsele”, e m’interrogo dunque anch’io sull’anima degli animali,
che spesso penso davvero meriterebbero un paradiso per tutto quello che scontano
sulla Terra. E mi piace credere che lo avranno. Ma guardando a tanta
sofferenza, a tanta morte che a piene mani intanto distribuiamo, e non solo
agli altri animali, sempre meno certa rimango del fatto che ce l’abbiano gli
uomini, un’anima… un’anima e un briciolo di cuore…
Lo sterminio
dei visoni e lo stupore assente - Luca Giunti
Ci risiamo. Di nuovo lockdown, di nuovo chiusi in
casa, di nuovo weekend affollatissimo di escursionisti ansiosi dell’ultima
passeggiata all’aria aperta prima dei divieti totali. Di nuovo servizi solitari
in quota, dedicati alle incombenze di questa stagione: i monitoraggi, il
controllo dei cacciatori (fino alla sospensione dell’attività venatoria
stabilita dalla Regione), la verifica del rispetto delle ordinanze, che non
sono solo quelle del Covid! Tanto tempo per pensare, per rimuginare, per
provare a mettere in fila qualche considerazione che mi faccia capire un po’ di
più cosa sta succedendo all’umanità.
Pensieri meno cattivi che a primavera, forse, ma
lunghi e scuri come le ombre di questo autunno soleggiato e spietato. Lo spunto
questa volta, fra i tanti possibili, arriva da un’amica che mi passa una
notizia internazionale: in Danimarca si stanno abbattendo 15 milioni di visoni
perché potenzialmente infettati dal virus Covid-19. Uno sterminio pianificato,
che però – mi accorgo preoccupato – non mi indigna abbastanza. Com’è possibile?
Cerco di approfondire notizia e sentimenti.
I visoni sono allevati per la produzione di pellicce.
La Danimarca è il primo esportatore mondiale. I visoni portano sulle membrane
cellulari recettori affini a quelli umani e quindi sono attaccabili dal
Covid-19 (e da altri simili). In mezzo a migliaia di animali confinati in spazi
ristretti il virus circola rapido e aumenta la sua velocità di variazione
genica. Potrebbe “inventare” nuovi ceppi virali e trasmetterli agli umani,
vanificando sul nascere le ricerche sui vaccini. Il governo danese ha segnalato
all’OMS di aver già trovato una nuova mutazione in una dozzina di persone. È
improbabile che sia più contagiosa di quella attuale ma la prudenza, si sa, non
è mai troppa (il principio di precauzione è negli statuti della UE, ma viene
applicato solo quando fa comodo). Meglio abbattere tutti i visoni.
Non è una novità, ed è questo che non mi fa stupire.
Influenza aviaria, peste suina, SARS hanno comportato conseguenze uguali negli
anni scorsi (tra gli altri, proprio sui visoni danesi nel 2003, nel 2009 e nel
2013). L’aviaria c’è ancora e ha appena imposto l’abbattimento di oltre 200.000
polli nei Paesi Bassi. Il Covid ne sta uccidendo milioni di altri, non solo
direttamente come in Danimarca, ma di riflesso: non appena la domanda
internazionale cala a causa della paura mondiale, gli allevamenti intensivi,
soprattutto del Sudest asiatico, trovano più conveniente sterminare per
soffocamento o annegamento migliaia di capi invenduti, ma vivi, piuttosto che
nutrirli inutilmente. Animali ammassati e tenuti in condizioni
insostenibili sono focolai costanti di vecchie e nuove zoonosi. Da sempre. Un
esempio tragico è la tubercolosi. Deriva dai bovini e praticamente non esisteva
prima della rivoluzione agricola e della sedentarizzazione di Homo
sapiens, diciamo 12.000 anni fa. La TBC è stata debellata in Europa a forza
di vaccinazioni di massa, ma uccide ogni anno oltre 100 milioni di persone nel
mondo; i morti sono africani e asiatici, non occidentali: quindi il dato
scompare dai nostri orizzonti quotidiani. A proposito di bovini, ci siamo
dimenticati in fretta della “mucca pazza”. Anche in quel caso, umane forzature
dei cicli naturali provocarono epidemia, psicosi, migliaia di capi uccisi in
massa, crollo della domanda di carne, fallimenti di aziende, nuove leggi di
sicurezza. Non impariamo mai!
E poi, lo scandalo dei visoni danesi dove sta?
Nell’ucciderne tutti insieme 15 milioni anziché qualche centinaio alla settimana
per la “normale” produzione di pellicce? Viene in mente una battuta in veneto
dal terzo atto de I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni: «Alla
piegora tanto la fa che la magna el lovo, quanto che la scana el becher»
(«Per la pecora è uguale essere mangiata dal lupo che sgozzata dal macellaio»).
Un altro esempio disturbante viene alla testa piegata dalle raffiche del vento
valsusino: i fagiani allevati in batteria per essere rilasciati poco prima
dell’apertura della caccia (quest’anno, in Piemonte, oltre 4.500 solo in 4 ATC
e 2 CA), fucilati legalmente dopo poche ore di libertà “vigilata”.
Nessuna novità, dunque. Fenomeni noti, informazioni
facilmente reperibili online, catene di cause-effetti conosciute, ben studiate
e ben divulgate. La mia amica ha ragione a stupirsi della mia mancanza di
stupore? Non so darmi una risposta convincente.
O riduciamo drasticamente i consumi di carne e di
pelli, quindi gli allevamenti intensivi, i traffici e le merci che ne
conseguono, le superfici agricole coltivate per alimentarli, gli scarti che a
miliardi formano già le stratificazioni che verranno studiate dai geologi
futuri. Oppure non abbiamo il diritto di indignarci per una aberrazione tra le
tante. Stiamo vivendo non solo una catastrofe sanitaria ma una vera e propria
crisi ecologica. Stiamo ricevendo indietro gli interessi degli sfregi che
infliggiamo al pianeta. Siamo disposti a rinunciare alle nostre comodità, alle
nostre economie, ai guadagni e a questi tipi di lavori? Non mi sembra. Siamo
avviluppati senza scappatoie in un patto faustiano: tecnologia, consumi,
benesseri vari, non sono gratis. Costano l’anima. Nostra, della Terra e dei
visoni.
giovedì 26 novembre 2020
Esportare rifiuti conviene, ma a chi?
Tunisia: l’Italia coinvolta
nello “scandalo dei rifiuti” - Piera Laurenza
Un’azienda
di rifiuti italiana è coinvolta in uno scandalo che ha suscitato
l’interesse dell’opinione pubblica tunisina, dopo che un’emittente televisiva
privata ha denunciato un traffico di rifiuti, ritenuto illegale, pari a circa
120 tonnellate.
In particolare, nella sera del 2
novembre, il canale “El-Hiwar Ettounsi”, nel corso del programma televisivo “Le
quattro verità”, ha rivelato l’esistenza di un contratto tra un’azienda
tunisina ed una società italiana, che prevede il trasferimento di 120
tonnellate di rifiuti l’anno dall’Italia alla Tunisia, in cambio di circa 48
euro per ogni tonnellata importata. I rifiuti in questione sono di varia
natura, ma includono altresì rifiuti ospedalieri, il che viola le norme vigenti
in Tunisia, sia nazionali sia internazionali. È stato un sito
di informazione tunisino a rivelare che la ditta italiana coinvolta
potrebbe essere di origine campana. In particolare, si tratterebbe della SRA
Campania, con sede a Napoli. La parte tunisina coinvolta, invece, a detta della
fonte, potrebbe essere Soreplast.
A seguito del servizio
dell’emittente tunisina, il Ministero degli Affari locali e dell’Ambiente ha
annunciato di aver disposto l’apertura di un’inchiesta, volta ad indagare sul
contratto stipulato tra la parte italiana e tunisina, autorizzando altresì una
“missione di monitoraggio”. Stando a quanto riferito da fonti tunisine,
dall’Italia sarebbero state esportate in Tunisia 70 container con circa 120
tonnellate di rifiuti, mentre più di altri 200 container sono stati depositati
presso il porto di Sousse, in attesa di essere smistati. Il Ministero tunisino
non ha smentito l’esistenza del contratto denunciato, ma ha riferito di non
aver concesso nessun tipo di licenza o autorizzazione alla società tunisina
coinvolta e che adotterà le misure necessarie per far fronte a tale tipo di
traffico. Parallelamente, il direttore delle Dogane tunisine, Haytem Zaned, ha
dichiarato che i 70 container sono stati sigillati ed è probabile che verranno
rispediti in Italia, mentre gli altri 212 si trovano ancora a Sousse.
L’affare era stato scoperto nel
mese di luglio scorso dalle autorità doganali tunisine. Tuttavia, è soltanto
dopo il servizio del 2 novembre che il caso ha ottenuto l’attenzione della
società e del governo tunisini. In Tunisia, le attività di raccolta, trasporto
e gestione dei rifiuti sono regolate da una serie di convenzioni
internazionali, firmate dal Paese nordafricano, oltre a misure nazionali. In
particolare, gli imprenditori e le aziende interessate devono ottenere
l’approvazione dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti, sviluppare
uno “studio di impatto ambientale” e presentarlo all’Agenzia nazionale per la
protezione dell’ambiente (ANPE). Tali agenzie, collegate al Ministero
dell’Ambiente, sono responsabili dell’approvazione dei fascicoli presentati.
Per quanto riguarda gli accordi
internazionali, la Tunisia ha firmato la Convenzione di Basilea sul controllo
dei movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e il loro smaltimento,
adottata a Basilea il 22 marzo 1989 e la Convenzione di Bamako sul divieto di
importazione in Africa di rifiuti pericolosi e sul controllo dei movimenti
transfrontalieri e la gestione dei rifiuti pericolosi nel continente. Infine,
Tunisi ha anche firmato i codici europei dei rifiuti.
La "migrazione"
dei rifiuti dall'Italia alla Tunisia - Ferruccio Bellicini
Si allarga a macchia d’olio
l’indignazione per la notizia, svelata durante la serata del 2 novembre dal
canale televisivo privato “El-Hiwar Ettounsi” nel corso del programma
“Le quattro verità”, di tonnellate di rifiuti, forse anche
ospedalieri, arrivati sulle sponde del Paese nord africano, con partenza
dall’Italia.
Mentre continua il tira e molla,
con contatti di livello pressoché giornalieri fra il governo italiano e le
autorità tunisine (l’ultimo un colloquio telefonico fra il Presidente tunisino
Kaïs Saïed e Giuseppe Conte), per trovare soluzioni che possano arginare le
partenze clandestine di esseri umani verso l’Italia, si é chiuso un occhio, e
forse tutti e due, per un fenomeno che, quasi certamente, si protrae da tempo:
il trasporto di rifiuti italiani verso la Tunisia.
Sulla legalità di questo business
se ne stanno occupando il governo e la magistratura tunisini. Saranno
questi ultimi a determinare se il tutto si é svolto nel rispetto delle leggi
nazionali e internazionali relative alla circolazione di rifiuti, sia urbani
che tossici.
Come ha scritto in un articolo
apparso il 5 novembre il sito sicurezzainternazionale.luis “in
Tunisia, le attività di raccolta, trasporto e gestione dei rifiuti sono
regolate da una serie di convenzioni internazionali, firmate dal Paese
nordafricano, oltre a misure nazionali. In particolare, gli imprenditori e le
aziende interessate devono ottenere l’approvazione dell’Agenzia nazionale per
la gestione dei rifiuti (ANGED), sviluppare uno “studio di impatto ambientale”
e presentarlo all’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (ANPE).
Tali agenzie, collegate al Ministero dell’Ambiente, sono responsabili
dell’approvazione dei fascicoli presentati. Per quanto riguarda gli
accordi internazionali, la Tunisia ha firmato la Convenzione di Basilea sul
controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e il loro
smaltimento, adottata il 22 marzo 1989 e la Convenzione di Bamako sul divieto
di importazione in Africa di rifiuti pericolosi e sul controllo dei movimenti
transfrontalieri e la gestione dei rifiuti pericolosi nel continente. Infine,
Tunisi ha anche firmato i codici europei dei rifiuti”.
Dal momento in cui la notizia é
diventata di dominio pubblico in novembre, pur essendo il fatto stato segnalato
dalla dogana tunisina lo scorso luglio, a causa di una discordanza fra quanto
dichiarato dall’importatore, materiale plastico riciclabile, e il reale
contenuto dei containers, si sono susseguiti in ordine sparso ma incessante,
interrogazioni parlamentari, dichiarazioni di politici, ambientalisti,
giornalisti, magistrati, e chi più ne ha più ne metta. Senza parlare dei social
nei quali, fra l’altro, sono filtrate valutazioni pesudo-sociologiche,
scomodando il colonizzatore (l’Italia) che avrebbe invaso di rifiuti il
colonizzato (la Tunisia) o di una Tunisia diventata “ il bidone della
spazzatura dell’Italia”.
Sabato 7 novembre le organizzazioni
della società
civile di Sousse hanno indetto una marcia di protesta in città per
denunciare lo scandalo sull'introduzione di rifiuti dall'Italia in
Tunisia. Condannando questa situazione, che avrebbe “trasformato la
Tunisia in una discarica dei Paesi europei”, i manifestanti hanno gridato forte
che “la colpa é della politica dei vari governi che, impegnandosi con continui
prestiti contratti all'estero, hanno affogato il Paese in un mare di debiti,
costringendolo ad accettare ogni compromesso.”
Fermo restando il diritto alla
libertà di pensiero e parola rimangono i fatti: un affare privato, fra una
società italiana ed una tunisina, del quale pero’ devono essere definiti i
contorni per valutarne la legalità operativa. Le due società coinvolte
sarebbero una italiana con sede a Napoli e una tunisina con sede a Sousse
(Tunisia centro). Alcuni organi di stampa ne hanno anticipato i nomi, ma per
ora si tratta di illazioni, non essendoci conferme ufficiali. Da alcune
indiscrezioni si é saputo che la società privata tunisina avrebbe
chiuso i battenti nel 2012 per riprendere i suoi servizi solo di recente.
Secondo il portavoce del tribunale
di primo grado di Sousse, a tal fine è stata aperta un'indagine giudiziaria.
Parlando all’antenna radio Mosaic FM, ha detto che “questa indagine è stata
aperta in seguito alla raccolta di alcuni dati: sono recentemente arrivati in
Tunisia 70 container di rifiuti dall'Italia, che ne trasportano 120 tonnellate.
Più altri 200 container che sono bloccati da luglio nel porto di Sousse.”
Contemporaneamente, il direttore
delle Dogane tunisine, Haytem Zaned, ha confermato che “i 70 container sono
stati sigillati ed è probabile che verranno rispediti in Italia, mentre gli
altri 212 si trovano ancora a Sousse.” Il 3 novembre il Ministero degli
Affari Locali e dell'Ambiente ha annunciato l'apertura di un'indagine senza
nominare le aziende coinvolte. Ha detto di “non aver concesso alcuna
autorizzazione alla società tunisina e che "non esiterà a prendere tutte
le misure legali appropriate di fronte a questo tipo di
operazioni". L'azienda tunisina riceverebbe 48 euro per ogni
tonnellata di rifiuti importata.
Secondo quanto pubblicato dalla
testata online Webdo il 9 novembre, “il Presidente della commissione per
la riforma amministrativa e la lotta alla corruzione, Badreddine Gammoudi, si è
dichiarato non convinto dalle spiegazioni del Ministro dell'Ambiente e degli
Affari Locali in materia di importazione di rifiuti dall'Italia. Il
Ministro ha cercato di presentare un 'capro espiatorio' senza destare sospetti
all'interno del suo dipartimento", ha detto dopo
un'audizione. Gammoudi ha ribadito “la presenza di sconfinamenti nelle più
alte strutture del Ministero dell'Ambiente, sottolineando che il caso è ormai
un reato di corruzione e non un sospetto”. Secondo il deputato, “gli alti
funzionari del suddetto ministero sono implicati in questo "crimine"
per frode, complicità e coinvolgimento diretto nel processo.”
Anche gli ambientalisti
tunisini hanno fatto sentire, forte, la loro voce. Adel Hentati,
consigliere di molte ONG e
specialista della protezione ambientale tunisina, ha confermato che “tra i
rifiuti filmati ci sono scarti ospedalieri, la cui raccolta è regolata da
normative specifiche vista la pericolosità che rappresentano.”
L'esperto non ha mancato di
ricordare che “la maggior parte delle discariche in Tunisia sono controllate da
aziende italiane” affermando che “il nostro Paese ha vissuto solo di recente
queste pratiche scioccanti e denunciando il blackout operato dal Ministero
dell'Ambiente.” “E’ un crimine ambientale punito dalla legge” ha ribadito,
in una dichiarazione rilasciata all’agenzia di stampa AFP. Abdelmajid
Dabbar, Presidente e fondatore della ONG “Tunisie ecologie”, strenuo difensore
della flora e della fauna tunisine, da noi contattato, ci ha rilasciato la
seguente dichiarazione: ” la nostra assciazione si é unita con un
collettivo di oltre trenta altre associazioni iniziando una campagna mediatica
per chiede alle autorità competenti di vietare che ogni tipo di rifiuto possa
entrare in Tunisia.”
In un comunicato da loro diffuso,
molto duro, si legge: “ chiediamo di perseguire le società implicate e i
suoi rappresentanti in tribunale sulla base del diritto penale tunisino.
Infatti, in base all'articolo 14 della legge n. 2015-26 del 7 agosto 2015,
relativo alla lotta al terrorismo, questo gruppo di ONG resta fermo di fronte
alla questione dell'importazione di rifiuti. Chiunque danneggi l'ambiente, in modo tale da
compromettere l'equilibrio dei sistemi alimentari e ambientali, o delle risorse
naturali, o da mettere in pericolo la vita degli abitanti o la loro salute, è
colpevole di un reato di tipo terroristico”.
Certamente “l’affaire” non
terminerà qui.
Rifiuti italiani
clandestinamente seppelliti in Tunisia - Natale Salvo
Un traffico clandestino ed
illegale di rifiuti, provenienti dall’Italia e, in particolare dalla Campania,
e che include rifiuti speciali pericolosi quali quelli ospedalieri, è stato
scoperto in Tunisia.
282 containers pieni di rifiuti
italiani sono stati bloccati e sequestrati nel porto di Sousse, dalla Dogana
tunisina. Sui documenti di trasporto appariva, falsamente, che i containers
contenessero « rifiuti di plastica riciclabile ».
Il
portavoce della Dogana tunisina, Haythem Zannad, ha dichiarato che
« grazie alla sua organizzazione che i rifiuti non sono stati sepolti
in Tunisia ».
A darne per prima notizia, lo
scorso 2 novembre, l’emittente
televisiva “El-Hiwar
Ettounsi”, per come ha riportato l’indomani il
giornale online francofono Kapitalis.
La Convenzione di Bamako vieta di
spedire rifiuti in Africa: ma l’Italia ci prova lo stesso!
« Un’azienda tunisina [la
Soreplast, secondo quando riportato dalla stampa, NdR] importava ogni anno
dall’Italia quasi 120.000 tonnellate di rifiuti, violando la
legislazione nazionale e internazionale, come la Convenzione di
Bamako, che vieta l’importazione di rifiuti in Africa », spiega
l’inchiesta giornalistica.
« In cambio –
spiega la fonte -, la società tunisina avrebbe ricevuto 48 euro a
tonnellata » dall’azienda italiana coinvolta.
In proposito, il “Forum
tunisino per i diritti economici e sociali” (FTDES) ha richiesto, alle
autorità competenti, di « obbligare il partner italiano [cioè la
società SRA Campania] ad accettare la riesportazione di
questi rifiuti ».
La scoperta sarebbe avvenuta grazie
alla solerzia della Dogana tunisina, che ha voluto vederci chiaro sui documenti
di trasporto e sull’effettivo contenuto dei containers.
Evidentemente la stessa cura non sarebbe stata impegnata alle frontiere
italiane.
A prima vista potrebbe apparire una
notizia di normale criminalità. Ma in Tunisia non
la pensano così.
Sembra infatti che la Dogana
tunisina « sarebbe stata oggetto di pressioni da parte di politici e funzionari,
che si dicevano vicini al proprietario della società tunisini ».
Scandalo in Tunisia, silenzio sulla
stampa di regime italiana
La deputata Nesrine
Laâmari (Réforme nationale) ha sostenuto chiaramente – per
come riporta
sempre Kapitalis – che la ditta campana « era stata incaricata
dal governo italiano di smaltire questi rifiuti ».
Tra le prime reazioni politiche, a
seguito del sollevarsi dell’indignazione generale, ancora Kapitalis
precisa che « il Ministero degli Affari Locali e
dell’Ambiente ha annunciato, giovedì 12 novembre 2020, che il capo del governo,
Hichem Mechichi, ha deciso di licenziare Fayçal Bedhiafi, Direttore
Generale dell’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (Anged) ».
La stampa di regime italiana
non ha dato notizia dei fatti. Per ritrovarla sui nostri notiziari,
occorre scomodare siti web minori come Unimondo,
grazie ad un post di Ferruccio Bellicini, e MeteoWeek,
con un articolo di Chiara Ferrara.
Dal traffico illecito di rifiuti,
l’Italia “fattura” 20 miliardi annui
Ivan
Cimmarusti su “Il Sole 24 ore”, comunque, già lo scorso giugno, in
un’inchiesta, scriveva di « un business criminale che solo in Italia vale
20 miliardi di euro annui per smaltite nelle megadiscariche senza regole
dell’area sub-sahariana”.
Il giornalista, nell’articolo,
spiegava: « Camorra, mafie estere, faccendieri italiani e spedizionieri
magrebini senza scrupoli hanno fiutato l’affare miliardario. Perché
nei fatti il ciclo illecito dei rifiuti ha un vantaggio per l’impresa che non
intende sostenere spese cospicue. Facciamo un esempio. Una tonnellata di
plastiche e gomme per essere regolarmente smaltita può costare tra 200-250
euro. Seguendo la via illegale la spesa non supera 100-150 euro ».
L’assurdità di tali avvenimenti
verterebbe sul fatto che le società italiane che commerciano illegalmente
i rifiuti sarebbero regolarmente autorizzate. Sarebbero sufficienti, quindi,
effettivi controlli incrociati, anche finanziari, tra i dati di chi produce i
rifiuti, di chi li trasporta e si chi li smaltisce per giungere a scoprire gli
illeciti.
Ma, probabilmente, fa comodo anche
all’Italia, ed ai politici italiani, che continui il traffico clandestino di
rifiuti con l’Africa.
Italia-Tunisia, lo scandalo
dei rifiuti che non esiste
L'Italia è sotto i riflettori in
Tunisia, dopo che nei giorni scorsi l’emittente “Al Hiwar al Tunisi” ha
trasmesso un reportage sull'importazione di rifiuti italiani da parte di una
società tunisina. Il programma “Le quattro verità”, nella puntata dello scorso
2 novembre, ha "denunciato" l'esistenza di un contratto tra
un’azienda tunisina ed una società italiana che, secondo l'emittente, includerebbe
il trasferimento di 120 tonnellate di rifiuti l’anno dal nostro Paese alla
Tunisia. Il caso ha attirato l'attenzione dell'opinione pubblica tunisina e ha
spinto a parlare di scandalo dei rifiuti tra i due Paesi. I dati complessivi
sull'importazione e l'esportazione dei rifiuti raccontano però una storia molto
più complessa. Non è un segreto che l'Italia sia costretta a portare fuori dal
Paese una mole importante di rifiuti. Ma non si tratta di un'abitudine soltanto
italiana. Secondo quanto riporta uno studio dell'Agenzia europea dell'Ambiente
(Eea) sull'economia circolare pubblicato nell'ottobre del 2019, solo
"dall’inizio dello scorso anno, l’Ue ha esportato circa 150 mila
tonnellate di rifiuti di plastica al mese".
Invece, prendendo come riferimento
i rifiuti speciali (cioè quelli prodotti soprattutto da industrie e aziende),
scopriamo che l'Italia nel 2018 ne ha esportati per un volume pari a circa 3,5
milioni di tonnellate. Secondo il rapporto Ispra 2020 sui rifiuti speciali, i
maggiori quantitativi di questi ultimi nel 2017-2018 sono stati destinati alla
Germania, complessivamente 957mila tonnellate (il 27,5 per cento del totale). A
seguire troviamo Austria (322mila tonnellate) e Francia (267mila tonnellate).
L'Italia però è anche un Paese che importa un'elevata quantità di rifiuti
speciali, per un volume che nel 2017-2018 è stato pari a 7,3 milioni di
tonnellate. Si tratta soprattutto per il 78,7 per cento di rifiuti metallici,
spiega l'Ispra. Proprio dalla Germania, nel 2017-2018, abbiamo importato oltre
2,1 milioni di tonnellate di rifiuti speciali. A seguire troviamo la Svizzera
(1,07 milioni) e la Francia (un milione circa di tonnellate di rifiuti). Tra i
Paesi da cui importiamo rifiuti speciali troviamo la stessa Tunisia (4.913
tonnellate).
C'è poi tutta la problematica dei
rifiuti urbani. Solo per fare un esempio rilevante, quelli prodotti nella
Regione Lazio nel 2017 sono stati pari a 2,97 milioni di tonnellate (oltre
50mila tonnellate in meno rispetto all'indagine di Ispra relativa all’anno 2016).
Si tratta di una parte significativa dei rifiuti urbani nazionali, dal momento
che quelli prodotti nel Lazio costituiscono circa la metà di quelli prodotti al
Centro Italia (46 per cento) e il 10 per cento di quelli prodotti sull’intero
territorio nazionale. Nel 2017, oltre l’80 per cento dei rifiuti
indifferenziati nel Lazio (circa 1,3 milioni di tonnellate) è stata inviata a
impianti di trattamento meccanico-biologico regionali, che con processi
meccanici e biologici modificano i rifiuti, generando prodotti che in seguito
devono trovare una collocazione definitiva. Circa 174 mila tonnellate delle
rimanenti sono state trattate, sempre all’interno della Regione, in impianti a
trattamento meccanico, mentre circa 90 mila tonnellate di rifiuti indifferenziati
sono poi state inviate in parte fuori Regione, in parte all’estero. In Austria,
ad esempio, sono state mandate 50 mila tonnellate di rifiuti, tutte dal Comune
di Roma, tutte legalmente...
mercoledì 25 novembre 2020
Quando e come finisce una pandemia - Gina Kolata
Gli storici distinguono due momenti conclusivi per le pandemie: la fine
sanitaria, quando crollano l’incidenza e la mortalità, e quella sociale, quando
sparisce la paura dovuta alla malattia.
“Oggi, chiedersi ‘quando finirà tutto questo’ significa essenzialmente
domandarsi quando arriverà la conclusione sociale”, spiega il dottor Jeremy
Greene, storico della medicina dell’università Johns Hopkins. In altre parole,
può accadere che la fine non arrivi perché l’epidemia è scomparsa, ma perché la
popolazione si è stancata di vivere nel panico e ha imparato a convivere con la
malattia.
Allan Brandt, storico di Harvard, è convinto che questo meccanismo si stia
riproponendo a proposito del covid-19. “Come evidenzia il dibattito sulla
riapertura, le discussioni a proposito della cosiddetta fine della pandemia non
sono determinate dai dati medici e sanitari, ma dal processo sociopolitico”. La
conclusione di una pandemia “è una questione complicata”, conferma Dora Vargha,
storica dell’università di Exeter. “Se guardiamo al passato non troviamo una
narrazione precisa. Per chi finisce la pandemia? Chi lo stabilisce?”.
Combattere paura e ignoranza
Un’epidemia della paura può verificarsi anche in assenza di un’epidemia medica.
Susan Murray del Royal College of Surgeons di Dublino l’ha verificato in prima
persona nel 2014, quando lavorava in un’ospedale rurale in Irlanda. Nei mesi
precedenti in Africa occidentale oltre undicimila persone erano morte a causa
dell’ebola, una grave malattia virale estremamente contagiosa e spesso letale.
In quel momento l’epidemia era in fase calante e in Irlanda non si erano
verificati casi di contagio, ma la paura nell’opinione pubblica era palpabile.
“In strada e nei reparti le persone erano terrorizzate”, ha ricordato di
recente Murray in un articolo pubblicato dal New England Journal of Medicine. “In autobus o in treno avere il colore
della pelle sbagliato bastava per attirarsi gli sguardi severi degli altri
passeggeri. Era sufficiente un colpo di tosse e tutti si allontanavano
immediatamente”. A Dublino gli operatori sanitari si preparavano al peggio, nel
terrore di non avere un equipaggiamento protettivo adatto. Quando un giovane
proveniente da un paese colpito dall’ebola si presentò al pronto soccorso,
nessuno voleva avvicinarsi. Gli infermieri si nascondevano e i medici
minacciavano di lasciare l’ospedale.
Murray ricorda di essere stata l’unica ad avere il coraggio di occuparsi
del paziente, pur limitandosi a cure palliative a causa dello stato avanzato
del tumore che l’aveva colpito. La conferma che l’uomo non aveva contratto
l’ebola arrivò un’ora prima della sua morte. Tre giorni dopo l’Organizzazione
mondiale della sanità dichiarò conclusa l’epidemia di ebola.
“Dobbiamo essere pronti a combattere la paura e l’ignoranza con lo stesso
impegno con cui combattiamo il virus”, ha scritto Murray, “altrimenti la paura
infliggerà danni enormi alle persone più vulnerabili, anche in luoghi dove non
viene registrato nemmeno un caso di contagio. Un’epidemia della paura può avere
conseguenze terrificanti, soprattutto se abbinata a problematiche legate alla
razza, al privilegio e alla lingua”.
Negli ultimi duemila anni l’umanità è stata colpita ripetutamente dalla
peste, una malattia che ha provocato la morte di milioni di persone e alterato
il corso della storia. Ogni epidemia di peste ha immancabilmente creato una
paura maggiore rispetto alla precedente.
Tre ondate di peste
La peste bubbonica, soprannominata “morte
nera”, è causata dall’Yersinia pestis, un batterio che si
trova nelle pulci dei roditori, ma può essere trasmesso anche da persona a
persona attraverso le goccioline respiratorie, e dunque non può essere
eradicata semplicemente uccidendo i ratti.
Mary Fissel, storica dell’università Johns Hopkins, ricorda che nella
storia dell’umanità si sono verificate tre grandi ondate di peste: la peste di
Giustiniano nel sesto secolo, l’epidemia medievale nel quattordicesimo secolo e
la pandemia a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.
La pandemia medievale cominciò nel 1331, in Cina. La malattia, insieme a
una guerra civile devastante, uccise metà della popolazione della Cina, per poi
viaggiare lungo le rotte commerciali verso l’Europa, il Nordafrica e il Medio
Oriente. Tra il 1347 e il 1351 la peste provocò la morte di un terzo della
popolazione europea. A Siena, in Italia, metà degli abitanti perse la vita.
“Non è possibile a lingua umana a contare la oribile cosa”, scrisse il
cronista del quattordicesimo secolo Agnolo di Tura, “che ben si può dire beato
a chi tanta oribilità non vidde. E morivano quasi di subito, e infiavano sotto
il ditello e l’anguinaia e favellando cadevano morti”. A Siena i cadaveri
venivano ammassati in fosse comuni.
A Firenze Boccaccio scrisse che “non altramenti si curava degli uomini che
morivano, che ora si curerebbe di capre”. Alcuni si nascondevano in casa,
mentre altri rifiutavano di riconoscere la minaccia e ritenevano che l’unica
soluzione fosse “il bere assai e il godere e l’andar cantando attorno e
sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse, e di ciò
che avveniva ridersi e beffarsi”. La pandemia alla fine si concluse, ma la
peste tornò a perseguitare il genere umano. Una delle epidemie peggiori esplose
in Cina nel 1855 e si diffuse in tutto il mondo, uccidendo più di dodici
milioni di persone solo in India. Le autorità sanitarie di Bombay bruciavano
interi quartieri nel tentativo di liberarsi della peste, “ma nessuno sapeva se
servisse davvero a qualcosa”, ricorda lo storico di Yale Frank Snowden.
Non è chiaro perché l’impatto della peste bubbonica si sia affievolito.
Alcuni esperti sostengono che le temperature più rigide potrebbero aver ucciso
le pulci portatrici della malattia. Ma questo aspetto, secondo Snowden, non
avrebbe influito sulla trasmissione respiratoria. In alternativa la causa
potrebbe essere un cambiamento nei ratti. Nel diciannovesimo secolo, infatti, i
vettori della peste non erano più i ratti neri, ma quelli grigi, più forti,
aggressivi e in grado di vivere lontano dagli esseri umani. “Di sicuro nessuno
li voleva come animali domestici”, scherza Snowden. Un’altra ipotesi è che il
batterio si sia evoluto diventando meno letale. O forse a smorzare gli effetti
della malattia sono state le azioni degli esseri umani, come la pratica di
incendiare i villaggi.
La peste, in ogni caso, non è mai scomparsa. Negli Stati Uniti la malattia
è endemica tra i cani della prateria, roditori che vivono nel sudovest, e può
essere trasmessa agli esseri umani. Snowden racconta che un suo amico è stato
contagiato durante un soggiorno in un albergo in New Mexico: l’ultimo ospite
della stanza in cui alloggiava aveva un cane le cui pulci avevano trasportato
il bacillo. Casi di questo tipo sono rari, e oggi la peste può essere curata
con gli antibiotici. Eppure qualsiasi notizia di un nuovo caso scatena il
panico.
Un’epidemia conclusa
Tra le malattie arrivate alla loro conclusione medica c’è il vaiolo, ma si
tratta di un caso eccezionale per diversi motivi. Innanzitutto esiste un
vaccino efficace che protegge l’individuo per tutta la vita. Inoltre il virus
che provoca la malattia, il Variola maior, non
ha un ospite animale, dunque la scomparsa del vaiolo tra gli esseri umani ha
debellato definitivamente la malattia. Infine i sintomi sono talmente specifici
da essere facilmente associabili al virus, facilitando quarantene efficaci e un
tracciamento dei contatti affidabile. In ogni caso quando il vaiolo era ancora
una minaccia, i suoi effetti sono stati devastanti. Le epidemie di vaiolo hanno
martoriato la popolazione umana per almeno tremila anni. Gli individui infetti
sviluppavano una febbre alta, poi eruzioni cutanee che si riempivano di pus e
provocavano cicatrici profonde una volta seccate. La malattia uccideva il 30
per cento delle persone infette, solitamente dopo immani sofferenze.
Nel 1633 un’epidemia di vaiolo tra i nativi americani “sconvolse tutte le
comunità indigene nel nordest e sicuramente agevolò l’insediamento degli
inglesi in Massachusetts”, spiega lo storico di Harvard David S. Jones. William
Bradford, leader della colonia di Plymouth, ci ha lasciato un resoconto degli
effetti del vaiolo sui nativi, raccontando che le pustole scoppiavano
“incollando” la pelle dei malati ai giacigli. “Quando il paziente viene
voltato, un intero lato del corpo è scorticato. Si copre di sangue, è uno
spettacolo spaventoso”. L’ultima persona a contrarre il vaiolo in modo naturale
è stato Ali Maow Maalin, cuoco di un ospedale in Somalia, nel 1977. Maalin
guarì, ma nel 2013 morì di malaria”.
Le influenze dimenticate
L’influenza del 1918 è proposta spesso come esempio dei danni inflitti da una
pandemia e dell’utilità della quarantena e del distanziamento sociale. Prima di
svanire, l’influenza uccise tra i cinquanta e i cento milioni di persone in
tutto il mondo. Il virus colpiva gli adulti giovani e di mezza età, lasciando
orfani i bambini e privando le famiglie del sostentamento, oltre a flagellare
le truppe inviate al fronte nel pieno della prima guerra mondiale. Nell’autunno
del 1918 lo stimato medico William Vaughan fu inviato a Camp Devens, nei pressi
di Boston, per occuparsi di un’influenza particolarmente dannosa. Vaughan vide
“centinaia di giovani con indosso l’uniforme del loro paese presentarsi nei
corridoi dell’ospedale in gruppi di dieci o più persone. Vengono adagiati sulle
brande fino a quando ogni posto disponibile è occupato, ma continuano ad
arrivarne altri. Presto il loro volto assume un colorito bluastro e sviluppano
una forte tosse con sangue nel catarro. La mattina i cadaveri vengono ammassati
nell’obitorio, impilati come ceppi di legno”. Secondo Vaughan il virus
dimostrava “l’inferiorità delle invenzioni umane rispetto alla natura nella
distruzione della vita umana”.
Dopo aver travolto l’intero pianeta, l’influenza perse vigore fino a
diventare una variante dell’influenza lieve che si ripresenta ogni anno. “Forse
quello fu un fuoco che si esaurì dopo aver arso tutta la legna facilmente
accessibile”, ipotizza Snowden. In quel caso ci fu anche una conclusione
sociale. La prima guerra mondiale era finita e le persone erano pronte per un
nuovo inizio e desiderose di lasciarsi alle spalle l’incubo della malattia e
del conflitto bellico. Fino a pochi mesi fa l’influenza del 1918 era solo un
ricordo sbiadito.
Da allora l’umanità ha vissuto altre pandemie d’influenza, spesso gravi
anche se mai paragonabili a quella del 1918. L’influenza di Hong Kong del 1968,
per esempio, provocò la morte di un milione di persone in tutto il mondo, tra
cui centomila negli Stati Uniti. In quel caso le vittime furono soprattutto
anziani. Oggi il virus circola ancora come influenza stagionale, ma quasi
nessuno ricorda più il suo impatto iniziale e la paura che ne conseguì.
Come finirà il covid-19?
Secondo gli storici è possibile che nel caso del covid-19 la conclusione
sociale della pandemia arrivi prima di quella medica. Le persone potrebbero
stancarsi delle restrizioni al punto da “dichiarare” conclusa la pandemia anche
se il virus dovesse continuare a colpire la popolazione e prima che siano
disponibili un vaccino a una cura.
“Penso che vada considerato l’aspetto dello sfinimento e della frustrazione
dal punto di vista della psicologia sociale”, sottolinea la storica di Yale
Naomi Rogers. “Potrebbe arrivare un momento in cui le persone diranno ‘ora
basta, merito di tornare alla mia vita normale’”.
In un certo senso sta già succedendo. I governatori di alcuni stati
americani hanno cancellato diverse restrizioni permettendo la riapertura di
saloni di bellezza e palestre, ignorando gli avvertimenti degli esperti
sanitari. Con il peggioramento delle condizioni economiche dovuto al virus, un
numero sempre maggiore di persone sentirà di averne abbastanza. “Sta emergendo
questo genere di conflitto”, conferma Rogers. Le autorità sanitarie puntano
alla conclusione medica, ma alcune persone hanno in mente soprattutto la
conclusione sociale. “Chi avrà il compito di dichiarare conclusa la pandemia?”,
si domanda Rogers. “Quando sosteniamo che ‘non è ancora finita’, cosa
intendiamo esattamente?”. Secondo Brandt non ci sarà nessuna vittoria
improvvisa. Definire la conclusione della pandemia attuale “sarà un processo
lungo e difficile”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul quotidiano statunitense The New York Times.