domenica 31 ottobre 2021

Il futuro della biodiversità agricola - Stefano Mori

 

 

Si è conclusa nei giorni scorsi la prima parte del vertice internazionale della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), la cosiddetta COP15. L’appuntamento, che ha visto il confronto tra 195 paesi, è fondamentale per condividere un sistema di regole e obiettivi che permetta di arrestare la perdita drammatica di biodiversità nel mondo.

Sebbene meno conosciuta della COP sul clima, la COP sulla biodiversità ha un’importanza almeno identica. Oggi infatti tre quarti dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente marino sono stati significativamente modificati dalle azioni umane, fatto che ha determinato un crollo del numero di specie animali e vegetali, così come un crollo della biodiversità coltivata.

Per porre rimedio a questa situazione, si stima che ogni anno saranno necessari più di 700 miliardi di dollari. Ma il punto è: dove andranno questi fondi? La preoccupazione dei movimenti sociali e di alcune ONG come Crocevia, è che verranno destinati a false soluzioni, aumentando la privatizzazione delle aree naturali ancora integre, cacciando le popolazioni indigene e le comunità locali dai luoghi che hanno accudito per decenni, utilizzando i “servizi ecosistemici” per farne moneta di scambio su mercati del carbonio dedicati.

Ciò che davvero sarebbe necessario, invece, è una inversione a U dal modello dell’agricoltura industriale, primo fattore di distruzione dell’ambiente e di riduzione della biodiversità. Ecco perché Crocevia segue e partecipa ai negoziati della Convenzione sulla Biodiversità in supporto alle reti e ai movimenti di piccoli produttori e Popoli Indigeni.

Vogliamo che il prossimo pacchetto di regole che i governi riuniti nella CBD concorderanno comprenda il riconoscimento dell’agroecologia contadina e del modo di vita indigeno come pratiche capaci di invertire la perdita di biodiversità, garantirne la vera conservazione dinamica e l’evoluzione.

 

L’importanza della biodiversità agricola

La biodiversità agricola sta scomparendo rapidamente, a causa del supporto incondizionato da parte della governance globale all’agricoltura intensiva: l’agricoltura e l’acquacoltura ormai ridotte a industrie appiattiscono la biodiversità agricola, creando un mondo di sementi, alberi, razze e specie acquatiche omogenei e spesso modificati geneticamente per includere tratti limitati, che sono utili al mercato ma non all’equilibrio degli ecosistemi. Si vengono a creare così agroecosistemi semplificati e pesantemente contaminati con biocidi e altri prodotti agrochimici.

Mentre la pandemia di COVID continua, dobbiamo ricordarci che i rischi di zoonosi sono sempre maggiori in ambienti con poca biodiversità e con presenza massiccia di allevamenti intensivi. L’espansione dell’agricoltura industriale in aree remote crea lo spazio perché patogeni rari possano accedere a ospiti vulnerabili, dando origine a nuovi e più virulenti ceppi di influenza e coronavirus come il COVID-19.

Dall’ascesa dell’agricoltura industriale, avvenuta con la rivoluzione verde, la biodiversità è stata considerata incompatibile con l’agricoltura. Purtroppo, la direzione non sembra cambiare.

Le Nazioni Unite, tramite la Convenzione per la Diversità Biologica (CBD), si sono poste nel 2010 ad Aichi, in Giappone, obiettivi sfidanti per porre fine entro il 2020 alla perdita di biodiversità nel mondo. Tuttavia, un decennio dopo, nessuno dei target che la comunità internazionale si era prefissata è stato raggiunto. Intanto continua da ormai 3 anni la discussione sul prossimo quadro di regole e obiettivi da darsi di qui al 2030.

I negoziati, in grave ritardo anche per causa della pandemia, dovrebbero portare ad approvare un nuovo piano ambizioso per la conservazione della biodiversità.

 

Un approccio sbagliato

Ma rimangono forti dubbi che questo nuovo tentativo riuscirà a raggiungere lo scopo: l’attuale lavoro verso il cosiddetto Global Biodiversity Framework post-2020, infatti, ha un approccio produttivista nella sua limitata attenzione all’agroecologia, e un approccio coloniale alla conservazione, proponendo di preservare più terra possibile dall’uso umano sostenibile, e violando così il diritto alla terra dei Popoli Indigeni, oltre a negare migliaia di anni di cura e co-produzione con la Natura.

La CBD non ha una forte storia di considerazione della biodiversità agricola. Nonostante sia ritenuta la “carta madre” di tanti altri accordi sull’uso sostenibile di risorse genetiche (come il Trattato per le Risorse Fitogenetiche – ITPGRFA), non riconosce nemmeno come gruppo di interesse nelle negoziazioni i produttori di cibo su piccola scala o i contadini, che sono titolari di tale riconoscimento secondo la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei contadini e di altre persone che lavorano nelle aree rurali (UNDROP). Forse perché la CBD è stata storicamente costituita dalla “comunità ambientalista”, sembra che abbia trascurato il ruolo storico e continuo dei piccoli proprietari terrieri nel mantenere la biodiversità sul 30% dei suoli mondiali, da cui proviene il 70% del nostro cibo.

Per cambiare radicalmente strada e cominciare a farlo con il nuovo quadro di regole, la CBD dovrebbe considerare la biodiversità agricola a livello genetico, di specie e di ecosistema, sopra e sottoterra e in tutte le acque del mondo.

E’ così infatti che viene intesa nella pratica dai sistemi ecologici in cui vivono e lavorano i produttori su piccola scala. Grazie al loro “lavoro nella natura” possono trovarvi nutrimento, indumenti  riparo e medicine per le famiglie e le comunità. La terra è coltivata per i suoi valori culturali e spirituali e fornisce resilienza ecologica ed economica.

 

Dalla parte giusta

Siamo ben lontani da questa prospettiva: la considerazione estrattivista della natura come bene infinito e gratuito, generatore di valore economico per le classi dirigenti è oggi dominante.

Occorre che i movimenti sociali, i piccoli produttori e le organizzazioni della società civile impegnate a fornire una diversa visione del mondo e della biodiversità lavorino insieme per cambiare una narrazione che sta distruggendo le basi stesse della nostra vita. Crocevia da oltre sessant’anni opera al fianco di contadini, pescatori, Popoli Indigeni e movimenti sociali per costruire questa trasformazione. Lo fa entrando nei negoziati internazionali, fornendo supporto e monitoraggio, mediazione ed expertise.

L’abbiamo fatto anche negli ultimi giorni, quando si è conclusa la prima parte della COP15 (la conferenza delle parti firmatarie della Convenzione sulla Biodiversità). Continueremo a farlo nel prossimo futuro, con molte sfide che ci attendono: il processo per l’adozione del quadro normativo per la biodiversità si concluderà infatti nel 2022, quando durante la seconda parte della COP15 le Parti negozieranno il testo finale, per poi adottarlo.

Saremo presenti anche a quell’appuntamento, perché è fondamentale che tutti riconoscano il ruolo unico dei piccoli produttori di cibo nella conservazione, gestione e uso sostenibile degli ecosistemi biodiversi. Non possiamo perdere altri dieci anni rincorrendo false soluzioni.


*Coordinatore delle attività del Centro Internazionale Crocevia


da qui

 

venerdì 29 ottobre 2021

Le ragioni del veganismo e le risposte dei fedeli al carnismo - Rita Ciatti

 

Quando i carnisti* si confrontano con i vegani, per difendere la loro posizione, danno vita ad una serie infinita di obiezioni, spesso davvero fantasiose. Le argomentazioni spaziano su diversi livelli e Rita Ciatti le divide in quattro macro-insiemi: quello dell’etica al ribasso; quello della nutrizione; quello della zoologia/etologia; quello dell’antropologia. Questo articolo affronta il primo, l’etica al ribasso.

 

La maggioranza ha sempre ragione?

Mettete una persona vegana in una stanza (anche virtuale, cioè l’account o la pagina di un social qualsiasi) insieme a carnisti convinti (l’aggettivo “convinti” potrebbe essere quasi pleonastico, dal momento che il carnismo*, come lo specismo in generale, è assimilabile a un atto di fede, cioè è l’adesione incondizionata a una credenza culturale basata su presupposti che oggi possono essere facilmente smontati e dimostrati come fallaci) e quasi inevitabilmente si scatenerà una rissa (metaforica, si spera). Il luogo comune vede la persona vegana pronta ad accusare, giudicare, aggredire tutte le altre; nella realtà accade quasi sempre il contrario: basta che si dichiari di non mangiare animali e derivati e subito si viene tempestati da obiezioni di vario tipo, volte sia a rassicurare e confermare la propria fede nel carnismo, sia ad attaccare e screditare il veganismo da più parti.

Il solo fatto di esporsi su un argomento così divisivo ci rende facilmente vulnerabili in quanto minoranza che mette in discussione credenze e idee radicate culturalmente (almeno per quanto riguarda il mangiare gli animali e derivati, pratica che comunque non esaurisce lo specismo), sostenute dalla maggioranza e che possono essere riassunte nella proposizione: mangiare “carne”, cioè animali, è normale, naturale, necessario.

Stanchi di rispondere sempre alle stesse obiezioni, a volte ci salviamo ricorrendo all’ironia e sarcasmo. I social pullulano di meme, post e persino account Instagram di attivisti che usano l’arma della comicità per prendere in giro i carnisti.

La semplice esistenza delle persone vegane (e spesso vegane da decenni) è la conferma che mangiare carne e derivati non è necessario ed è per questo che la sola nostra presenza in determinati contesti sociali può disturbare.

Le obiezioni possono essere riassunte in quattro macro-insiemi che contengono quattro fallacie logiche, cioè ragionamenti che sono illogici di per sé poiché partono da presupposti viziati, errati oppure semplicemente eludono il tema principale introducendone un altro apparentemente affine, ma concettualmente distante. Questi macro-insiemi sono: quello dell’etica al ribasso; quello della nutrizione; quello della zoologia/etologia; quello dell’antropologia.

 

Oggi affronteremo quello dell’etica al ribasso.

In questo insieme rientrano tutte quelle risposte/obiezioni che fanno appello all’impossibilità di adottare comportamenti etici al cento per cento, da cui il rifiuto di fare almeno quello che è nelle nostre possibilità fare e l’intento di screditare il veganismo assimilandolo a una sorta di pratica ascetica che non raggiunge i suoi obiettivi, come se l’obiettivo del veganismo non fosse quello di opporsi allo sterminio sistematico di miliardi di individui senzienti, ma di raggiungere l’immortalità di tutti i viventi (sì, sono ironica, ma quando ti dicono “Anche i vegani ogni volta che respirano possono uccidere un moscerino e poi anche l’insalata soffre” forse è proprio questo che pensano); e anche quelle obiezioni che confondono il tema dell’antispecismo con quello dell’ecologismo e dei diritti umani.

Un pomodoro, un telefonino, una mucca: trova le differenze.

Qualche esempio: “Anche i pomodori implicano sfruttamento perché vengono raccolti da persone sfruttate economicamente”; “Anche il telefonino o pc dal quale stai scrivendo comporta sfruttamento”.

In sé queste proposizioni sono vere. Spesso la frutta e verdura che compriamo è stata raccolta da operai sfruttati. Per produrre telefonini e PC vengono sfruttate persone, talvolta bambini.

Ma, uno, non abbiamo realmente la certezza che sia sempre così (almeno nel caso della frutta e verdura) e abbiamo comunque la possibilità di informarci sulla provenienza, evitando magari i prodotti che provengono da zone che sappiamo essere controllate dalla mafia o camorra e prediligendo quelli a Km. 0 che vendono nei mercati cittadini; due, si sta mettendo sullo stesso piano ontologico un animale con un pomodoro o un animale con un telefonino, dimenticando che lo sfruttamento delle persone che raccolgono la frutta o che sono impiegate nella produzione di alcuni prodotti è semmai un argomento indiretto rispetto allo sfruttamento e uccisione degli animali. Peraltro non è che gli addetti ai mattatoi o gli operai impiegati negli allevamenti siano trattati meglio e anzi, in alcune regioni, tipo la Campania, spesso gli allevamenti di bufale per produrre la nota mozzarella di bufala sono controllati dalla Camorra, quindi, a parità di sfruttamento indiretto di chi lavora per raccogliere pomodori, telefonini o “carne” e derivati animali, almeno scegliendo prodotti vegetali non siamo complici dello sterminio di altri esseri senzienti, che poi è questo il motivo per cui si diventa vegani, non altri (altrimenti non dovremmo parlare di veganismo, ma di alimentazione vegetale).

In tutti e tre i casi citati come esempio abbiamo più attori: animale ucciso, allevatore, macellaio e consumatore; frutto raccolto (poniamo sia il pomodoro), agricoltore, raccoglitore, consumatore; prodotto lavorato, operaio, consumatore.

Quindi, se a livello di sfruttamento degli attori umani che lavorano il “prodotto” in alcuni casi possiamo porci su un piano di presunta parità, quello che cambia enormemente è la natura ontologica del “prodotto”. In un caso è un frutto della terra, un pomodoro; in un altro ancora è un mero oggetto; nell’altro è invece un essere senziente, un individuo che viene considerato al pari di una merce, che viene ucciso per essere trasformato in prodotto, ma che non è un prodotto, non è un oggetto, non è una macchina per produrre qualcosa. Eludere questa differenza fondamentale significa ragionare in modo illogico e fallace.

Quindi, al netto delle problematiche etiche indirette che possono esserci nella produzione di ortaggi/verdure/frutta è comunque sempre più etico scegliere i prodotti vegetali anziché quelli che comportano l’uccisione di individui senzienti.

Un pomodoro non viene privato della sua esistenza ed esperienza nel mondo. Un telefonino è un oggetto, una cosa. Una mucca, un maiale, un pollo, un pesce, una gallina, un tacchino, una bufala ecc. invece sono esseri senzienti che vengono allevati per essere trasformati in prodotti.

La fallacia logica è nel considerarli già prodotti da consumare: al pari di un pomodoro, una carota o un PC.

E no, non si è consumatori consapevoli se si dichiara di conoscere la provenienza degli animali allevati e uccisi, a meno che per consapevole non si intenda: sì, sono consapevole di prender parte di un sistema che schiavizza e stermina esseri senziente, quindi di essere complice di un sistema di dominio e violenza.

 

E allora i batteri?

Rientrano nell’etica al ribasso anche tutte le scuse inerenti l’impossibilità di evitare l’uccisione di animali molto piccoli: “Quando vai in macchina schiacci insetti sul parabrezza, quando cammini uccidi le formiche, non puoi evitare di investire un gatto e ucciderlo”.

Anche questa proposizione è vera, ma non possiamo usarla come scusa in quanto c’è differenza tra un’azione intenzionale e un’azione involontaria.

Ovviamente se parlassimo di esseri umani non useremmo mai questa scusa per giustificare l’omicidio.

Pur non potendo evitare di ferire, investire con l’auto, far del male a qualcuno involontariamente; di certo non useremmo un incidente come scusa per promuovere campi di concentramento umani (semmai se ne usano altre e storicamente spesso prima di arrivare a compiere atrocità su altre etnie si è sempre ricorso alla loro riduzione all’animalità in quanto insieme ontologico negativo e degradato per eccellenza proprio per innalzare l’umano e alcune tipologie di umano in particolare a seconda dei periodi storici e del paese in cui si vive).

Siamo animali molto grandi e possiamo uccidere involontariamente insetti o altri piccoli animali nel solo atto di muoverci e uscire di casa; ciò non deve esimerci però dall’evitare la violenza intenzionale. Possiamo uccidere parassiti o batteri (i batteri non credo siano senzienti, come non lo sono i virus) per sopravvivenza, ma si tratta appunto di una forma di legittima difesa e non è di questo che si occupano il veganismo e l’antispecismo.

Il pescatore thailandese è più vegano del vegano occidentale? No.

L’altra fallacia logica invece tiene in considerazione l’impatto ambientale e anche in questo caso si mettono sullo stesso piano i prodotti vegetali e gli animali. Il parametro usato è quello dell’impatto, dimenticando la natura senziente degli animali e la loro soggettività.

Forse è vero che a livello di impatto ambientale un pescatore della Thailandia inquina meno di una persona vegana che consuma prodotti industriali in occidente, ma ancora si stanno mettendo sullo stesso piano due entità molto diverse. Il pescatore e il consumatore occidentale vegano sono entrambe due persone umane, ma il primo uccide un ulteriore individuo, il secondo no.

Un prodotto vegetale, per quanto comporti sfruttamento umano, consumo idrico, dei territori ecc., almeno non contempla l’uccisione di un ulteriore individuo senziente. Lo ripeto: il veganismo è l’opposizione allo sterminio sistematico degli animali e va di pari passo con l’antispecismo. Altrimenti non possiamo parlare di veganismo, ma di alimentazione vegetale per altri fini.

E comunque sia, produrre vegetali è sempre conveniente in termini di: risparmio idrico, consumo dei territori, inquinamento ambientale e persino sfruttamento umano perché raccogliere un pomodoro, per quanto possa essere faticoso, è quanto meno un’attività che non comporta violenza diretta su altri individui. Di fatto i consumatori carnisti delegano ad altri ciò che essi stessi farebbero malvolentieri: cioè uccidere, spellare, sezionare, tagliare, trinciare individui senzienti.

 

Consumare vegetali è più etico

Consumare animali e consumare vegetali sono due pratiche che non potranno mai essere messe sullo stesso piano etico, nemmeno al netto del miglioramento della loro produzione.

Anche l’allevatore più attento, il pescatore più ecologista che ci sia e il consumatore più consapevole sono comunque colpevoli o mandanti di aver tolto la vita a esseri senzienti. La pratica di allevare, schiavizzare, usare, trasformare in prodotti gli altri animali è una pratica di violenza. Per quanto normalizzata, normata da leggi assurde, naturalizzata, alla fine si riduce sempre comunque all’atto pratico definitivo e irreversibile di sgozzare esseri senzienti.

Questi ragionamenti di etica al ribasso vengono sempre adottati quando si parla degli altri animali a causa, ovviamente, dello specismo.

Infatti non diremmo mai a una persona che fa volontariato per i bambini orfani “Anche il pc da cui stai scrivendo probabilmente ha reso qualche bambino orfano”, o a chi fa volontariato per i diritti umani in qualche paese del mondo assediato dalla guerra “L’aereo con cui vai in quel paese ha sterminato un miliardo di insetti”.

Il veganismo non può essere disgiunto dall’antispecismo, altrimenti viene svuotato di ogni significato e diventa una dieta tra le tante. Gli altri animali devono restare soggetti centrali, altrimenti il campo delle argomentazioni indirette mostra il fianco ad obiezioni di vario tipo, ugualmente smontabili, ma che aggiungono confusione alla già scarsa conoscenza dell’argomento.

 

Rita Ciatti
Progetto Vivere Vegan


*Il termine carnismo è stato coniato dalla psicologa statunitense Melanie Joy nel libro “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche?” pubblicato da Sonda.

 

https://www.viverevegan.org/le-ragioni-del-veganismo-e-le-risposte-dei-fedeli-al-carnismo

giovedì 28 ottobre 2021

Siamo in piena crisi idrica - Alberto Castagnola

 

La terza parte dell’AR6, il rapporto presentato alla COP 26, nella sua forma di sintesi per i decisori politici, offre un’ampia gamma di previsioni concernenti i principali fenomeni climatici, influenzati dal riscaldamento globale, nei loro andamenti recenti e previsti.

Il testo sottolinea infatti che sono numerosi i cambiamenti indotti dal caldo crescente, in particolare l‘aumento della frequenza e dell’intensità degli “eventi estremi”, delle ondate di calore marine, delle forti precipitazioni nella siccità agricola ed ecologica in alcune regioni, nelle caratteristiche dei ciccloni tropicali più intensi, nella crescente riduzione del ghiaccio marino artico, della copertura  nevosa di montagne e pianure, e del continuo scioglimento del permafrost.

Le indicazioni che seguono sono molto importanti e dovrebbero essere verificate continuamente nei prossimi mesi e anni,  poichè definiscono un quadro scientifico indiscutibile e che non permette illusioni.

E’ certo che la superficie terrestre continuerà a riscaldarsi più di quella oceanica, almeno di 1,4-1,7 volte di più, e che l’Artico continuerà a riscaldarsi a una velocità due volte superiore a quella della temperatura superficiale globale. Ad ogni ulteriore incremento del riscaldamento globale, i cambiamenti negli eventi estremi continueranno ad aumentare.

Ad esempio, ogni 0,5 grado centigrado in più di riscaldamento globale provoca diversi effetti: aumenti chiaramente percepibili dell’intensità e della frequenza degli eventi estremi dovuti al caldo, ivi comprese le ondate di calore e le forti precipitazioni, nonché la siccità dei terreni agricoli e le condizioni ecologiche generali, specie in alcune regioni ormai chiaramente individuate.

Inoltre alcuni eventi estremi avranno aumenti senza precedenti causati da da un ulteriore riscaldamento globale anche dopo aver raggiunto la temperatura di 1,5 C rispetto al periodo preindustriale.

Quest’ultima notazione è molto rilevante perchè elimina molte delle illusioni in circolazione concernenti i limiti invalicabili degli obiettivi climatici medi globali in discussione in molte sedi e introduce un elemento di realismo assolutamente non trascurabile a livello politico.

A livello territoriale il rapporto prevede che alcune regioni alle latitudini intermedie e semi aride e la vasta regione sudamericana dei monsoni vedranno il più alto aumento della temperatura media dei giorni più caldi, quelli che hanno un tasso di riscaldamento che è 1,5-2 volte più alto della media globale.

L’Artico invece sperimenterà il più alto aumento della temperatura media dei giorni più freddi, pari a circa tre volte il tasso di riscaldamento globale.

 

Inoltre, è molto probabile che in presenza di un ulteriore aumento del riscaldamento globale, si intensifichino gli aventi di forte precipitazione acquea e soprattutto diventino più frequenti nella maggior parte delle regioni. Su scala globale, si prevede che gli eventi estremi di precipitazione di pioggia giornaliera si intensificheranno di circe il 7% per ogni grado centigrado di riscaldamento globale. La proporzione  di cicloni tropicali intensi (categorie 4 e 5 ) e la velocità del vento di picco dei cicloni più intensi aumenteranno su scala globale.

Il recente ciclone Ida che ha colpito dai Caraibi fino a New York con venti iniziali a 240 chilometri orari è l’ennesima conferma di questa previsione.

Infine si prevede che un ulteriore riscaldamento globale amplifichi ancora di più lo scioglimento del permafrost, la perdita della copertura nevosa stagionale, del ghiaccio terrestre e del ghiaccio marino artico. E’ anche probabile che l’Artico sarà praticamente privo di ghiaccio marino a settembre almeno una volta prima del 2050, con occorrenze più frequenti per livelli di riscaldamento più elevati. In realtà, i risultati di studi apparsi negli ultimi mesi, cioè quando il rapporto era già stato diffuso, forniscono numerosi dati di supporto a queste previsioni, accompagnati da ipotesi di ulteriori accelerazioni di questi effetti.

Analoghe considerazioni vengono svolte nel Rapporto riguardo all’acqua, poichè si prevede che il continuo riscaldamento globale intensifichi ulteriormente il ciclo dell’acqua a livello planetario, ivi comprese la sua variabilità nel tempo, le precipitazioni monsoniche e la gravità degli eventi di precipitazione delle piogge  e di aumento del grado di siccità.

In particolare, il ciclo globale dell’acqua continueràa intensificarsi con l’aumento della temperatura globale, le precipitazioni e i flussi di acqua superficiali dovrebbero diventare più variabili nella maggior parte delle regioni terrestri, sia a scala stagionale che di anno in anno. Si prevede che le temperature terrestri medie aumenteranno dello 0-5% nello scenario di emissioni di gas serra molto basse (SSP 1-1,9) e dell’!-13% nello scenario di emissioni molto alte (SSP 5-8,5) entro il 2081-2100 rispetto al 1995-2014.  A tale proposito si potrebbe notare  che il periodo scelto per il confronto nel passato è in realtà piuttosto vicino, mentre le precipitazioni in aumento sono proiettate verso l’ultimo ventennio del secolo. Sembra quasi che il fenomeno sia stato “appiattito” nelle sue dinamiche, mentre le esperienze della scorsa estate – in particolare quanto avvenuto in Germania, inatteso e molto rapido – farebbero piuttosto pensare a fenomeni in via di accelerazione.

Si prevede che le precipitazioni aumenteranno alle alte latitudini, nel Pacifico equatoriale  e in alcune regioni monsoniche, ma diminuiranno in alcune regioni subtropicali e in aree limitate dei tropici.

In realtà nei mesi scorsi tempeste improvvise e molto violente hanno investito molte più regioni, anche distanti tra loro, e ciò farebbe pensare a dei nuovi fenomeni tra loro collegati anche su grandi distanze (ad esempio che hanno origine nell’indebolimento della Corrente del Golfo ma si verificano in Europa o nel nord degli Stati Uniti)

Inoltre un clima più caldo intensificherà gli eventi meteorologici e climatici molto umidi o molto secchi, con implicazioni per inondazioni o siccità, ma la localizzazione e la frequenza di questi eventi dipendono dai cambiamenti nella circolazione atmosferica regionale.

 

Infine si prevede che le precipitazioni monsoniche aumentino nel medio-lungo termine su scala globale, in particolare nell’Asia meridionale e sudorientale, nell’Asia orientale, e nell’Africa occidentale, tranne che nell’estremo ovest del Sahel.

Per quanto riguarda gli scenari per il futuro in cui aumentano le emissioni di anidride carbonica, si prevede che i serbatoi di carbonio oceanici e terrestri saranno meno efficaci nel rallentare l’accumulo della CO2 in atmosfera. Più in dettaglio, sulla base delle proiezioni contenuti nei modelli, nello scenario intermedio che stabilizza le concentrazioni atmosferiche dell’anidride carbonica in questo secolo (SSP 2-4,5) i tassi di CO2 assorbiti dalla terra e dagli oceani dovrebbero diminuire nella seconda metà del 21° secolo .

Negli scenari di emissioni di gas serra bassi e molto bassi ((SSP 1-2,6 e SSP 1-1,9), la terra e gli oceani iniziano ad assorbire meno carbonio in risposta al calo delle concentrazioni atmosferiche di anidride carbonica,  nello scenario più basso, diventano una debole fonte netta di emissioni entro la fine del secolo.

Sembra importante dedurre, pur nel rispetto delle metodologie adottate dagli scienziati dell’IPCC,  che sia  in relazione alla scadenza trentennale della metà del secolo, sia nella successiva metà, l’inizio delle riduzioni delle emissioni dannose e l’avvio della diminuzione della concentrazione di sostanze dannose nell’atmosfera sono sempre spostati molto avanti nel tempo.

E’ evidente che gli scienziati sono piuttosto realistici per quanto riguarda i momenti di eventuali scelte radicali delle imprese produttrici di carburanti fossili. Inoltre tengono anche presente i tempi di salita dei gas serra nell’atmosfera (stimati intorno ai dieci anni). In altre parole, è noto che passa un lungo periodo di tempo prima che eventuali drastiche decisioni sui fossili, facciano veramente  effetto sul riscaldamento climatico. Resta da vedere se questo realismo a livello scientifico in realtà non contribuisca a ritardare le nessarie decisioni dei governi (e infatti finora solo un paio di governi di piccoli Stati hanno cominciato ad assumere decisioni che vadano nella direzione ormai inderogabile.

E in effetti – e in aggiunta – il testo ricorda che l’ampiezza delle correlazioni (dei feedback) tra i cambiamenti climatici e il ciclo del carbonio diventa più grande ma anche più incerta negli scenari ad alte emissioni di anidride carbonica. Ulteriori risposte degli ecosistemi al riscaldamento non ancora completamente riflesse nei modelli climatici finora utilizzati ( ad esempio i flussi di anidride carbonica e di metano provenienti dalle zone paludose, la velocità di disgelo del permafrost e gli incendi in fase di moltiplicazione), potrebbero  aumentare ulteriormente la concentrazione di questi gas in atmosfera.

Qualche lettura selezionata può contribuire ad una comprensione più profonda di tutti questi fenomeni:

Luca Mercalli, Che tempo che farà, breve storia del clima con uno sguardo al futuro.  Rizzoli, Milano, 2009

Jeremy Leggett, Fine corsa, sopravviverà la specie umana alla fine del petrolio? Einaudi, Torino, 2005

da qui

mercoledì 27 ottobre 2021

Come vincere la dipendenza dal telefono - Arthur C. Brooks

 

Ormai quasi tutti sanno che si può sviluppare una dipendenza dai dispositivi digitali. Per dirla con le parole di Anna Lembke, psichiatra e specialista delle dipendenze di Stanford, “ognuno di noi ha una droga digitale preferita, e probabilmente questa droga prevede l’uso di un telefono, l’equivalente dell’ago ipodermico per una generazione connessa”.

I dati suggeriscono che la tesi di Lembke non sia un’iperbole. Per esempio gli utenti dei telefoni trascorrono in media al massimo appena due ore senza usare il dispositivo, lo sbloccano almeno cinquanta volte al giorno e toccano lo schermo fino a 2.617 volte al giorno. I giovani sono particolarmente colpiti. Un rapporto del 2018 del Pew research center indica che il 44 per cento degli adolescenti ammette di controllare i propri dispositivi per leggere messaggi o notifiche immediatamente dopo il risveglio mattutino. Il 54 per cento dichiara di dedicare troppo tempo al telefono, mentre il 42 per cento prova una sensazione di ansia quando non può accedere al telefono. Molto probabilmente le persone che usano compulsivamente Facebook, Instagram o WhatsApp hanno provato la stessa sensazione di recente, quando le tre applicazioni sono sparite da internet per qualche ora.

La dipendenza dai dispositivi digitali non è innocua: viene associata alla depressione e all’ansia, e colpisce in modo sproporzionato le persone sole. Secondo la società per la ricerca tecnologica CompareCamp, il 26 per cento degli incidenti automobilistici che si verificano oggi negli Stati Uniti è dovuto all’uso del telefono mentre si guida.

 

Un uso moderato
Questi problemi sono evidenti quasi a tutti. Molto meno chiare sono le soluzioni. Alcuni esperti propongono di imporre una tassazione per ridurre l’uso eccessivo di dispositivi digitali, un approccio simile a quello adottato per ridurre il consumo di tabacco. Altri sostengono che l’unico modo per superare una dipendenza sia smettere all’improvviso e liberarsi del tutto dei dispositivi digitali.

Ma in un mondo dominato dai pagamenti elettronici, dai documenti digitali e dal lavoro in remoto, uno stile di vita senza telefono diventa sempre meno pratico. Un approccio migliore (e per molti più plausibile) è quello di gestire il comportamento dipendente moderando l’uso. Non si tratta solo di fissare un limite al tempo trascorso davanti uno schermo (che può essere facilmente superato) ma di sviluppare abitudini precise e concrete per sostituirne altre, poco salutari, che ci tengono incollati al telefono.

In alcuni casi può essere pericoloso ricercare la quantità “giusta” di sostanze che danno dipendenza, e il livello ottimale resta comunque zero. È ciò che è accaduto a me con le sigarette. Smettere è stata una delle imprese più difficili della mia vita. Per tre anni quasi ogni notte ho sognato di fumare. Ancora oggi sono attratto dall’odore di qualsiasi cosa che bruci, che sia incenso o una pila di copertoni.
Ma questo non è sempre il caso delle sostanze che danno dipendenza, soprattutto quando l’uso moderato può portare benefici. I carboidrati sono un esempio adatto. Molte ricerche indicano che alcune persone tendano a sviluppare una dipendenza da questi macronutrienti essenziali, perché gli effetti del consumo possono imitare la neurochimica delle droghe. Ma diversamente dalle droghe, la tattica corretta con i carboidrati non è quella di sbarazzarsene completamente, bensì di consumarli in modo più responsabile e in quantità ridotte.

Il punto, in questo caso, è capire se i servizi digitali sono più simili alle sigarette o ai carboidrati. Credo che la risposta corretta sia la seconda. Smettere da un momento all’altro, infatti, significherebbe subire conseguenze deleterie per chiunque abbia bisogno di gestire un conto in banca, comunicare con i propri cari, chiamare un taxi, lavorare da casa o eseguire un’infinità di attività quotidiane. Dunque l’approccio corretto è quello di individuare il giusto livello di utilizzo.

 

Quoziente di dipendenza
Uno studio recente condotto su duemila adulti statunitensi dai ricercatori di Microsoft, Stanford, New York University e del National bureau of economic research ci offre un piano d’azione. I ricercatori hanno stabilito che le persone usano i telefoni più di quanto vogliano o abbiano in programma di fare. Questa non è un grande sorpresa. Ma gli autori aggiungono un dato più interessante: analizzando la quantità di utilizzo che può essere attribuita ai problemi di autocontrollo (ovvero il tempo che i partecipanti hanno trascorso usando i dispositivi e che non avrebbero dedicato a questa attività se non fossero dipendenti) hanno stabilito che questa ammonta al 31 per cento.

Il quoziente di dipendenza può variare in base ai valori di ognuno, al livello di necessità di usare il telefono e probabilmente anche alla chimica del cervello del soggetto. Ma i risultati della ricerca forniscono una base importante da cui partire per fissare alcuni obiettivi personali. Se usiamo i social network più di quanto vogliamo, l’obiettivo di partenza potrebbe essere quello di ridurre di un terzo il tempo che vi dedichiamo.

Trovare l’obiettivo più adatto per ridurre l’uso eccessivo, però, è molto diverso dal farlo concretamente. Alcune persone provano con la psicoterapia, e gli psicologi hanno consigliato dei farmaci per affrontare le dipendenze come quella da internet. Ma per chi vuole adottare un approccio “fai da te”, ecco tre consigli che potrebbero risultare efficaci.

 

Prendetevi il vostro tempo per scrollare

Potrebbe sembrare controintuitivo, ma statemi a sentire. Buona parte del nostro uso eccessivo dei dispositivi lo facciamo senza pensarci. Uno studio del 2018 condotto su alcuni adulti australiani ha rilevato che l’86 per cento ammetteva di usare il telefono “automaticamente”. Sapete tutti cosa intendo: se abbiamo 15 secondi da trascorrere in ascensore o in attesa di un semaforo verde prendiamo subito il nostro telefono. Spesso non ci accorgiamo nemmeno di guardarlo. È un modo per ammazzare il tempo.

Il metodo migliore per contrastare lo scroll automatico è di prestarci attenzione. Fissate un arco di tempo ogni giorno oppure ogni settimana in cui guardare il telefono concentrandovi. Non fate nient’altro, concentratevi sul telefono per i minuti previsti, come se fosse un lavoro. In sostanza significa adattare le istruzioni del maestro buddista Thích Nhất Hạnh contenute in Il miracolo della presenza mentale: “Mentre si lavano i piatti bisognerebbe fare solo quello, lavare i piatti. Lavando i piatti bisognerebbe essere completamente consci del fatto che si stanno lavando i piatti”. Oltre a rendere una dipendenza più facile da superare (gli studi dimostrano che le pratiche di autoconsapevolezza sono molto utili nella cura delle dipendenze), un percorso di questo tipo potrebbe farci capire quanto in realtà sia noioso fissare un telefono.

 

Disattivare le notifiche

La maggior parte delle dipendenze è associata a un neurotrasmettitore chiamato dopamina. La dopamina governa il desiderio e aumenta quando riceviamo input esterni come la pubblicità o ci ricordiamo di fare qualcosa di piacevole, come fumare, scommettere o controllare il telefono. I telefoni manipolano la nostra dopamina, soprattutto attraverso suoni e avvisi che indicano la presenza di un messaggio o di una citazione. A quel punto dobbiamo per forza guardare il telefono per soddisfare la nostra curiosità.

La soluzione è semplice: se ne avete uno disattivate tutte le notifiche, tranne forse quelle di cui avete bisogno per lavoro. Mantenete attiva la suoneria per non perdervi la chiamata della mamma.

 

Separarsi fisicamente

Se cercate di mangiare in modo più salutare, molti nutrizionisti vi consiglieranno di non tenere cibo-spazzatura in casa. L’idea è che in questo caso un’alimentazione dannosa, una scelta che altrimenti fareste senza pensare, richiederebbe uno sforzo.

La stessa idea si applica al telefono. Riservate aree della vostra casa in cui il cellulare non dev’essere fisicamente vicino, come il tavolo da pranzo o la camera da letto. Personalmente metto in carica il mio telefono in cucina, la sera prima di andare a letto al piano di sopra. È un’abitudine che mi permette di non desiderare il telefono quando vado a dormire. Se mi sveglio durante la notte, inoltre, controllare il telefono richiede un grande sforzo, quindi non lo faccio.

Alcune persone si spingono oltre. Lo studioso di tecnologia digitale Cal Newport sostiene il metodo del “telefono all’ingresso”, che prevede di posarlo subito dopo essere entrati in casa e rimetterlo in tasca solo quando si esce. Se ha bisogno di controllarlo, Newport lo fa esclusivamente nell’ingresso.

La dipendenza è un fenomeno dannoso che ci priva della nostra libertà. Come scrisse il filosofo greco Epitteto nei suoi Discorsi, “nessuno può essere libero se non è il capo di se stesso”. La dipendenza è doppiamente dannosa quando i suoi effetti creano un profitto per altri, che siano le aziende del tabacco, gli inserzionisti pubblicitari sui social network o i produttori di telefoni.
Epitteto non parlava di soggiogamento digitale, ma è come se lo avesse fatto. Ci ha fornito la lezione più importante per la ricerca della libertà dal demone dello schermo: siate vivi, qui e adesso. “Abbandonate le evasioni, smettete di crearvi inutili problemi”, scrisse. “È arrivato il momento di vivere, di inserirvi attivamente nella situazione in cui vi trovate in questo momento”.

 

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito di The Atlantic.

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lunedì 25 ottobre 2021

5 pessimi consigli genitore-figlio – che probabilmente ti sono stati dati

(Dal blog https://angolopsicologia.com/)


I genitori educano e guidano i loro figli al meglio delle loro capacità. A volte, quando la situazione li travolge o si sentono disorientati, si rivolgono all’intuizione o usano la “saggezza popolare”, applicano ciò che credono essere corretto o che i loro stessi genitori hanno insegnato loro quando erano giovani.

Tuttavia, alcuni consigli dei genitori ai figli possono avere un effetto devastante sulla mente del bambino e, invece di liberare tutto il suo potenziale, finiscono per limitarlo. La voce dei genitori, infatti, può diventare una voce interiore che ci accompagna per tutta la vita.

Non c’è dubbio che la stragrande maggioranza dei genitori desidera che i propri figli abbiano successo nella vita, quindi cercano di trasmettere atteggiamenti e modi di fare che li aiutino a raggiungere quegli obiettivi. Ma avere successo non è una garanzia di felicità o benessere emotivo. Pertanto, molti consigli genitore-figlio che sono stati trasmessi da una generazione all’altra potrebbero trasformarsi in credenze controproducenti e limitanti.

I consigli dei genitori ai propri figli che sarebbe meglio riformulare

Suggerimento 1. Pensa al futuro. Concentrati sul premio.

Cosa dovremmo dirgli invece? Concentrati sul qui e ora.

Una mente costantemente focalizzata sul futuro – prima per ottenere buoni voti, poi per iscriversi a una buona università, e infine per trovare un lavoro adeguato – sarà più incline a maggiori quantità di stress e ansia. Sebbene ci siano diversi tipi di stress e una dose di eustress possa agire come agente motivante, lo stress cronico mantenuto nel tempo danneggia la nostra salute e le funzioni cognitive, influenzando le nostre prestazioni. Pertanto, insegnare ai bambini a concentrarsi sul futuro e su ciò che possono ottenere è una condanna allo stress permanente.

Infatti, concentrarsi esclusivamente sull’obiettivo significa vivere con i paraocchi. Guardare avanti ci impedisce di vedere le opportunità che abbiamo intorno e, soprattutto, riduce la nostra capacità di godere del qui e ora. Pertanto, i bambini potrebbero essere molto più felici se gli lasciamo fare ciò che è spontaneo per loro: concentrarsi sul presente e sfruttarlo al meglio. Il messaggio che devono capire è che non devono ipotecare la loro felicità oggi per un obiettivo futuro.

Suggerimento 2. Lo stress è inevitabile. Continua a sforzarti.

Cosa dovremmo dirgli invece? Impara a rilassarti.

I disturbi d’ansia vengono diagnosticati in età precoce perché i bambini sentono un’enorme pressione per essere all’altezza delle aspettative dei loro genitori e della società in generale. Non c’è dubbio che la vita arriva con una dose di tensione ed è importante che i bambini sviluppino un’adeguata tolleranza allo stress che permetta loro di affrontare le situazioni difficili, ma il messaggio che dobbiamo inviargli non è che si spingano al limite ma che imparino a rilassarsi prima di raggiungere il punto di rottura.

Non è vantaggioso vivere in uno stato di sovraccarico costante, con orari pieni che richiedono il consumo di stimolanti per poter sostenere un ritmo sovrumano mentre di notte si usano sedativi per riuscire ad addormentarsi. In effetti, non è un caso che uno studio condotto presso l’Università di Helsinki abbia rivelato che i bambini i cui genitori soffrono di sindrome di burnout hanno maggiori probabilità di soffrire un esaurimento a scuola. E anche perfezionismo e stress vengono trasmessi. Pertanto, il miglior regalo che i genitori possono fare ai propri figli è insegnare loro tecniche di rilassamento per bambini che consentano loro di evitare lo stress inutile.

Suggerimento 3. Aumenta i tuoi punti di forza. Cerca di non sbagliare.

Cosa dovremmo dirgli invece? Fai errori e impara a fallire.

I genitori, come la maggior parte delle persone, tendono ad attribuire etichette. Pertanto, non sorprende che finiscano per esagerare certe abilità dei loro figli mentre ne indeboliscono altre. Se notano che il figlio è particolarmente dotato in matematica o in uno sport, lo spingeranno a dedicarsi a questo. A prima vista, non c’è niente di male. Tuttavia, questo atteggiamento promuove la cosiddetta “mentalità fissa”, in modo che i bambini hanno meno probabilità di esplorare e scoprire cose nuove.

Quando un bambino riceve elogi per essere atletico o bravo in matematica, sarà meno probabile che esca dalla zona di comfort e, ad esempio, si senta ispirato a scrivere una poesia oa partecipare a una commedia. Questi bambini sono anche più frustrati quando qualcosa va storto e sono meno propensi a cercare nuove sfide perché preferiscono restare con ciò che conoscono, ciò in cui sono “bravi”.

Ecco perché è importante che i bambini imparino ad affrontare nuove sfide, commettano errori, si sforzino per sviluppare nuove abilità e, naturalmente, falliscano. Gli psicologi dell’Università dell’Illinois hanno scoperto che i bambini mostreranno un atteggiamento più ottimista e persino entusiasta nei confronti delle sfide se sanno che hanno solo bisogno di sforzarsi un poco di più o di riprovarci. Inoltre, avranno meno probabilità di sentirsi male con se stessi quando qualcosa non va secondo i piani.

Suggerimento 4. Non essere tenero con te stesso.

Cosa dovremmo dirgli invece? Trattati con compassione.

La maggior parte delle persone sono i peggiori critici e giudici di se stessi. Sebbene l’autocritica sia positiva per crescere e imparare dai nostri errori, quando è eccessiva può diventare paralizzante, facendoci sprofondare in un ciclo d’insoddisfazione, rimproveri e rimpianti in cui finiamo per pensare che non siamo abbastanza bravi o non valiamo nulla.

Sfortunatamente, molti genitori credono che il modo migliore per educare i propri figli sia renderli degli spartani. Quindi finiscono per essere eccessivamente critici e insegnano loro a trattarsi duramente. Ma un’eccessiva autocritica può tramutarsi in auto-sabotaggio minando la nostra autostima e generando una profonda paura di fallire.

Invece, un buon consiglio da genitori a figli è imparare a trattarsi con compassione, il che non significa dispiacersi per se stessi o chiudere gli occhi per le cose che sbagliamo, ma semplicemente trattarci come tratteremmo un amico nei momenti di fallimento o dolore. Significa essere capaci di amarci anche quando sbagliamo, trovare dentro di noi un luogo caldo e comodo in cui sentirci protetti.

Suggerimento 5. Non mostrare i tuoi sentimenti. Piangere è da deboli.

Cosa dovremmo dirgli invece? Impara a gestire i tuoi sentimenti.

La vita non è giusta. La maggior parte dei genitori lo sa e, a causa di quel forte senso di protezione, temono che gli altri danneggino i loro figli. È una paura comprensibile, ma insegnare loro a nascondere le proprie emozioni non li proteggerà. Al contrario. Emozioni come la tristezza agiscono da coadiuvante sociale incoraggiando gli altri ad avvicinarsi per offrire aiuto e sostegno.

Chiedere ai bambini di non piangere, di non essere delusi da un regalo che non gli piace, o costringerli a salutare con un bacio una persona con cui si sentono a disagio, significa disconnetterli gradualmente dalle loro emozioni. Questo non li aiuterà a gestirle meglio, ma faciliterà un processo di accumulo emotivo che finirà per generare una profonda insoddisfazione e metterà a dura prova i rapporti interpersonali.

Invece, dobbiamo insegnare ai bambini che le emozioni non sono nemici e non c’è niente di sbagliato nel sentirsi tristi, delusi, frustrati o addirittura arrabbiati. La cosa più importante è trovare la causa di quelle emozioni e imparare ad esprimerle in modo assertivo. In questo modo si potrà sviluppare l’intelligenza emotiva dei bambini perché diventino adulti più resistenti di fronte ai duri colpi della vita.

Fonti:

Salmena-Aro, K. et. Al. (2011) Parents’ work burnout and adolescents’ school burnout: Are they shared? European Journal of Developmental Psychology; 8(2): 215-227.

Dweck, C. S., & Leggett, E. L. (1988) A social-cognitive approach to motivation and personality. Psychological Review; 95(2): 256–273.

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domenica 24 ottobre 2021

Non piove da mesi, rischio desertificazione. Ma cosa ci importa, tanto siamo vaccinati! - Paolo Ermani

 

Il coronavirus e la campagna vaccinale sono l’unico argomento che contraddistingue oggi la nostra esistenza; tutto il resto che ha a che fare con la salute delle persone è completamente inesistente, scomparso. Eppure abbiamo fior fiore di “esperti” da salotto televisivo, task force, politici e ogni sorta di personaggi, tutti appassionatamente mobilitati per “tutelare la nostra salute” evento più unico che raro dato che mai c’era stata attenzione al tema. Però molto stranamente non vedo nessuno di questi soggetti annunciare la catastrofe sanitaria che è quella ambientale con dei dati certi che sono sotto gli occhi di tutti e non servono istituti di sanità o presunti tali, per averne le prove. Basti sapere o anzi verificare direttamente che in molte zone d’Italia non piove da mesi. Sarà questo un problema serio di salute?

Mi risulta scientificamente che senza acqua le persone avrebbero qualche problema di sopravvivenza ma immagino che sarò smentito dagli “esperti” da salotto televisivo che mi diranno che il vaccino farà piovere o che con lo stesso potremmo stare senza bere anche per mesi.

Mi risulta anche che l’acqua serva sia per dissetarsi (una persona senza acqua vive al massimo alcuni giorni) sia per la produzione di cibo che senza acqua non può essere prodotto. Il foraggio e ogni tipo di pianta ne necessitano e ovviamente gli animali non possono sopravvivere in mancanza di acqua, quindi come faremo a mangiare la nostra bistecchina e la nostra mozzarellina sulla pizza?

I soliti “esperti” da salotto televisivo ci rassicureranno che con la magica punturina non avremo né noi, né gli animali più bisogno di mangiare almeno per mesi, forse per anni.

L’acqua ci serve poi anche per l’igiene che è parente strettissima della salute. Ma anche in questo caso, come per qualsiasi argomento che non riguardi il coronavirus o i vaccini, si tratta di salute che non conta. Avremo sempre meno acqua e sempre meno acqua di buona qualità? Non importa, il solito vaccino penserà a tutto e si potrà stare senza lavarsi anche per anni, risolto il problema.

E meno piove e più quella poca acqua che rimane è inquinata e sappiamo bene che l’acqua inquinata fa tanti morti per cancri di vario tipo, ma sono morti di cui sulle agende dei “paladini” della salute non vi è traccia, quindi il problema non esiste.

Con meno acqua, e quindi conseguente siccità, aumenta il rischio di incendi ma non abbiamo visto i paladini della salute prodigarsi in piani di emergenza, dato che mezza Italia è andata a fuoco mentre loro si preoccupavano solo di green pass e roba varia.

Se chi parla di tutela della salute fosse minimamente credibile avrebbe già predisposto piani di emergenza per la terribile siccità che abbiamo da mesi, ma non c’è nessuna azione per risolvere questo drammatico problema. Avete sentito per caso politici o “tutelatori della salute” invocare all’unisono un piano di emergenza per ridurre tutti gli enormi sprechi idrici, a iniziare da quelli degli acquedotti che disperdono mediamente il 30% o 40% di acqua?

Avete sentito parlare di campagne a tappeto per l’installazione ovunque possibile di riduttori di flusso, compost toilet, impianti di fitodepurazione, sistemi di recupero dell’acqua piovana e orti autoirriganti?

Presumo che siano così informati e sinceramente interessati alla nostra salute che tutte queste cose non sappiano nemmeno cosa siano.

Quindi si continui a prendere in giro gli italiani dicendogli che l’unica cosa di cui si devono preoccupare è il coronavirus e il vaccino, poi quando sarà troppo tardi ci accorgeremo delle vere emergenze.

https://www.ilcambiamento.it/articoli/non-piove-da-mesi-rischio-desertificazione-ma-cosa-ci-importa-tanto-siamo-vaccinati

sabato 23 ottobre 2021

Acqua: In Valle di Susa si ripete la vicenda del Mugello


Pro Natura Piemonte, “Acqua: in Valle di Susa si ripete la vicenda del Mugello”

Condividiamo la lettera aperta di Pro Natura Piemonte, sul grave danno causato da Telt nel cunicolo geognostico di Chiomonte.

L’acqua è un bene primario e essenziale è tempo di smetterla con progetti che distruggono l’ambiente e le possibilità di sopravvivenza e vita per tutte e tutti.


Al presidente, alla Giunta e ai Consiglieri della Regione Piemonte
Ai sindaci dei Comuni della Valle di Susa
Agli organi di informazione

Acqua: in Valle di Susa si ripete la vicenda del Mugello

Coloro che seguono le vicende delle gallerie costruite per le linee ferroviarie Alta Velocità ricorderanno la situazione del Mugello, in Toscana, dove i lavori hanno causato il prosciugamento definitivo di torrenti e sorgenti.
Domenica 3 ottobre i quotidiani nazionali ci hanno informati che la galleria geognostica della Maddalena di Chiomonte era stata allagata per il mancato funzionamento delle pompe; i pompieri, chiamati per l’intervento, avevano risposto con una frase desolata ma lapidaria: “siamo attrezzati per svuotare case, non per svuotare tunnel”.

Al di là della interpretazione più o meno ironica dell’evento, resta il richiamo ad alcuni dati che ne sono emersi: la galleria geognostica della Maddalena, costruita per sondare la montagna dove dovrebbe passare il tunnel della Linea Alta Velocità Torino-Lione,
attualmente ha la necessita di pompare, giorno e notte, 60 litri d’acqua al secondo che poi alla fine si riversa nella Dora. Si tratta di 1 metro cubo ogni due minuti e mezzo, o, se vogliamo, il fabbisogno di acqua per un quartiere di 500 persone, comprese le perdite e gli altri usi di rete.

Può sembrare una cosa non gravissima, ma quella da cui proviene è solo una galleria unica, di 5 metri di diametro, circa la metà del diametro delle due gallerie di 57 chilometri che costituiranno il tunnel di base e che, a loro volta, saranno un terzo delle gallerie necessarie complessivamente alla Torino Lione, comprendendo le tratte di accesso, che complessivamente, sia per la parte francese che per quella italiana, saranno lunghe 50 chilometri.

Ma l’acqua di cui si parla adesso non proviene da tutti i sette chilometri e mezzo che costituirebbero la galleria della Maddalena: bisogna sottrarre i primi 1.400 metri, dai quali l’acqua esce per la pendenza della galleria stessa, e gli ultimi 500 metri che, a metà febbraio del 2017, un centinaio di metri dopo aver passato il settimo chilometro, LTF decise improvvisamente di non completare. Infatti LTF inviò una lettera al Ministero in cui si diceva che gli studi geognostici si dovevano ritenere completati.

L’acqua che viene rubata alla montagna è quindi quella di una piccolissima frazione delle opere legate al progetto generale. La perizia europea del 2007 richiesta dai sindaci e dai militanti No Tav, che esaminò i documenti in mano a LTF, concluse che il tunnel di base
avrebbe drenato da 60 a 125 milioni di metri cubi all’anno, corrispondenti al fabbisogno di una città da un milione di abitanti (Rapporto COVI/UE, pag 48).

Poiché queste acque verrebbero tutte dalla porzione di Alpi della Valle Susa, alla luce delle carenze attuali, con dei rifugi alpini che già adesso chiudono per mancanza di acqua, e con prospettive certamente più allarmanti per le zone di fondovalle, la difesa delle nostre acque e delle nostre sorgenti assume i caratteri di urgenza e questo incidente ce lo ricorda.

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venerdì 22 ottobre 2021

IL CONSUMO DI SUOLO È UN ABUSO ISTITUZIONALE IN BARBA ALLA COSTITUZIONE - Dante Schiavon

A cosa servono l’Ispra e i suoi pregevoli rapporti annuali, giunti alla ottava edizione, intitolati saggiamente e scientificamente: “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”? Antonio Cederna nel 1984 pubblicava sull’Espresso un articolo dal titolo “Mattone selvaggio” dove stigmatizzava quella che definiva una “distorsione mentale” secondo la quale nel diritto di proprietà è compreso il “diritto di edificare” (e, nell’epoca della catastrofe climatica in corso, il diritto di “tagliare gli alberi”) e il territorio un “res nullius”, una “cosa di nessuno”, come se il suolo naturale e agricolo fossero delle risorse rinnovabili infinite. Nel 1984 Antonio Cederna denunciava nel sud d’Italia un “abusivismo edilizio virale”, diffuso, un vettore elettoralistico-clientelare che faceva tabula rasa delle ricchezze paesaggistiche del bel paese, seguito a ruota dall’italico e incivile fatidico “condono edilizio”. La denuncia di Antonio Cederna risale a 37 anni fa e gli otto rapporti annuali dell’Ispra sul consumo di suolo purtroppo ci confermano che non è cambiato nulla nella cultura popolare e amministrativa del bel paese. Ma, forse, in peggio, qualcosa è cambiato nella prassi amministrativa del “governo del territorio”, attraverso una specie di metamorfosi antropologica e politica che ha partorito una sorta di “abusivismo edilizio istituzionale”. In cosa consiste questo “abusivismo edilizio 4.0”? Consiste nel “non legiferare” a livello nazionale uno stop a nuovo consumo di suolo, rinunciando così a cogliere le indicazioni tecnico-scientifiche-climatiche degli annuali rapporti dell’Ispra o nel “legiferare con leggi regionali ossimoro” sul consumo di suolo, vanificando i principi e gli obiettivi dell’azzeramento del consumo di suolo attraverso una mole impressionante di deroghe. L’Ispra ricorda agli amministratori pubblici che se la velocità di copertura artificiale rimane quella attuale di 2 mq al secondo si può stimare il nuovo consumo di suolo in 1.552 km2 tra il 2020 e il 2050 con una serie di danni trasversali, ecologici ed economici. Il rapporto Ispra 2021 stima come “dal 2012 al 2021 il suolo consumato non abbia potuto garantire la fornitura di 4 milioni e 155.000 quintali di prodotti agricoli, l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana (che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde e aggravano la pericolosità idraulica dei nostri territori), lo stoccaggio di quasi 3 milioni di tonnellate di carbonio”. Date le conseguenze ecologiche, climatiche, economiche, paesaggistiche, sanitarie, non è un “abuso istituzionale” di chi governa il territorio “non fermare” o “far finta di fermare il consumo di suolo”? Non è un “abuso istituzionale” aver consentito con leggi regionali e delibere regionali e comunali il consumo di 1037 ettari in aree vincolate per la tutela paesaggistica, 1284 ettari entro i 10 km dal mare, 767 ettari in aree a pericolosità idraulica media, 286 ettari in aree a pericolosità da frana, 1852 ettari in aree a pericolosità sismica (Ispra 2021). Non è una forma di “abusivismo delle istituzioni” perpetuare il processo di artificializzazione dell’ambiente privando i cittadini del “diritto collettivo” ai servizi ecosistemici del suolo naturale, essenziali per la vita biologica sul pianeta? E tale abuso praticato da amministratori, sia di destra, sia di sinistra, non si configura come una violazione della nostra Costituzione, agli articoli 9 (sulla tutela del paesaggio e dell’ambiente) e agli articoli 41 e 42 (sull’utilità sociale dell’iniziativa economica e sulla funzione sociale della proprietà privata)? Questa uniformità di pensiero che vede accomunata tutta la partitocrazia, sia di destra che di sinistra, si fonda su un concetto “consociativamente condiviso”: le attività economiche legate al consumo di suolo creano occupazione, consenso elettorale, visibilità. Non c’è il “coraggio morale e politico” di posare uno “sguardo” ed avere un “linguaggio” diversi sull’emergenza ambientale tutta italiana del consumo di suolo. Si assiste alla rimozione politica pluripartitica dei dati statistici sull’entità di infrastrutture stradali che determinano percentuali significative del consumo di suolo, o dei dati statistici dell’Istat che quantifica in 7 milioni gli immobili inutilizzati o sfitti, in 700.000 i capannoni dismessi, in 500.000 i negozi chiusi. Si rinuncia a priori, pigramente e codardamente, a cercare di creare occupazione, lavoro, benessere, attraverso la manutenzione di grandi e piccole infrastrutture, il restauro architettonico del costruito e in disuso, l’adattamento funzionale del costruito abitativo e infrastrutturale, la difesa idraulico-climatica, la forestazione urbana.

Le conseguenze ecologiche nefaste del consumo di suolo e delle risorse naturali, svincolato dal suo legame con la natura, con la terra, con il pianeta, con il clima, non vengono percepite dagli amministratori e, di conseguenza, dagli stessi cittadini. Assecondare gli interessi legati alla costruzione di grandi opere, strade, residenze, capannoni, centri commerciali, poli logistici, in un clima di conflitto d’interesse latente, sia nella sfera pubblica, sia nella sfera privata, con tutto il loro indotto economico e occupazionale, crea visibilità elettorale, contiguità e collateralità con mezzi di disinformazione servili e diventa un formidabile volano elettorale di consenso. Il consumo di suolo è diventato una “macchina industriale” di consenso elettorale. Il governo nazionale stanzia 1 miliardo per nuove infrastrutture in vista delle Olimpiadi Invernali del 2026 e la Regione Veneto ringrazia per un possibile aiutino alla costruzione della Spv, dopo aver dato la sacrilega disponibilità ad ospitare eventi “panem et circenses” sulle Dolomiti, Patrimonio dell’Umanità. Un “pensiero unico antropocentrico” e “climalterante” che si fa cultura, costume, non osservanza del limite ecologico, prassi amministrativa e urbanistica senza regole e accomodante, stili di vita consumistici di beni e risorse naturali, ricerca del benessere, delle comodità. Alla maggioranza dei cittadini veneti non interessano gli 800 ettari (per ora) di campagna veneta perduti per la costruzione della Spv perché sono dentro la bolla anestetizzante della narrazione leghista: sono più interessati e bramosi di poter percorrere a 130 km/h la Montecchio-Spresiano. 

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