Si è conclusa nei giorni scorsi la
prima parte del vertice internazionale della Convenzione sulla Diversità
Biologica (CBD), la cosiddetta COP15. L’appuntamento, che ha visto il confronto
tra 195 paesi, è fondamentale per condividere un sistema di regole e obiettivi
che permetta di arrestare la perdita drammatica di biodiversità nel mondo.
Sebbene meno conosciuta
della COP sul clima, la COP sulla biodiversità ha un’importanza almeno identica.
Oggi infatti tre quarti dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente
marino sono stati significativamente modificati dalle azioni umane, fatto che
ha determinato un crollo del numero di specie animali e vegetali, così come un
crollo della biodiversità coltivata.
Per porre rimedio a questa
situazione, si stima che ogni anno saranno necessari più di 700 miliardi di
dollari. Ma il punto è: dove andranno questi fondi? La preoccupazione dei
movimenti sociali e di alcune ONG come Crocevia, è che verranno
destinati a false soluzioni, aumentando la privatizzazione delle aree naturali
ancora integre, cacciando le popolazioni indigene e le comunità locali dai
luoghi che hanno accudito per decenni, utilizzando i “servizi ecosistemici” per
farne moneta di scambio su mercati del carbonio dedicati.
Ciò che davvero sarebbe necessario,
invece, è una inversione a U dal modello dell’agricoltura industriale, primo
fattore di distruzione dell’ambiente e di riduzione della biodiversità. Ecco
perché Crocevia segue e partecipa ai negoziati della Convenzione sulla
Biodiversità in supporto alle reti e ai movimenti di piccoli produttori e
Popoli Indigeni.
Vogliamo che il prossimo pacchetto
di regole che i governi riuniti nella CBD concorderanno comprenda il
riconoscimento dell’agroecologia contadina e del modo di vita indigeno come
pratiche capaci di invertire la perdita di biodiversità, garantirne la vera
conservazione dinamica e l’evoluzione.
L’importanza della
biodiversità agricola
La biodiversità agricola
sta scomparendo rapidamente, a causa del supporto incondizionato da parte della
governance globale all’agricoltura intensiva: l’agricoltura e l’acquacoltura
ormai ridotte a industrie appiattiscono la biodiversità agricola, creando un
mondo di sementi, alberi, razze e specie acquatiche omogenei e spesso
modificati geneticamente per includere tratti limitati, che sono utili al
mercato ma non all’equilibrio degli ecosistemi. Si vengono a creare così
agroecosistemi semplificati e pesantemente contaminati con biocidi e altri
prodotti agrochimici.
Mentre la pandemia di COVID
continua, dobbiamo ricordarci che i rischi di zoonosi sono sempre maggiori in
ambienti con poca biodiversità e con presenza massiccia di allevamenti
intensivi. L’espansione dell’agricoltura industriale in aree remote crea lo
spazio perché patogeni rari possano accedere a ospiti vulnerabili, dando
origine a nuovi e più virulenti ceppi di influenza e coronavirus come il
COVID-19.
Dall’ascesa
dell’agricoltura industriale, avvenuta con la rivoluzione verde, la biodiversità
è stata considerata incompatibile con l’agricoltura. Purtroppo, la direzione
non sembra cambiare.
Le Nazioni Unite, tramite la
Convenzione per la Diversità Biologica (CBD), si sono poste nel 2010 ad Aichi,
in Giappone, obiettivi sfidanti per porre fine entro il 2020 alla perdita di
biodiversità nel mondo. Tuttavia, un decennio dopo, nessuno dei target che la
comunità internazionale si era prefissata è stato raggiunto. Intanto continua
da ormai 3 anni la discussione sul prossimo quadro di regole e obiettivi da
darsi di qui al 2030.
I negoziati, in grave ritardo anche
per causa della pandemia, dovrebbero portare ad approvare un nuovo piano
ambizioso per la conservazione della biodiversità.
Un approccio sbagliato
Ma rimangono forti dubbi che questo
nuovo tentativo riuscirà a raggiungere lo scopo: l’attuale lavoro verso il
cosiddetto Global Biodiversity Framework post-2020, infatti, ha un
approccio produttivista nella sua limitata attenzione all’agroecologia, e un
approccio coloniale alla conservazione, proponendo di preservare più terra
possibile dall’uso umano sostenibile, e violando così il diritto alla terra dei
Popoli Indigeni, oltre a negare migliaia di anni di cura e co-produzione con la
Natura.
La CBD non ha una forte storia di
considerazione della biodiversità agricola. Nonostante sia ritenuta la “carta
madre” di tanti altri accordi sull’uso sostenibile di risorse genetiche (come
il Trattato per le Risorse Fitogenetiche – ITPGRFA), non riconosce nemmeno come
gruppo di interesse nelle negoziazioni i produttori di cibo su piccola scala o
i contadini, che sono titolari di tale riconoscimento secondo la Dichiarazione
delle Nazioni Unite sui diritti dei contadini e di altre persone che lavorano
nelle aree rurali (UNDROP). Forse perché la CBD è stata storicamente costituita
dalla “comunità ambientalista”, sembra che abbia trascurato il ruolo storico e
continuo dei piccoli proprietari terrieri nel mantenere la biodiversità sul 30%
dei suoli mondiali, da cui proviene il 70% del nostro cibo.
Per cambiare radicalmente
strada e cominciare a farlo con il nuovo quadro di regole, la CBD dovrebbe
considerare la biodiversità agricola a livello genetico, di specie e di
ecosistema, sopra e sottoterra e in tutte le acque del mondo.
E’ così infatti che viene intesa
nella pratica dai sistemi ecologici in cui vivono e lavorano i produttori su
piccola scala. Grazie al loro “lavoro nella natura” possono trovarvi
nutrimento, indumenti riparo e medicine per le famiglie e le comunità. La
terra è coltivata per i suoi valori culturali e spirituali e fornisce
resilienza ecologica ed economica.
Dalla parte giusta
Siamo ben lontani da questa
prospettiva: la considerazione estrattivista della natura come bene
infinito e gratuito, generatore di valore economico per le classi dirigenti è
oggi dominante.
Occorre che i movimenti sociali, i
piccoli produttori e le organizzazioni della società civile impegnate a fornire
una diversa visione del mondo e della biodiversità lavorino insieme per
cambiare una narrazione che sta distruggendo le basi stesse della nostra vita.
Crocevia da oltre sessant’anni opera al fianco di contadini, pescatori, Popoli
Indigeni e movimenti sociali per costruire questa trasformazione. Lo fa
entrando nei negoziati internazionali, fornendo supporto e monitoraggio, mediazione
ed expertise.
L’abbiamo fatto anche negli ultimi
giorni, quando si è conclusa la prima parte della COP15 (la
conferenza delle parti firmatarie della Convenzione sulla Biodiversità).
Continueremo a farlo nel prossimo futuro, con molte sfide che ci attendono: il
processo per l’adozione del quadro normativo per la biodiversità si concluderà
infatti nel 2022, quando durante la seconda parte della COP15 le Parti
negozieranno il testo finale, per poi adottarlo.
Saremo presenti anche a
quell’appuntamento, perché è fondamentale che tutti riconoscano il ruolo unico
dei piccoli produttori di cibo nella conservazione, gestione e uso sostenibile
degli ecosistemi biodiversi. Non possiamo perdere altri dieci anni rincorrendo
false soluzioni.
*Coordinatore delle attività del
Centro Internazionale Crocevia