venerdì 31 luglio 2015
mercoledì 29 luglio 2015
intervista a Vandana Shiva (di Piero Loi)
Ci può spiegare quali sono le relazioni tra queste crisi? E perché i più poveri sono anche i più colpiti?
I problemi che oggi ci troviamo ad affrontare sono intimamente collegati ad un’economia basata sul petrolio. E non ci sono solo le aree in cui il greggio viene estratto, come la zona del delta del Niger in cui mi trovavo fino a ieri. Sebbene quei territori siano tra i più compromessi, il punto è che l’intero mondo è dipendente dall’industria petrolifera. Inclusa l’agricoltura che utilizza pesticidi e fertilizzanti prodotti dal petrolio. Va da sè che gli effetti combinati dell’industria estrattiva, delle guerre che si combattono per le risorse naturali (e delle divisioni religiose alimentate ad hoc per accaparrarsele), delle emissioni legate alla combustione dei fossili e dell’utilizzo di prodotti e semi geneticamente modificati che impoveriscono il suolo coincidono con lo spopolamento e la desertificazione di intere aree geografiche. Le masse rurali finiscono per abbandonare le campagne, perché vengono private delle loro fonti di sostentamento e del loro stesso lavoro. E finiscono per riversarsi nelle città, dove le tensioni sociali si acuiscono.
Questa è ciò che lei definisce l’economia lineare. Si esce da questo stato di crisi con l’economia circolare. Di cosa si tratta?
L’economia circolare è un imperativo per evitare il disastro ecologico e il collasso sociale che da questo deriva. Questo modello economico è socialmente sostenibile perché si fonda su un intrinseco equilibrio: ciò che viene preso dalla natura ritorna ad essa (esattamente come avviene nel mondo vegetale, dove la C02 presente in atmosfera viene utilizzata per generare il glucosio, fondamentale per la vita delle piante, da cui viene poi liberato l’ossigeno). Tutto il contrario, insomma, delle emissioni o dei rifiuti generati dai fossili estratti dalla terra. Vale a dire che l’economia circolare non produce né inquinamento né rifiuti. Da un punto di vista sociale, l’economia lineare si basa sull’azzardo, non c’è ritorno perchè gli strati più poveri vengono prima sfruttati poi messi da parte: sono una vera e propria eccedenza generata da un sistema economico che non soddisfa i reali bisogni delle popolazioni. Anzi, distrugge lavoro per le ragioni che abbiamo visto prima e rende le persone dipendenti dal denaro e dallo sfruttamento. All’opposto, l’economia circolare mette al centro i reali bisogni delle persone, e per questo punta a ridurre il ruolo della finanza.
Se applicassimo questo ragionamento alla Sardegna, dovremmo imputare l’attuale disastrosa situazione socio-economica dell’isola alle industrie inaugurate tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60. Possibile?
Tutto il mondo oggi sta pagando il prezzo della falsa convinzione che l’industrializzazione significasse esclusivamente un’economia basata sul petrolio. D’altra parte, ogni società ha sempre prodotto il proprio cibo, si è dotata di beni materiali e mezzi di comunicazione. Anche dove non ci sono auto esistono sistemi di mobilità. Basare la modernità e la globalizzazione sull’utilizzo delle fonti fossili mette ogni economia locale all’interno di un sistema che finge di soddisfare i bisogni delle popolazioni. Ma questo è un mondo in cui c’è un enorme speco di energia con troppe persone che non possiedono forme di energia, troppo spreco di cibo e molte persone che non hanno cibo, spreco di acqua da parte di una minoranza e la maggioranza delle persone che ne è priva.
Con una sovrapproduzione energetica pari a circa il 50% del proprio fabbisogno, nuove centrali elettriche alle porte e tre poligoni militari tra i più grandi d’Europa, la Sardegna oggi appare come un hub energetico al confine sud dell’Europa e una grande portaerei al centro del Mediterraneo. Quale ruolo potrebbe invece giocare oggi la Sardegna in quest’area del globo attraversata dalla guerra?
Non solo il Mediterraneo, non solo l’Asia o l’Africa sono in guerra. Gli stati uniti sono forse una società pacificata? Solo pochi giorni fa è stata uccisa una giovane donna per motivi razziali, ogni giorno le città degli U.s.a bruciano. Questo perchè l’economia lineare basata sul petrolio è un’economia militarizzata che finisce per distruggere la democrazia. Ma ogni singolo individuo, ogni comunità e ogni paese può giocare un ruolo per interrompere questo processo. Da un lato quindi la guerra, dall’altro la pace. Pace con la terra, pace tra la gente, ottenuta con la lotta contro le discriminazioni, per la democrazia. E una scelta può compierla anche la Sardegna. Gandhi ha detto: “Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere”. Il cambiamento inizia quando ogni villaggio si pone dalla parte della terra, rifiutando il petrolio.
Oggi in nome delle energie rinnovabili si avvalla di tutto: grandi centrali a biomassa, land grabbing per l’agro-industria,impianti fotovoltaici di grossa taglia, tagli a raso di centinaia di ettari di foreste centenarie per l’industria del pellet. Questo è quanto accade in Sardegna e in numerose altre terre del mondo. A quali condizioni le fonti rinnovabili sono una parte della soluzione? E in quali altri casi non lo sono?
Da quando l’estrazione del petrolio ha raggiunto il suo picco massimo si parla di green economy, che non è un’economia circolare, visto che funziona così: “Bisogna prepararsi – si domandano i grandi trusts – alla fine del petrolio?”. Questa la risposta che si danno: “Ok, accaparriamoci le terre africane!”. In altri termini, omettono di dire che la vera soluzione al problema è consumare meno energia. Si tratta di un’evidenza: se continuiamo a sviluppare società ed economie energivore e finisce il petrolio, sfrutteremo dalle terre delle popolazioni povere per generare combustibile. A quanto vedo, anche in Sardegna si tenta questa falsa soluzione. Ma la transizione energetica non può passare esclusivamente attraverso un cambio di combustibile da fossile a rinnovabile, non funzionerebbe: bisogna, piuttosto, costruire economie locali senza petrolio in cui ogni utilizzo legittimo delle rinnovabili non replichi un’ estrazione centralizzata e di consumo massiccio di energia. Spazio, dunque, all’autoproduzione da fonti rinnovabili e alla generazione distribuita.
martedì 28 luglio 2015
Vandana Shiva in Sardegna
ISDE Italia e ISDE Sardegna, Associazioni Medici per l’Ambiente, organizzano con la collaborazione di Navdanya International per il 28 luglio 2015, il V° Workshop Nazionale sulla Salute Globale con "Sardegna Terra Viva/Sardigna Terra Bia”. L’evento si è svolto in Sardegna, presso il centro servizi del Nuraghe Losa, Abbasanta (Oristano) con la partecipazione di Vandana Shiva l'attivista e ambientalista indiana, leader dell'International Forum on Globalization,e Presidente Navdanya International.
Etichette:
ISDE,
Sardegna,
Vandana Shiva
era ora!
Svolta nelle abitudini alimentare degli italiani: per la
prima volta la spesa per frutta e verdura sorpassa quella della carne. Lo
rileva la Coldiretti in occasione della 'Festa della frutta e della verdura' a
Expo. L'associazione che riunisce gli agricoltori italiani parla di una
"rivoluzione epocale" per le tavole nazionali, che non era mai
avvenuta in questo secolo.
La spesa degli italiani per gli acquisti di frutta e verdura rappresenta il 23% del budget delle famiglie per il cibo, per un importo di 99,5 euro al mese, contro i 97 euro della carne (22%). L'analisi di Coldiretti si basa su dati Istat. "E' in atto a livello globale una tendenza al riconoscimento del valore alimentare della frutta e verdura alla quale dobbiamo saper dare una risposta concreta - ha sottolineato il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo -. L'Italia ha il primato europeo nella produzione che genera un fatturato di 13 miliardi, con 236.240 aziende che producono frutta, 121.521 che producono ortaggi, 79.589 patate e 35.426 legumi secchi".
Gli italiani non sono diventati solo più salutisti a tavola ma sono sempre più appassionati anche degli orti 'fai da te': si stima che siano quasi 20 milioni quelli che aspirano ad avere il pollice verde (indagine Coldiretti/Censis). Una passione che contagia soprattutto i più giovani. La passione crescente per frutta e verdura ha fatto nascere nuove figure professionali: dal "sommelier della frutta", allo scultore che crea opere d'arte con le verdure, al "personal trainer dell'orto".
Tutti hanno partecipato alla coloratissima festa sul Cardo, dove per l'occasione Coldiretti ha distribuito ai visitatori 50 quintali di frutta fresca. "Dobbiamo andare avanti valorizzando sempre più le nostre produzioni e lavorando sull'organizzazione della filiera - ha sottolineato il ministro per le Politiche agricole, Maurizio Martina - promuovendo qualità ed eccellenza e penso che Expo sia un'occasione anche per dimostrare ai 140 Paesi presenti la forza di questa produzione".
Il commissario unico di Expo, Giuseppe Sala, ha aperto la giornata di festa facendosi fotografare con le mascotte di Coldiretti vestite da frutta e verdura. Cuore della festa è stato il cluster Frutta e Legumi dove i Paesi hanno proposto cocktail e succhi di frutta particolari, come quello al mango e zafferano, o al baobab e all'ibisco. Qui Sala ha chiuso la Giornata: "Straordinaria partecipazione, grande successo" ha detto gustando un succo di frutta.(ANSA)
La spesa degli italiani per gli acquisti di frutta e verdura rappresenta il 23% del budget delle famiglie per il cibo, per un importo di 99,5 euro al mese, contro i 97 euro della carne (22%). L'analisi di Coldiretti si basa su dati Istat. "E' in atto a livello globale una tendenza al riconoscimento del valore alimentare della frutta e verdura alla quale dobbiamo saper dare una risposta concreta - ha sottolineato il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo -. L'Italia ha il primato europeo nella produzione che genera un fatturato di 13 miliardi, con 236.240 aziende che producono frutta, 121.521 che producono ortaggi, 79.589 patate e 35.426 legumi secchi".
Gli italiani non sono diventati solo più salutisti a tavola ma sono sempre più appassionati anche degli orti 'fai da te': si stima che siano quasi 20 milioni quelli che aspirano ad avere il pollice verde (indagine Coldiretti/Censis). Una passione che contagia soprattutto i più giovani. La passione crescente per frutta e verdura ha fatto nascere nuove figure professionali: dal "sommelier della frutta", allo scultore che crea opere d'arte con le verdure, al "personal trainer dell'orto".
Tutti hanno partecipato alla coloratissima festa sul Cardo, dove per l'occasione Coldiretti ha distribuito ai visitatori 50 quintali di frutta fresca. "Dobbiamo andare avanti valorizzando sempre più le nostre produzioni e lavorando sull'organizzazione della filiera - ha sottolineato il ministro per le Politiche agricole, Maurizio Martina - promuovendo qualità ed eccellenza e penso che Expo sia un'occasione anche per dimostrare ai 140 Paesi presenti la forza di questa produzione".
Il commissario unico di Expo, Giuseppe Sala, ha aperto la giornata di festa facendosi fotografare con le mascotte di Coldiretti vestite da frutta e verdura. Cuore della festa è stato il cluster Frutta e Legumi dove i Paesi hanno proposto cocktail e succhi di frutta particolari, come quello al mango e zafferano, o al baobab e all'ibisco. Qui Sala ha chiuso la Giornata: "Straordinaria partecipazione, grande successo" ha detto gustando un succo di frutta.(ANSA)
Etichette:
cibo,
economie,
vegetariani
lunedì 27 luglio 2015
Due proverbi rom sul pane
Se vi fosse pane sufficiente per tutti, le chiese e i tribunali andrebbero deserti.
Il pane può fare ciò che Iddio non vuole, e l’imperatore non riesce.
(dal prologo di Predrag Matvejević a Non chiamarmi zingaro, di Pino Petruzzelli)
domenica 26 luglio 2015
le belve umane
L'associazione Sea Shepherd ha denunciato l'arresto di tre attivisti (ed il fermo di altri due) durante le proteste alle isole Faroe dove si erano recati per difendere le balene pilota dal tradizionale massacro. Circa 250 mammiferi marini, secondo l'associazione, sarebbero stati crudelmente uccisi nelle due baie dove si è svolta la battuta di caccia. La pratica, illegale secondo la Comunità Europea e la Danimarca, è consentita nelle Isole Faroe dove è considerata una caccia tradizionale da tutelare.
Era
il 1974 quando il New York Blood Center strappò dal loro habitat naturale 66
cuccioli di scimpanzé per trapiantarli in un laboratorio sperduto nella giungla
liberiana, a 40 chilometri dalla capitale Monrovia. Per tre decenni gli
scimpanzé sono stati utilizzati come cavie per una ricerca sui vaccini di
malattie infettive mortali, come l'epatite e la "cecità fluviale"
(Oncocercosi). Nel 2005 il laboratorio medico ha sospeso la ricerca per
mancanza di finanziamenti e, nonostante avesse assicurato di prendersi cura
delle scimmie, ha pensato bene di abbandonare i 66 esemplari, ormai adulti e
infetti, in sei piccole isole a largo della Liberia, le cosiddette "Monkey
Island", con poco cibo e circondate da imbevibile acqua salata. Per gli
scimpanzé, cresciuti a contatto diretto con l'uomo, il ritorno alla natura è
stata un'ulteriore tortura, perché totalmente incapaci di difendersi e
procurarsi il cibo autonomamente. La società statunitense di protezione degli
animali Humane Society è al momento l'unica ancora di salvezza per questi
animali: ogni giorno i volontari portano cibo fresco e acqua, un lavoro che al
mese costa ben 20mila dollari. Così l'associazione ha aperto una campagna fondi
per raccogliere 150mila dollari, cifra che garantirebbe l'assistenza agli scimpanzé
per cinque mesi. In poco più di un mese la Human Society ha raccolto già
130mila dollari grazie alla sensibilità delle persone, quella sensibilità che
invece è mancata al New York Blood Center quando decise di sfruttare gli
animali prima di abbandonarli.
Etichette:
balene,
scimpanzé,
vita e morte
mercoledì 22 luglio 2015
Exxon Valdez, la strage lenta - Maria Rita D'Orsogna
Sono passati cinque anni dallo scoppio nel golfo del
Messico. Mi ricordo dove ero quel 20 aprile – era mattina ed ero a casa e mi
chiamò il mio amico Tom Chou, lo stesso con cui scrissi l’articolo
dell’idrogeno solforato, per dirmi di questo disastro in Louisiana.
In questi cinque anni, articoli di stampa, articoli scientifici, leggi,
decisioni di corti di vario livello, miliardi di dollari pagati e richiesti –
con l’ultimo pagamento di 18.7 miliardi che la BP dovrà versare al governo
federale per i danni causati e che vanno ad aggiungersi agli altri 30 già
pagati.
Dopo cinque anni delle tante cose che si possono dire, quella più vera è
che siamo solo all’inizio e che ci vorranno anni ed anni per arrivare ad
una qualche semblanza di normalità per chi ha perso salute, stile di vita e a
volte anche lavoro.
Una delle lezioni piu interessanti arrivano dall’incidente della Exxon Valdez, nel1989. Dopo neanche
trent’anni, quasi tutti coloro che hanno lavorato alle operazioni di pulizia
sono tutti morti o malati.
La vita media per chi ha lavorato in Alaska dopo lo
scoppio è stata di cinquantuno anni.
I pochi rimasti in vita soffrono di tossi persistenti, lacrimazione agli
occhi, nausea, vomito e dolori in tutto il corpo. La persona tipica che si rese
disponibile ad aiutare nelle operazioni di pulizia in Alaska era economicamente
in difficoltà (e chi sennò andrebbe di sua spontanea volontà in mezzo al
petrolio?) che per sei settimane ha spruzzato acqua bollente in mare e lungo la
sabbia con evaporazione di petrolio in atmosfera. Che ha ovviamente inalato.
Al tempo dello scoppio, la ditta e i lavoratori la chiamavano “Exxon crud”.
Era una specie di tosse petrolifera, visto che era diffusissima fra gli
addetti. E siccome era consierata una specie di influenza, nessuno ci pensò
troppo. La Exxon ha eseguito nel corso degli anni ogni tipo di studio su ogni
tipo di animali ed esseri viventi entrati a contatto con il petrolio: granchi,
cozze, pesci, papere, aquile e pure cervi ed orsi, ma mai persone.
Fra chi è rimasto in vita Roy Dalthorp, a suo tempo disoccupato e che dopo
le sue seti settimane ha sviluppato problemi di respiro e di lacrimazione che
durano tuttoggi. Nessuno della Exxon l’ha mai esaminato, né durante né dopo le
operazioni di pulizia. Lui dice di
essere stato lentamente
avvelenato.
“I had no choices,
because I was behind on my house payments, and no health insurance”.
Entra in scena Dennis Mestas, avvocato che inizia a indagare le cartelle
cliniche dei lavoratori della Exxon a Houston. Su 11.000 lavoratori della Exxon
con sede in Alaska, 6,722 si sono ammalati. Decide che uno dei casi più
lampanti era quello di Gary Stubblefield, con la stessa storia di Roy Dalthorp:
problemi di respiro e di generale cedimento fisico. La Exxon lo paga 2 milioni
di dollari, pur di non andare a processo. Pochi altri ex lavoratori hanno avuto
la stessa “fortuna” di essere risarciti.
D’altro canto, la Exxon ribadisce che non può commentare o confermare
le cifre dei lavoratori ammalati perché questi erano temporanei e non si
sa che malattie avessero sviluppato prima o dopo. E aggiungono che nessuno si è
lamentato con loro. E quindi… tuttapposto.
E per le operazioni di pulizia della BP? I lavoratori della BP hanno
respirato metano, benzene, idrogeno solforato e il dispersante Corexit e
secondo il tossicologo Ricki Ott, fra i lavoratori della Louisiana ci sono
stati gli stessi esatti sintomi che in Alaska nel 1989. Ci si lamenta di mal di
testa, fatica, problemi intestinali e di concentrazione e memoria, irritazione
alla gola e agli occhi, mancanza di respiro, tosse e nausea. Esiste pure una
nuova malattia: Tilt, toxicant-induced loss of tolerance, per descrivere i
malati delle operazioni di pulizia petrolifera.
Fra i lavoratori della BP almeno in 160 si sono ammalati
e in venti sono finiti all’ospedale. Ma la BP specifica: “per poco tempo”.
Non abbiamo imparato niente. Evviva.
martedì 21 luglio 2015
Insetti a tavola - Agnese Codignola
Come è noto da alcuni anni, le fonti di proteine per uso umano
stanno cambiando in fretta e cambieranno sempre più nei prossimi anni. La
produzione alimentare globale dovrà adattarsi alle esigenze di una popolazione
che secondo le stime toccherà i nove miliardi di individui nel 2030. In Congo
si sta per attivare la sperimentazione di un farming di insetti con una
programmazione sostenibile alle spalle, che desta un grande interesse a livello
internazionale. Lo illustra Aaron Ross, giornalista della Reuters, in un reportage da Kinshasa,
che spiega come in quella zona gli insetti siano una tradizione culinaria da
centinaia di anni: sia come street food sia prelibatezza da riservare alle
occasioni speciali. Cucinati con aglio, limone, cipolle e pepe, possono costare
anche più della carne proprio per l’elevato prezzo di acquisto. Per fare un
esempio, un chilo di grilli si paga circa 50 dollari, il doppio del manzo.
Tuttavia, nella Repubblica Democratica del Congo si consumano
circa 14.000 tonnellate di insetti ogni anno, con una media di 300 grammi a
settimana per abitante. Dal punto di vista della salute si tratta di un’ottima
abitudine, dal momento che gli insetti, com’è ormai noto, rappresentano una
eccellente fonte di proteine alternative alla carne e offrono anche sali,
vitamine e fibre. Ma in Congo (dove tuttora in alcune zone da anni è in corso
una guerra civile che prosegue a bassa intensità), tutti gli insetti o quasi
vengono raccolti a mano nella boscaglia, in base alle disponibilità stagionali,
e solo raramente allevati in piccolissime aziende. Per questo costano molto.
La FAO, insieme con alcuni ministeri locali, ha deciso
di avviare un progetto di allevamento industriale di grilli e bruchi e di
affidarlo a 200 persone in diverse fattorie, quasi tutte donne debitamente
formate. In parallelo verrà fondato un istituto nazionale per gli insetti
commestibili da raccogliere e da allevare in maniera sostenibile, e saranno
emanate norme generali per la raccolta. L’iniziativa dovrebbe assicurare
sviluppo a basso impatto ambientale: mettere su un allevamento costa poco.
Inoltre, dovrebbe contribuire in maniera importante ad abbattere la
malnutrizione ancora diffusa nel Paese, grazie alla maggiore disponibilità di
materia prima e alla diminuzione dei prezzi al consumo.
Gli insetti sono stati
anche tra i protagonisti del meeting annuale organizzato
dall’Institute
of Food Technologies di Chicago dedicato ai cibi di domani.
Oltre ad essi, due sono le fonti considerate più promettenti: le alghe e la
quinoa, insieme ai legumi. Le prime, come hanno ricordato alcuni ricercatori al
congresso, sono ben accette dai consumatori, che sono pronti a farle entrare
nei propri menu. Esse contengono, in media, il 63% di proteine, il 15% di
fibre, l’11% di lipidi (tra i quali molti buoni anche per il cuore), il 4% di
carboidrati, il 4% di micronutrienti (minerali e vitamine) e il 3% di altre
sostanze facili da digerire. Si trovano già in alcune cucine nazionali, mentre
in commercio, in vari Paesi, sono già disponibili centinaia di prodotti tra i
quali barrette, succhi salse e dressing, simil-cereali e prodotti da forno. Le
alghe sono facili da coltivare e hanno un basso impatto ambientale; in più, le
specie note sono oltre mille, e questo amplia molto le possibilità, tanto dal
punto di vista nutrizionale quanto da quello delle possibili combinazioni di
prodotti.
La quinoa, invece, è una pianta originaria delle Ande e usata da millenni dalle
popolazioni locali soprattutto di Perù e Bolivia. Attualmente in commercio ci
sono già oltre 1.400 prodotti a base di quinoa in tutto il mondo, e il loro
numero è destinato a crescere. Anche in questo caso si tratta di proteine
nobili e a basso impatto. Infine si è parlato dei legumi, la carne dei
vegetariani da sempre, anche perché privi di allergeni e di glutine e coltivati
con basso impatto ambientale.
Chi è troppo affezionato ai gusti tradizionali o, peggio, al junk food,
dovrà probabilmente rivedere le proprie abitudini molto presto. Per farlo senza
troppa fatica, dovrebbe sempre pensare che queste novità potrebbero far bene
alla salute e al pianeta.
giovedì 16 luglio 2015
Miele, sì o no? Cinque cose da sapere per scegliere - Valentina Ravizza
Perché
i vegani non mangiano il miele? La risposta più immediata è che si tratta di un
prodotto che deriva dallo sfruttamento delle api, soprattutto a causa degli
stressanti metodi industriali che arrivano a causare la morte di questi
animali. Ma la questione è più complessa e non sempre quello che si legge
online è corretto. Per fare maggior chiarezza abbiamo fatto un fact-checking con Francesca Gobbo, giornalista e apicoltrice
biologica cresciuta a pane e
miele a Bressa di Campoformido, in provincia di Udine, dove la sua famiglia,
titolare dell’azienda Miele Dal Cont (www.mieledalcont.it), alleva api dagli anni Settanta. E siamo
partiti proprio dalle informazioni più diffuse sui vari forum e blog vegani.
È vero che nel processo di estrazione del miele molte api vengono
uccise?
«Negli ultimi 15 anni si è assistito in tutto il mondo a un’ingente moria di api: non a causa delle tecniche usate dagli apicoltori, ma piuttosto per i cambiamenti climatici e gli agro farmaci. Fattori come le temperature molto più alte della media e le piogge improvvise hanno in alcuni casi inficiato completamente le fioriture (come quella dell’acacia nel maggio 2014), togliendo alle api il loro sostentamento. Inoltre l’uso di farmaci per proteggere le colture, penso per esempio ai neonicotinoidi utilizzati come concianti delle sementi di mais o irrorati sui meleti del Trentino, ha avvelenato moltissime api. Agli apicoltori non è rimasto che raccogliere i cadaveri delle api, congelarle e inviarle in laboratori (come quelli del Progetto BeeNet) per cercare di capire le cause della moria. C’è poi il caso dellosfruttamento delle api come insetti impollinatori, come avviene per esempio nei fragoleti o nelle distese di mandorli in California (guardatevi il documentario Un mondo in pericolo www.morethanhoneyfilm.com). Questo periodo di attività frenetica, durante il quale l’animale si nutre di un solo tipo di polline è fortemente stressante: è come se noi ci abbuffassimo solo di pasta per settimane. In questo caso però non ci sono favi dove le api possono tornare: il miele non c’entra, lo scopo per cui vengono utilizzate è solo aiutare l’impollinazione, poi vengono lasciate a morire nei campi».
«Negli ultimi 15 anni si è assistito in tutto il mondo a un’ingente moria di api: non a causa delle tecniche usate dagli apicoltori, ma piuttosto per i cambiamenti climatici e gli agro farmaci. Fattori come le temperature molto più alte della media e le piogge improvvise hanno in alcuni casi inficiato completamente le fioriture (come quella dell’acacia nel maggio 2014), togliendo alle api il loro sostentamento. Inoltre l’uso di farmaci per proteggere le colture, penso per esempio ai neonicotinoidi utilizzati come concianti delle sementi di mais o irrorati sui meleti del Trentino, ha avvelenato moltissime api. Agli apicoltori non è rimasto che raccogliere i cadaveri delle api, congelarle e inviarle in laboratori (come quelli del Progetto BeeNet) per cercare di capire le cause della moria. C’è poi il caso dellosfruttamento delle api come insetti impollinatori, come avviene per esempio nei fragoleti o nelle distese di mandorli in California (guardatevi il documentario Un mondo in pericolo www.morethanhoneyfilm.com). Questo periodo di attività frenetica, durante il quale l’animale si nutre di un solo tipo di polline è fortemente stressante: è come se noi ci abbuffassimo solo di pasta per settimane. In questo caso però non ci sono favi dove le api possono tornare: il miele non c’entra, lo scopo per cui vengono utilizzate è solo aiutare l’impollinazione, poi vengono lasciate a morire nei campi».
È vero che gli apicoltori imbottiscono le api di farmaci per
tenerle in vita?
«Come tutti gli animali anche le api possono ammalarsi, ma questo non significa che vengano tenute in cattive condizioni dagli apicoltori. Le patologie più comuni sono le virosi, paragonabili alle nostre influenze, e gli attacchi dell’acaro Varroa destructor, che fa nascere api deformi. In questi casi l’apicoltura tradizionale usa dei farmaci, come gli acaricidi nebulizzati, che però si depositano nella cera dell’alveare rischiando che dei residui contaminino il miele, mentre quella biologica sceglie dei trattamenti “meccanici”: si eliminano le uova e le larve malate, in alcuni casi siamo costretti a sacrificare l’intera famiglia».
«Come tutti gli animali anche le api possono ammalarsi, ma questo non significa che vengano tenute in cattive condizioni dagli apicoltori. Le patologie più comuni sono le virosi, paragonabili alle nostre influenze, e gli attacchi dell’acaro Varroa destructor, che fa nascere api deformi. In questi casi l’apicoltura tradizionale usa dei farmaci, come gli acaricidi nebulizzati, che però si depositano nella cera dell’alveare rischiando che dei residui contaminino il miele, mentre quella biologica sceglie dei trattamenti “meccanici”: si eliminano le uova e le larve malate, in alcuni casi siamo costretti a sacrificare l’intera famiglia».
È vero che alle api viene sottratto tutto il miele e vengono
nutrite con sciroppo di zucchero?
«A livello industriale e in alcune apicolture artigianali sì: una famiglia di api consumerebbe circa 150 kg l’anno del proprio miele, molti apicoltori, soprattutto in inverno quando le scorte si assottigliano, lo sostituiscono con zucchero bianco candito o sciroppo di zucchero di canna, ma questa alimentazione indebolisce gli animali. Non tutti gli apicoltori però si comportano così: noi per esempio scegliamo di lasciare alle nostre api abbastanza scorte di miele per nutrirsi tutto l’inverno, questo le rende più sane e forti e ci ha permesso addirittura di raddoppiare la produzione. Per me le api sono prima di tutto degli esseri viventi, che vanno trattati con coscienza e con rispetto: la cosa più importante è il loro benessere, e se questo non è anti-economico ma anzi aiuta l’azienda tanto meglio, c’è chi invece ragiona sulla stagione e preferisce vedere i soldi subito, anche se significa ricomprare nuove famiglie di api in primavera perché le proprie non hanno superato l’inverno».
«A livello industriale e in alcune apicolture artigianali sì: una famiglia di api consumerebbe circa 150 kg l’anno del proprio miele, molti apicoltori, soprattutto in inverno quando le scorte si assottigliano, lo sostituiscono con zucchero bianco candito o sciroppo di zucchero di canna, ma questa alimentazione indebolisce gli animali. Non tutti gli apicoltori però si comportano così: noi per esempio scegliamo di lasciare alle nostre api abbastanza scorte di miele per nutrirsi tutto l’inverno, questo le rende più sane e forti e ci ha permesso addirittura di raddoppiare la produzione. Per me le api sono prima di tutto degli esseri viventi, che vanno trattati con coscienza e con rispetto: la cosa più importante è il loro benessere, e se questo non è anti-economico ma anzi aiuta l’azienda tanto meglio, c’è chi invece ragiona sulla stagione e preferisce vedere i soldi subito, anche se significa ricomprare nuove famiglie di api in primavera perché le proprie non hanno superato l’inverno».
È vero che a livello industriale le api regina vengono selezionate
dall’uomo e fecondate meccanicamente?
«Si tratta di una pratica poco comune anche a livello industriale, legata alla selezione genetica della razza. Ma gli apicoltori artigianali, che in Italia sono la maggioranza, lasciano che la fecondazione avvenga in modo naturale e che l’ape regina (che vive fino a cinque anni) venga naturalmente sostituita, alla morte, da un’altra di quelle allevate dall’alveare all’interno delle celle reali».
«Si tratta di una pratica poco comune anche a livello industriale, legata alla selezione genetica della razza. Ma gli apicoltori artigianali, che in Italia sono la maggioranza, lasciano che la fecondazione avvenga in modo naturale e che l’ape regina (che vive fino a cinque anni) venga naturalmente sostituita, alla morte, da un’altra di quelle allevate dall’alveare all’interno delle celle reali».
Come posso essere sicuro di acquistare miele prodotto in modo
etico?
«Sconsiglio di comprarlo al supermercato, dove spesso si trovano mieli non italiani (o in cui il miele italiano è miscelato con quello proveniente da altri Paesi) e termotrattati per restare sempre liquidi, con la conseguente distruzione di enzimi che li rende praticamente degli sciroppi di zucchero. L’acquisto ai mercatini di prodotti artigianali è un buon compromesso, ma la cosa migliore è sempre rivolgersi direttamente all’apicoltore: basta guardarsi attorno o fare una ricerca su internet per scoprire che, senza andare troppo lontano, ce ne sono anche appena fuori dalle città. In questo modo potrete vedere con i vostri occhi come vengono trattate le api e fare tutte le domande per essere davvero consumatori consapevoli».
«Sconsiglio di comprarlo al supermercato, dove spesso si trovano mieli non italiani (o in cui il miele italiano è miscelato con quello proveniente da altri Paesi) e termotrattati per restare sempre liquidi, con la conseguente distruzione di enzimi che li rende praticamente degli sciroppi di zucchero. L’acquisto ai mercatini di prodotti artigianali è un buon compromesso, ma la cosa migliore è sempre rivolgersi direttamente all’apicoltore: basta guardarsi attorno o fare una ricerca su internet per scoprire che, senza andare troppo lontano, ce ne sono anche appena fuori dalle città. In questo modo potrete vedere con i vostri occhi come vengono trattate le api e fare tutte le domande per essere davvero consumatori consapevoli».
Etichette:
cibo,
miele,
Valentina Ravizza,
vegani
martedì 14 luglio 2015
Jordan e Athena, orsi da ammazzare
Si
è rifiutato di uccidere due cuccioli di orso rimasti orfani della madre,
abbattuta perché razziava continuamente una cella frigorifera nei pressi di
Port Handy, città della British Columbia. E per questo Bryce Casavant, guardia
forestale canadese, è stato sospeso dal lavoro e non percepirà lo stipendio.
L'uomo, nonostante avesse ricevuto ordine dai suoi superiori di eliminare gli
orsetti, ha deciso di affidarli a una struttura che si occupa di curare
animali: la North Island Wildlife Recovery Association, situata sull'isola di
Vancouver. Dopo la notizia della sospensione, sul web è stata lanciata una
petizione all'indirizzo del Ministro dell'Ambiente canadese, Mary Polak,
affinché Casavant venga reintegrato immediatamente. "E' una situazione
spiacevole e triste - ha dichiarato la Polak - Sebbene le nostre guardie
forestali debbano a volte abbattere animali selvaggi per il bene della
comunità, comprendo quanto questo sia complicato per tutti i soggetti
coinvolti". I due cuccioli, un maschio e una femmina, sono in buone
condizioni di salute e hanno ricevuto anche un nome: Jordan e Athena. Appena
saranno in grado di cavarsela da soli
Etichette:
Canada,
orsi,
vita e morte
lunedì 13 luglio 2015
Saperi medici plurali (2) - Giulio Angioni
Studiare
come si mantengano ancora modi e mestieri di cura tradizionale è dovere non
solo di chi si propone di estirpare le consuetudines non laudabiles e
gli errores, che da secoli in Europa sono oggetto della lotta della
medicina ufficiale contro l’empiria, l’ignoranza, la magia.
Anche le
varie forme di cristianesimo hanno lottato contro concezioni e pratiche mediche
tradizionali, specie contro le pratiche coreutiche di guarigione, quali il
tarantismo, in Puglia oggi mobilitato in funzione identitaria. Ma questa
costruzione dell’identità locale comporta un rovesciamento di prospettiva del
tarantismo stesso, sindrome considerata vergognosa dal punto di vista sociale:
ma oggi, sull’onda della rivalutazione neo-tradizionalista, si assiste a
rappresentazioni dove attrici riproducono il mesto corteo che, nel giorno di S.
Paolo, riuniva a Galatina le tarantate per chiedere la grazia. Così per l’àrgia sarda,
terapia coreutico-musicale cui si ricorreva per guarire dal morso di un ragno:
esperienza angosciosa e dispendiosa, oggi danza e musica sono espressioni
gioiose in concerti e in feste di piazza, avvertite come specificità locale
identitaria. Se in Sardegna il bisogno di eutanasia non ha prodotto una figura
‘professionale’ come la cosiddetta acabbadora, ha però prodotto la
figura dell’acabbadora, cioè la personificazione di un problema sempre e
dappertutto sentito e patito. Etnografie spontanee su questa figura sono mosse
dal bisogno di credere nella sua esistenza reale, e questo è aspetto importante
del fenomeno, anche dal punto di vista della bioetica che si occupi di fine
vita, che da noi ha prodotto la personificazione fantastica di un problema sempre
e dappertutto sentito e patito, forse per metabolizzare una responsabilità
morale, individuale e collettiva come quella del volere porre fine a
interminabili sofferenze finali. Il bisogno di un “buon fine vita” in Sardegna
ha creato la figura mitica di chi vi provvedeva.
Il lungo
osservare vecchi e nuovi percorsi di guarigione, paralleli o intrecciati alla
medicina ufficiale, l’interrogarsi sul senso e sull’efficacia delle azioni
curative dei guaritori, ha documentato come queste pratiche curative popolari
tradizionali riescano a dare senso alla sofferenza attraverso processi di
riconoscimento e quindi di cura del male; e che così come non è possibile
rinunciare a forme di gestione domestica e familiare della malattia, così non è
possibile per molti, non solo nelle nostre campagne in quanto luogo di una
probabile maggiore conservatività, non è possibile rinunciare a una gestione
comunitaria della malattia, dove il guaritore più che uno specialista è
portatore di un sapere e di un agire comuni e condivisi.
Un problema
è anche l’efficacia di questi modi tradizionali di prendersi cura del
sofferente. Gli antropologi hanno elaborato la nozione di efficacia simbolica,
insita nello stesso processo di conferimento di senso alla sofferenza, che sia
sacro o profano o entrambi, soprattutto nel rapporto empatico tra malato e
guaritore, efficacia spesso carente nel rapporto odierno tra malato e apparato
medico.
È anche un
dato del nostro senso comune che la guarigione come la malattia siano qualcosa
di non confinabile in uno dei due ambiti che diciamo mente e corpo, soma e
psiche, in cui siamo soliti scindere il nostro vivere. Si parla volentieri di
mali psicosomatici e di effetti placebo e nocebo, mentre trovano operatori e
clienti le medicine orientali più olistiche, come lo yoga e lo shiatsu.
L’antropologia medica tende a pensare in generale la guarigione non meno della
malattia come un insieme complesso di elementi che diciamo biologici o corporei
e simbolici o mentali. È nota l’opinione di Claude Lévi-Strauss che l’efficacia
simbolica di una terapia, altrimenti inefficace secondo il punto di vista
biomedico, è il risultato della proiezione di pensieri, emozioni e malesseri
individuali in un quadro mitico di simboli e metafore condivise da una comunità
di cultura. Si tratterebbe di una dimensione operativa governata appunto dal
gesto rituale e dalla parola mitica, sacra, dove si stabilisce un nesso
efficace tra rituale, racconto ed esperienza del malessere, secondo concezioni
e processi riconoscibili anche nelle varie forme di psicoterapia occidentale,
ridotte troppo però a una precaria dimensione individuale di senso e di cura.
Il divano dello psicologo è infatti una metafora di quanto il malessere e la
sua cura sono diventati, da eventi collettivi, problema individuale.
La
guarigione è simbolica e collettiva, anche senza Lourdes o Padre Pio, secondo
un andamento nel quale il guaritore (medico o altro) media nel paziente la
definizione di un mondo simbolico interiore fatto anche di “simboli
terapeutici”, dove il gesto, la parola, lo strumento, il farmaco, il rito, la
comunicazione e i rapporti sociali giocano tutti insieme la loro parte. Il buon
terapeuta è sempre stato un buon manipolatore sia dei mezzi materiali sia dei
mezzi simbolici della cura. Nel guaritore tradizionale, nel mago, nello
stregone, nell’empirico, il ‘popolo’ o il ‘nativo’ ricerca soprattutto un tale
tipo di terapeuta, che è sentito carente nell’apparato biomedico istituzionale.
Quando si fa
attenzione al rapporto fra operatore terapeutico e paziente nel suo ambiente
sociale, ci si accorge di tutti quei “manipolatori dell’invisibile” quali
osservatori di corpi, sciamani, divinatori, medium, maghi anche televisivi, che
si muovono nei dintorni della terapia egemoni, a distanze più o meno decise
dalla biomedicina e dalla taumaturgia religiosa. A parte la loro
professionalizzazione anche nel compenso a tariffa, un aspetto che ricorre e
s’impone, come nel caso dei guaritori tradizionali, è l’uso del termine e delle
modalità del dono. Dono è la capacità di guarire acquisita dal mediatore di
guarigione (molto più spesso, anche in Sardegna, guaritrice), dono è la sua
prestazione, dono è la sua remunerazione qualunque essa sia. Ancora oggi molti
guaritori tradizionali sembrano usare il termine dono in tutti questi sensi,
con la tendenza a intendere una zona di scambio sociale dove la gratuità
circola come un bene impagabile e non oggetto di scambio mercantile, ma
soggetto all’obbligo umano del dare, del ricevere, del contraccambiare, dove il
risultato finale e generale è la guarigione. Il dono terapeutico risulta
pensato come il risultato di una mutua assunzione di responsabilità della cura,
una vera, antica, sperimentata “cassa mutua” in cui tutti più o meno danno,
ricevono, contraccambiano e aumentano insieme il capitale terapeutico comune
Molti
documenti mostrano che ancora nelle nostre campagne c’è in forma residuale
un’efficacia terapeutica del dono come fatto sociale totale, con la sua
gratuità, cioè con la grazia in tutta la sua carica di sensi, grazia richiesta
data e ricevuta attraverso la mediazione di un qualcosa o un qualcuno, o meglio
forse di un tutt’uno, comunque pensato, di cui specialmente la salute
individuale è dono o risultato, in fondo gratuito, sebbene in qualche modo
meritato, mediato e impetrato, come per altro e solo in parte testimoniano
dappertutto nel mondo cattolico le collezioni esposte di ex-voto per grazia
ricevuta, nei santuari come anche oggi a volte nell’“ambulatorio” del guaritore
o del mago, e molto meno nello studio del medico. I molti mediatori e la folla
di fruitori del guarire tradizionale e/o ‘alternativo’ ribadiscono che il
rapporto terapeutico più soddisfacente è un evento collettivo, un processo
interumano, guidato al meglio dal gratuito, non riservata solo ai luoghi e ai modi
impersonali della sanità ufficiale, tanto più se orientata dal mercato,
incapace talvolta del dono della parola e del gesto curativamente efficaci.
da qui
domenica 12 luglio 2015
Saperi medici plurali (1) - Giulio Angioni
Poche altre cose umane mobilitano la
totalità del fare, del dire e del sentire quanto la malattia e la guarigione,
il malessere e la sua risoluzione. E ne mettono in evidenza il carattere di
collettività, di fatto sociale totale.
L’antropologia medica (o del corpo o
della malattia o della salute) insiste sulla pluralità dei modi anche
compresenti di gestione e di trattamento della malattia, oltre che sulla
diversità dei tipi di addetti, dei rapporti, dei saperi, dei contesti culturali
che danno senso e sollievo al malessere. Oggetto principale di un’antropologia
medica è la coesistenza di sistemi medici diversi, di diversi tipi di
concezioni e di pratiche di guarigione, cosa molto tipica, da tempo, anche della
nostra cultura occidentale come di tante altre in ogni tempo e luogo.
Oggi le concezioni e le pratiche mediche
non possono che essere viste come una pluralità in coabitazione più o meno
difficile, anche presso di noi in Occidente dove domina e intende dominare ciò
che diciamo biomedicina scientifica, o meglio, forse, le varie biomedicine
scientifiche, anch’esse piuttosto plurali nella loro articolazione interna, e
tra l’altro oscillanti fra pubblico e privato, welfare e mercato, e
nell’asimmetria delle possibilità di accesso alle cure e ai farmaci.
Molti studi e ricerche di etnomedicina e
di demoiatria offrono documenti della pluralità di pratiche, di concetti, di
terapeuti, di sistemi medici riscontrabili in varie parti del mondo, anche da
noi quando documentano ciò che rimane come ‘medicina popolare’, mentre oggi la
pluralità medicale interna ed esotica si assomma nelle nostre città plurali,
dove la diversità e la pluralità del mondo si riproduce in ogni luogo. Gli
studiosi, compresi i raccoglitori locali di medicina popolare, non sono alieni
dal pensare questa loro documentazione (che è anche documentazione della
pluralità medica interna a un contesto sociale) come una prova di ricchezza
piuttosto che di confusione, arretratezza, contraddittorietà. Documentare
l’esistenza di modi di guarigione ereditati per vie non ufficiali e perfino
illegali, nelle campagne del Terzo Mondo e non solo, oggi come ieri, dà conto
della varietà odierna dei modi di concepire la malattia e di guarirne, con la
possibilità di confronti e comparazioni, come nel caso della fenomenologia
dell’efficacia simbolica dei gesti di cura o degli stati alterati di coscienza.
Ancora oggi come in altri tempi in
Europa i guaritori sono in parte manipolatori e/o erboristi e spesso anche
‘esorcisti’. In luoghi come la Sardegna era diffusa la credenza in individui,
soprattutto donne ‘spiritate’ (spiridadas), capaci di operare diagnosi e
guarigioni prodigiose con l’aiuto di uno spirito aiutante, come pure di far
ammalare per suo tramite. Nel mondo cattolico e ortodosso anche i preti erano
considerati in grado di esercitare il bene (la guarigione, l’esorcismo) o di
infliggere il male (la malattia soprattutto) con l’intermediazione di questi
spiriti, qualificati variamente come anime dannate o beate, diavoli o angeli o
santi. I sinodi condannano spesso gli abusi della credulità popolare da parte
del basso clero, i cui membri soprattutto nelle campagne e sulle montagne erano
considerati i massimi esperti nel fare e nello sciogliere malefici.
I guaritori odierni operano con varie
commistioni di pratiche e credenze popolari di lunga tradizione locale o di
recente importazione (comprese pranoterapia e perfino omeopatia), anche quando
si definiscono maghi o maghe. La giustapposizione delle cure e delle concezioni
(magismo residuale o nuovo, cristianesimo popolare, spiritismo, esoterismo)
sono tipiche di questi terapeuti, che sembrano prediligere l’efficacia dei
simboli, cioè delle liturgie del gesto e della parola, anche in quanto capaci
di rafforzare le difese reattive dell’organismo.
Il tema più importante e più proprio
dell’antropologia medica sembra quello della pluralità dei ‘percorsi di
guarigione’, ai quali i malati ricorrono con disinvoltura. Anche studi italiani
recenti documentano come la medicina popolare tradizionale, così come sussiste
e persiste ancora oggi specialmente nel Sud e nelle isole e nella montagna più
a lungoisolata, ha suoi modi di concepire il malessere e suoi modi di efficacia
terapeutica, degni di studio, dalle eziologie alle diagnosi alle terapie e alle
prevenzioni in quanto sapere sia comune, sia di specializzazioni individuali a
volte col sigillo del segreto di mestiere. Di solito il malato e i suoi parenti
e sodali si trovano, forse oggi più di ieri, di fronte a una pluralità di visioni
e di pratiche, e quindi di scelte più o meno sovrapposte dove trovare senso e
rimedio.
Come ogni crisi, la malattia è anche
crisi di senso, anche in quanto vissuta in pluralità di riferimenti, di
concezioni e di pratiche in cui configurare il malessere e rispondergli. E se
l’esperienza della malattia è vissuta in modi diversi, essi però convergono
nell’emergenza di un individuo sofferente, devono convergere con la duttilità
imposta dalle situazioni, dove i diversi percorsi di senso e di cura non devono
contraddirsi, ma la flebo, la preghiera cattolica e lo scongiuro ‘pagano’
devono fare sinergia con le spiegazioni della malattia basate sul destino non
meno che sulla provvidenza.
Il pluralismo è già nel sistema
biomedico ufficiale, non solo risultato delle diverse medicine compresenti. La
medicina tradizionale, popolare e subalterna spesso non appare meno sicura di
sé, di fronte ai poteri di controllo del corpo da parte dello Stato, del
mercato, delle istituzioni religiose e di fronte alla tendenza della
biomedicina a imporsi come unica legittima e valida. La capacità della medicina
tradizionale subalterna (e quindi del guaritore tradizionale) di dare senso al
malessere e sollievo al sofferente risiede nella sua sicurezza di esserne
capace; e in ciò si distingue dallo sperimentalismo della medicina ufficiale,
che sa ammettere le sue impotenze.
La contrapposizione tra sistemi medici
spesso non è esplicita. La medicina popolare non muove attacchi critici alla
biomedicina, si estranea dalle complesse questioni giuridiche, etiche e morali.
Ma il guaritore tradizionale è in un campo di rapporti di forza dove il malato
(o chi per lui) fa le scelte del caso sul proprio corpo e sulla propria salute.
E queste scelte, che tra l’altro hanno a che fare con rapporti di potere sia
locali che più vasti, non tengono conto di distinzioni nette tra razionale e
irrazionale, empirico e scientifico, sacro e profano, magico e scientifico ecc,
se non altro perché soprattutto il dolore non si lascia distinguere in e da
questi ambiti e non si presta a partizioni nette tra concezioni e relative
pratiche, e neppure tra azione e comprensione. Tenere la mano e parlare a chi
soffre è spesso meglio di un farmaco, come sappiamo tutti, meno, a volte, gli
operatori della medicina ufficiale.sabato 11 luglio 2015
In Amazzonia - Christiana de Caldas Brito
Vi racconto, senza bisogno di commenti, una storiella
brasiliana.
Siamo in Amazzonia. Non lontano dal grande fiume. Nella foresta, si sviluppa un terribile incendio.
Siamo in Amazzonia. Non lontano dal grande fiume. Nella foresta, si sviluppa un terribile incendio.
Le fiamme
cominciano la loro distruzione. Il fuoco si propaga, fa ardere la vegetazione,
provoca la caduta degli alberi.
Un uccellino vola, in mezzo al fumo provocato dall’incendio. Si avvicina al fiume, prende con il becco una goccia d’acqua, vola verso la zona dell’incendio e fa cadere la goccia d’acqua. Ritorna al fiume, prende un’altra goccia, vola verso l’incendio e la butta giù. Ripete questo in continuazione. Gli altri animali vedono l’uccellino indaffarato e uno di loro gli grida: “Guarda che non serve a nulla quello che stai facendo! Non riuscirai mai a spegnere l’incendio. Le fiamme vanno avanti lo stesso. Le gocce che mandi giù sono inutili!”
Senza fermarsi, l’uccellino risponde: “Non so se riuscirò a spegnere l’incendio, solo so che sto facendo la mia parte.”
Un uccellino vola, in mezzo al fumo provocato dall’incendio. Si avvicina al fiume, prende con il becco una goccia d’acqua, vola verso la zona dell’incendio e fa cadere la goccia d’acqua. Ritorna al fiume, prende un’altra goccia, vola verso l’incendio e la butta giù. Ripete questo in continuazione. Gli altri animali vedono l’uccellino indaffarato e uno di loro gli grida: “Guarda che non serve a nulla quello che stai facendo! Non riuscirai mai a spegnere l’incendio. Le fiamme vanno avanti lo stesso. Le gocce che mandi giù sono inutili!”
Senza fermarsi, l’uccellino risponde: “Non so se riuscirò a spegnere l’incendio, solo so che sto facendo la mia parte.”
venerdì 10 luglio 2015
Arrivano i nostri
Si intitola Arrivano i
nostri!, vede la partecipazione straordinaria di Elio, ed è un brillante, provocatorio
cartone animato diffuso da Survival
International per denunciare la distruzione dei popoli indigeni
del mondo, spesso operata nel nome dello “sviluppo”.
In soli due minuti, il cartone animato mostra come lo “sviluppo” possa
privare popoli indigeni autosufficienti delle loro terre, delle loro risorse e
della loro dignità, trasformandoli in mendicanti.
Basato sul fumetto omonimo di Oren Ginzburg, già pubblicato da Survival, il
film racconta con illustrazioni brillanti e umorismo tagliente l’arrivo di
alcuni “esperti” in una immaginaria comunità della foresta, che rapidamente si
ritroverà senza più nulla, ai margini di una baraccopoli.
Messaggio cardine del cortometraggio è quello che i popoli indigeni sanno
decidere da soli cos’è meglio per loro stessi, e che l’imposizione di certe
forme di sviluppo può finire solo col distruggerli.
“Che razza di progresso è quello che ti fa vivere meno di prima?” ha
chiesto il boscimane Roy
Sesana a Survival.
Arrivano i
Nostri! si ispira a storie reali. In India, in Etiopia, in
Canada e in altre parti del mondo, l’imposizione dello “sviluppo” ai popoli
indigeni continua ancora oggi, con conseguenze devastanti.
Il governo etiope, per esempio, sta sfrattando e reinsediando a forza
oltre 200.000 indigeni della bassa valle dell’Omo, con l’obiettivo
dichiarato di dare loro una “vita moderna”. I diritti delle tribù alla
consultazione a al libero, prioritario e informato consenso – sanciti dalla
Dichiarazione ONU sui popoli indigeni, dalla legge internazionale e
anche dalla stessa Costituzione etiope – sono brutalmente ignorati.
“Stiamo aspettando di morire. Siamo disperati” racconta un uomo Mursi.
“Quando il governo ci avrà messi tutti in un villaggio, non ci sarà più spazio
per le coltivazioni; i miei figli avranno fame e non ci sarà cibo.”
La Cooperazione italiana mantiene da anni un rapporto privilegiato con
l’Etiopia, che recentemente è stata riconfermata come uno dei paesi prioritari
per il triennio 2013-2015, con un raddoppio dei fondi stanziati rispetto al
triennio precedente.
Survival sta quindi sollecitando i suoi sostenitori a scrivere alla
Farnesina per scongiurare
qualsiasi forma di complicità nella catastrofe umanitaria che incombe nella
Valle dell’Omo, e per chiedere che l’erogazione degli aiuti italiani
sia subordinata al rispetto dei diritti dei popoli indigeni e all’interruzione
degli sfratti da parte delle autorità etiopi.
“Non è che gli Yanomami rifiutino
il progresso o che non vogliano le cose che hanno i Bianchi" spiega Davi
Kopenawa. “Vogliamo solo avere la possibilità di scegliere, senza essere
costretti a cambiare a tutti i costi, volenti o nolenti.”
“Portare lo ‘sviluppo’ ai popoli tribali contro la loro volontà è
un’abitudine antica” ha dichiarato Stephen Corry, direttore generale di
Survival. “Risale all’epoca coloniale e giunge fino ai giorni nostri camuffata
negli eufemismi del ‘politically correct’. Il suo obiettivo è però sempre lo stesso:
permettere a qualcuno di appropriarsi delle terre e delle risorse altrui.”
“I popoli indigeni sono perfettamente in grado di valutare e decidere da
soli quale direzione dare al proprio sviluppo” aggiunge Francesca Casella
direttrice di Survival Italia. “Interferire nelle loro vite ‘per il loro bene’,
senza il loro consenso, è una presunzione razzista e devastante. La storia
dimostra ampiamente che chi viene sfrattato e costretto a cambiare stile di
vita contro la propria volontà finisce inesorabilmente per soffrire un
peggioramento sotto ogni punto di vista: fisico, economico e psicologico.
Governi e società non possono accampare alibi”.
Etichette:
animazione,
economie,
survival
domenica 5 luglio 2015
Balasso e i schei - Natalino Balasso
se qualcuno non lo sapeva ancora, Natalino Balasso è un genio!
Etichette:
corto,
Natalino Balasso
sabato 4 luglio 2015
Un filo di lana guida l’Isola verso il futuro. A Guspini un distretto industriale ecosostenibile - Piero Loi
Un filo di lana
conduce la Sardegna verso un futuro più sostenibile fatto di risparmio di
energia, bonifica delle aree inquinate, prevenzione dal dissesto idrogeologico.
Fino a pochi anni fa non sarebbe stato possibile immaginare le mille
applicazioni che la lana di pecora (razza sarda) può avere. Nè scommettere che
il Medio Campidano avrebbe ospitato un distretto industriale capeggiato dalla Edilana di Daniela Ducato e composto ormai da diverse aziende che uniscono
innovazione, sostenibilità ambientale e vecchi saperi.
Chi l’avrebbe
mai detto, infatti, che il vello degli ovini può ripulire i terreni contaminati
dalle sostanza inquinanti? E in quanti avrebbero potuto prevedere che
l’utilizzo della lana in agricoltura riduce drasticamente (fino al 60%) il consumo
di acqua? Proprio così, tutto vero. Soprattutto, qui non c’è niente di
taumaturgico, ma solo scienza applicata a un materiale su cui si pensava di
sapere tutto. E che invece possiede delle proprietà che permettono di
neutralizzare gas nocivi e metalli pesanti come formaldeide, ossidi di azoto e
di zolfo. E la capacità di trattenere l’umidità del terreno, favorendo il
risparmio dell’acqua. Oltretutto, una volta sistemata sottoterra, non c’è
neanche bisogno di levarla via: la lana è biodegradabile. A indicare questa
nuova frontiera è stata l’Edilana, che nel frattempo ha inaugurato una nuova linea di produzione che va
sotto il nome di Edilatte. Cosa c’entra l’edilizia con il latte? C’entra
eccome, visto che dagli scarti della lavorazione del latte l’azienda di Daniela
Ducato ottiene pregiati intonaci
Tra i materiali
ecosostenibili oggi impiegati dall’industria, non c’è dunque solo la lana. Né
una sola azienda. Sempre lì, a Guspini (dov’è di casa la stessa Edilana) c’è
anche la Nuove Tecnologie di Graziella Caria che oltre a fabbricare forni solari si occupa di
coibentazione degli interni, utilizzando la lana insieme al sughero, alle fibre
di legno e alla canapa. Al posto del polietilene e altri prodotti provenienti
dai poli petrolchimici. Anche l’azienda Venas, sempre di Guspini, utilizza la lana per confezionare oggetti che sono
qualcosa di più di semplici gadget. Ecco, infatti, l’I-sheep, un porta
cellulare che sfrutta una virtù del vello ovino poco conosciuta: la lana di
pecora blocca infatti le onde elettromagnetiche generate dagli smartphone.
Insomma, se si parla di eco o bio-sostenibilità a Sinnova ce n’è davvero per
tutti i gusti, ma un minimo comune denominatore emerge con forza: spesso è il
passato a guidare le traiettorie del futuro. Vale a dire che le pecore
continueranno ad essere una risorsa preziosissima nella Sardegna di domani,
anche per ragioni diverse dalla produzione del latte.
Etichette:
animali,
economie,
lana,
materie prime,
Sardegna
I sogni senza limiti di Alexander Langer - Franco Lorenzoni
Nelle nostre società “deve essere possibile una realtà aperta a più
comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di
immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e
cosmopolita”. (…) “La convivenza plurietnica, pluriculturale, plurireligiosa,
plurilingue, plurinazionale appartiene e sempre più apparterrà, alla normalità,
non all’eccezione”. (…) “In simili società è molto importante che qualcuno si
dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in
situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per
ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’integrazione”.
Così scriveva Alexander Langer nel 1994, nel Tentativo di decalogo
per la convivenza interetnica, uno dei suoi testi più profondi e generativi
che, fosse per me, lo ripubblicherei
di continuo e lo consiglierei per le antologie scolastiche. In
uno dei punti del decalogo sottolineava “l’importanza di mediatori, costruttori
di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”. Occorrono “traditori
della compattezza etnica”, ma non “transfughi”.
In quegli anni si era nel pieno del conflitto che stava insanguinando le
regioni dell’ex Jugoslavia e Alex fu tra i pochi politici italiani ed europei a
impegnarsi, con tutto se stesso, per tentare una soluzione pacifica e tenere
aperta la comunicazione tra coloro che si opponevano al conflitto, dando vita
con altri al Verona forum per la pace e la riconciliazione nei territori
dell’ex Jugoslavia, che fu un luogo dove si riunirono gli oppositori alla
guerra provenienti delle diverse regioni in conflitto.
Langer sentiva la violenza interetnica nella sua carne perché era nato nel
1946 a Vipiteno, nel Südtirol di lingua tedesca. Suo padre, nato a Vienna, era
ebreo non praticante e sua madre era convintamente laica.
Vissuto in una famiglia aperta al dialogo, scelse di frequentare il liceo
italiano dei francescani a Bolzano, città dove con altri ragazzi fondò la sua
prima rivista, Offenes Wort (parola aperta) e, più tardi, Die Brücke (il
ponte): un simbolo che avrebbe incarnato per tutta la vita, sia nell’audacia
del segno capace di collegare due sponde distanti, sia nella fatica concreta del
cercare e trovare e trasportare le pietre che possano incastrarsi tra loro per
tenere su l’arco.
Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è
stato lo sforzo umano e intellettuale che ha dato forma alla sua vita
Il modo originale con cui Alex ha vissuto la difficile convivenza nell’Alto
Adige-Südtirol lo ha portato a ragionare intorno alle contraddizioni
interetniche in modo non ideologico, rifiutando ogni semplificazione.
Alex era perfettamente bilingue per scelta e il plurilinguismo in lui, che
passava continuamente nei suoi ragionamenti dal tedesco all’italiano, era un
piccolo allenamento quotidiano di immedesimazione nei pensieri e nelle ragioni
dell’altro perché – come scrisse citando Ivan Illich – aiuta a “ripristinare,
nelle nostre menti prima di tutto, con una solida base storica di quel che è
stato e non di quel che potrebbe essere, la multiforme varietà del mondo”.
Quando studiava nella Firenze di La Pira e della comunità del dissenso
cattolico dell’Isolotto, tradusse in tedesco Lettera a una
professoressa, scritta dai ragazzi della scuola di Barbiana di don Milani.
La sua velocità di traduttore era proverbiale, tanto che riuscì a rendere in
simultanea in tedesco, sulla scena, il rapido affabulare e i molteplici
dialetti portati in teatro da Dario Fo nel suo Mistero buffo, al
tempo della sua tournée in Germania.
Alex era profondamente convinto che una “storia” unica e condivisa da tutti
non esista. Che esistano sempre tante storie legate ai corpi delle persone, al
loro sentire, al loro vivere, al loro pensarsi. L’essere nato in una regione
plurietnica lo aveva infatti vaccinato per sempre dall’illusione dell’unicità.
Del resto il suo spirito profondamente libero e ribelle gli ha sempre reso
insopportabili tutti i confini, a partire da quelli che delimitavano il suo
campo. Nel 1977 a Roma, durante una manifestazione sfociata in violenti
scontri, Alex non esitò a passare dall’altra parte per soccorrere un poliziotto
ferito perché era evidente, per lui, che ogni vittima va soccorsa, al di là di
ogni schieramento, perché il suo imperativo morale lo portava a stare sempre a
fianco di chi era più fragile e vulnerabile.
Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è stato lo sforzo umano
e intellettuale che ha dato forma alla sua vita.
Ascoltate per esempio il modo in cui racconta dei rom e dei sinti:
Popolo mite
e nomade, che non rivendica sovranità, territorio, zecca, divise, timbri, bolli
e confini, ma semplicemente il diritto di continuare a essere quel popolo
sottilmente ‘altro’ e ‘trascendente’ rispetto a tutti quelli che si contendono
territori, bandiere e palazzi. Un popolo che, un po’ come gli ebrei, fa parte
della storia e dell’identità europea. (…) A differenza di tutti gli altri, rom
e sinti hanno imparato a essere leggeri, compresenti, capaci di passare sopra e
sotto i confini, di vivere in mezzo a tutti gli altri, senza perdere se stessi,
e di conservare la propria identità anche senza costruirci uno stato intorno.
La
distruzione inesorabile di un mondo conviviale (…) ha tolto agli zingari il
loro mondo naturale: non si può togliere l’acqua ai pesci e poi stupirsi se i
pesci non riescono più a essere agili, gentili e autosufficienti come una
volta. Eppure bisogna che l’Europa con quella sua stragrande maggioranza di
‘sedentari’ accolga, anche nel proprio interesse, la sfida gitana e faccia
posto a un modo di vivere che decisamente non si inquadra negli schemi degli
stati nazionali, fiscali, industriali e computerizzati
Pensare che scelte di vita radicalmente altre possano essere di nutrimento
per tutti è stata una delle convinzioni visionarie che Alex non ha mai
abbandonato. Ma in queste sue parole riconosciamo anche dei tratti del suo
carattere, perché Alex ha sempre desiderato passare “sopra e sotto i confini”
di ogni genere, da incessante viaggiatore e tessitore di relazioni qual era.
Provando a condensare in affermazioni icastiche il suo pensiero, a volte
Alex formulava quelle che chiamava “regolette”. Eccone una: “Ciascuno di noi
non dovrebbe consumare nulla di più di quanto non possano consumare tutti i sei
miliardi di abitanti del pianeta”. Questa regoletta limpidamente kantiana è, al
tempo stesso, evidentemente necessaria eppure difficilmente attuabile, perché
chi vive nel nord opulento del mondo difficilmente rinuncerebbe ai suoi
privilegi.
Eppure, “perché ci sia un futuro ecologicamente compatibile”, spiega Langer
in un altro suo scritto, “è necessaria una conversione ecologica della
produzione, dei consumi, dell’organizzazione sociale, del territorio e della
vita quotidiana. Bisogna riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi
di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di
produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni
forma di violenza)”. Un vero “regresso” rispetto al motto olimpico del più
veloce, più alto, più forte, da trasformare in “più lentamente, più
profondamente, più dolcemente e soavemente”.
Continuare in ciò che è giusto
Alex, grazie alle sue frequentazioni tedesche, fu tra i primi in Italia a
cercare di dare vita a un movimento verde che avesse anche rappresentanza
istituzionale. Ma per indole, pur costruendo di continuo luoghi concreti di
scambio, non si è mai accontentato di coltivare qualche piccolo orto o consolidare
posizioni di potere stando nelle istituzioni. Pur essendo stato molto
apprezzato per il suo lavoro nel parlamento europeo, in quel luogo sentiva di
essere testimone di passaggio, rilanciando sempre in avanti il suo impegno,
attento a ciò che sentiva più urgente e necessario.
Quando ideò nel 1988, insieme ad altri, la Fiera delle Utopie Concrete a
Città di Castello, volle che in quell’appuntamento internazionale fossero
presenti rappresentanti dell’Europa dell’est ben prima della caduta del muro di
Berlino.
E poiché il tema della conversione ecologica riguardava tutti, gli sarebbe
piaciuto che Città di Castello si trasformasse in una sorta di moderna Santiago
di Compostela, cioè un luogo di pellegrinaggio laico europeo, dove recarsi per
ascoltare e mostrare e condividere progetti concreti di conversione ecologica
nei campi più diversi. L’immagine di Santiago mostrava bene come ad Alex
premeva l’idea del lungo cammino, insieme individuale e collettivo, necessario
perché le idee di trasformazioni radicali, sentite come necessarie, avessero il
tempo di prendere corpo in individui concreti e in piccole comunità capaci di
sperimentare concretamente le trasformazioni auspicate.
Quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro
senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità
diventa assoluta
Il desiderio di essere “più lento” è condizione che negli ultimi anni è
sempre meno riuscito a vivere, perché incapace di sottrarsi a impegni e urgenze
sempre più pressanti. Ma quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro
senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità
diventa assoluta.
Il pomeriggio del 3 luglio 1995, a 49 anni, Alex si è tolto volontariamente
la vita impiccandosi a un albicocco a Pian dei Giullari, alle porte di Firenze.
Eppure, anche in quel momento di massima disperazione, ha sentito il
bisogno di rassicurare gli amici, scrivendo nell’ultimo dei suoi tanti
bigliettini: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”.
Tre anni prima, quando si era tolta la vita la leader verde tedesca Petra
Kelly, Alex l’aveva ricordata con queste parole: “Forse è troppo arduo essere
individualmente degli Hoffnungsträger, dei portatori di speranza:
troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze che
inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa
oggetto, troppo grande l’amore di umanità e di amori umani che si intrecciano e
non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce
a compiere”.
Quest’anno il premio Alexander Langer è stato assegnato ad Adopt Sebrenica,
un gruppo di giovani di diversa nazionalità impegnati a tessere un dialogo nel
paese dove nel luglio del 1995 si è consumato il più violento episodio di
pulizia etnica dell’Europa del dopoguerra, con il genocidio di 8.372 musulmani
di Bosnia commesso dalle truppe di Ratko Mladić.
Vent’anni fa Alexander Langer, il più lungimirante tra i nostri politici,
ci ha lasciato “più disperato che mai”. Ma i suoi pensieri e il suo esempio
credo abbiano ancora molto da insegnare a chi non voglia accettare che il mondo
viva sotto il ricatto dell’etnocentrismo, che Alex definì “l’egomania
collettiva più diffusa oggi”.
·
Un’antologia dei suoi scritti è Il viaggiatore leggero (Sellerio). Altri materiali e una
ricca documentazione si possono trovare sul sito alexanderlanger.org.
venerdì 3 luglio 2015
Rifiuti (molto) speciali
Mettendo ordine ho trovato tre barattoli mezzi vuoti, uno di acquaragia
e due di vernice, mezzo litro in tutto.
Li ho messi in una scatola e li ho portati, in macchina, all’ecocentro
(una struttura fra più comuni per i rifiuti che non passano abitualmente a
prendere fuori casa), per lo smaltimento.
Questi rifiuti non possiamo
ritirarli, mi dicono, non siamo autorizzati, sono altamente tossici e
inquinanti, neanche i barattoli
vuoti, possiamo prendere, mi dicono, Cosa
ne faccio, chiedo all’operaia, Provi
all’impresa qui vicino, che tratta rifiuti tossici e pericolosi.
Risalgo in macchina, arrivo, e al citofono, neanche fosse una caserma,
spiego la situazione. Mi dicono che loro fanno quel servizio, ma che fra
analisi e tutto mi costerebbe un centinaio di euro, non le conviene, risolva in altro modo, mi dicono.
Torno a casa, faccio un giro di telefonate, Comune, struttura
consortile, la risposta è la stessa, quei
materiali sono tossici e pericolosi, non possiamo prenderli.
A questo punto posso fare tre cose:
1 – buttare i barattoli in campagna
2 – versare il contenuto nel wc
3 – pagare 100 euro
4 – altro che non so?
Due domande:
1 - se quelle sostanze sono tossiche, pericolose, inquinanti, perché non
venderle solo a operatori e imprese qualificate, che si faranno carico anche
dello smaltimento dei residui?
2 –perché non obbligare i venditori di vernici e affini a vendere a
prezzi comprensivi dello smaltimento e a ricevere residui dei barattoli e i
barattoli?
Etichette:
economie,
inquinamento,
Italia
giovedì 2 luglio 2015
L’umanità è in pericolo - João Pedro Stedile
Durante il periodo della Guerra Fredda, tra gli anni 1945-1990, i
giornali annunciavano ogni giorno che l’umanità si trovava di fronte al
pericolo di una guerra nucleare, che avrebbe distrutto il nostro pianeta. Per
fortuna questo non è avvenuto. Tuttavia, ora, ci troviamo di fronte ad un
pericolo simile, che non arriverà dalle bombe o dalle guerre, con la loro
stupida distruzione. Ora siamo di fronte a una
distruzione lenta, graduale, ma permanente, dei nostri popoli. Una distruzione
prodotta dall’uso di veleni agricoli e dal controllo che le multinanzionali
hanno degli alimenti di tutta l’umanità.
Con l’egemonia del
neoliberismo e del capitale finanziario, negli ultimi venti anni,l’economia mondiale è stata
dominata dal capitalismo e controllata da non più di cinquecento imprese
transnazionali. Queste detengono il 58 per
cento di tutta la ricchezza, ma danno lavoro solo all’8 per cento della
popolazione. E questa forza egemonica controlla
anche l’agricoltura e la produzione alimentare. Meno di cinquanta imprese controllano in tutto
il mondo la produzione di veleni agricoli, la costruzione di macchine agricole,
controllano l’agroindustria e il commercio degli alimenti. Ci hanno imposto una matrice
tecnologica basata sui semi geneticamente modificati, sulla meccanizzazione su
larga scala e l’uso intensivo di veleni.
Espellono manodopera
dalle campagne, che va a gonfiare le città e a migrare verso altri paesi. Le
imprese multinazionali di Expo Milano sono quelle che producono Lampedusa! Questo modello dell’agrobusiness è
anti-sociale, è insostenibile a medio termine sotto l’aspetto economico ed
ecologico.
Perché è un modello
che distrugge la natura ed esclude le persone dal loro sviluppo. Come diciamo in Via Campesina è una
agricoltura senza agricoltori! E
questo non ha futuro. Le conseguenze sono lì davanti ai nostri occhi,
denunciate anche da papa Francesco, nella sua enciclica (leggi anche Il Cantico che non c’era di
Paolo Cacciari) e nelle sue dichiarazioni.
Questo modello distrugge la
biodiversità, perché i pesticidi uccidono ogni essere che vive in quello
spazio, siano essi piante, batteri o animali. Contaminano l’aria e l’acqua. E i loro residui vanno negli alimenti,
che, consumati quotidianamente, si trasformano in malattie di ogni genere, e in particolare generano cancro,
perché distruggono le cellule del corpo umano.
Qui in Brasile, dopo aver
implementato questo modello, sono state espulse quattro milioni di famiglie
contadine. E il paese è diventato il più grande consumatore al mondo di veleni
agricoli. E ogni anno, ci sono 500.000
nuovi casi di cancro tra la popolazione, come ha denunciato l’Istituto
nazionale del cancro, del ministero della salute. Questo è il costo che il
popolo paga, per permettere che alcune aziende facciano soldi esportando soia,
cellulosa, etanolo e carne di manzo.
Ma al capitale non interessa la
vita umana, lo stare bene, l’equilibrio della natura. Al capitale interessa solo il profitto,
l’accumulazione di ricchezza. Per tutto questo noi ci uniamo a tutte le voci
del mondo, ora in questo Convegno alternativo di Milano, per dire che l’Expo di Milano è l’esposizione del profitto e della morte.
È l’Expo dell’esibizionismo di
una mezza dozzina di imprese transnazionali, che lo usano come propaganda ideologica per
giustificare, legalizzare il loro modello che
concentra, esclude e si impadronisce di tutti gli alimenti nel mondo, che
elimina le abitudini culturali dei popoli.
Non dobbiamo
scoraggiarci davanti alla dimensione del potere economico. Le sue
contraddizioni stanno già evidenziandosi in tutto il mondo, e la società sta divenendo cosciente che questo modello non serve
all’umanità. Sono
sicuro che nei prossimi anni avremo molte manifestazioni in tutto il mondo,
perchè ci siano cambiamenti, e possiamo costruire un altro modo di produrre
cibo, nel rispetto della natura e delle abitudini alimentari di ogni
territorio.
Il futuro non è a Milano e nei
loro conti bancari. Il futuro è nell’agricoltura
che produce cibo sano.
Etichette:
agricoltura,
Brasile,
cibo,
economie,
expo,
João Pedro Stedile
Iscriviti a:
Post (Atom)