venerdì 31 marzo 2017
Tocchiamoci
...Il tumore del testicolo rappresenta l’1,5 per cento di tutte le neoplasie dell’uomo ed è la più frequente nei maschi di età compresa tra i 15 e i 40 anni. In Italia è la neoplasia maligna più frequente, con un tasso di incidenza dell’11 per cento nei maschi con meno di 50 anni. Nonostante, nella maggior parte dei casi, possa essere diagnosticato tempestivamente attraverso la semplice autopalpazione, ogni anno nei Paesi occidentali si registrano fino a dieci nuovi casi ogni centomila abitanti, con un aumento dell’incidenza negli ultimi 30 anni. Questo sensibile aumento è dovuto alla scarsa attenzione maschile verso la prevenzione, a cui negli ultimi anni si è aggiunta l’aggravante della mancata visita di leva, che ha sottratto i giovani alla diagnosi precoce delle patologie del distretto urogenitale e alla sottovalutazione di problematiche spesso insorte già da bambini. Oggi il tumore al testicolo offre ottime opportunità di cura: se diagnosticato e trattato precocemente il tasso di guarigione è intorno al 96 per cento. Fare prevenzione diventa quindi fondamentale per una diagnosi precoce di questa malattia, che è molto diffusa soprattutto tra i giovani.
da qui
I bambini hanno diritto alla lentezza
"Pigiama
party alla scuola materna, tre lingue in prima elementare, corsi di arti
circensi, musica, gare di sci, la media del nove. Ai bambini viene chiesto di
essere sempre più intelligenti, dotati, abili e capaci. Troppo desiderare,
troppo avere, troppo sapere, troppe soglie buie varcate in anticipo, con corpo
fragile, senza corazza e senza la spada giusta". E' questo il pensiero di
Costanza Giannelli che disegna i genitori moderni come i responsabili, a volte
inconsapevoli, di un grande dolore inflitto nei bambini, perché "è più
facile vantarsi della luce dell'intelligenza del proprio figlio piuttosto che
della zona d'ombra dove si muove la consapevolezza". E così i bambini si
trovano prima o poi ad imbattersi nell'indifferenza, nella delusione e nel
fallimento senza strumenti per poterli affrontare. "Umiliati e feriti a
morte non riescono a reggere lo sguardo dell'altro, si blindano nel rifugio
solitario e meditano la vendetta. E così il web diventa uno specchio senza
confini e senza regole, un luogo dove cancellare il disonore e la vergogna,
dove si può apparire e scomparire senza regole e responsabilità".
Costanza
Giannelli si augura che dopo quest'era falsamente buona e illuminata, ne nasca
una nuova dove "un bambino molto intelligente abbia la possibilità di
trovare maestri speciali che gli insegnino a tornare indietro, gli mostrino il
volto del fiore e dell'animale e, finalmente, possa trovare la quiete."
Anche
Franco Ulgigrai chiede ai genitori di non avere fretta e di ripensare al
momento in cui il bambino è pronto per iniziare la scuola primaria.
"Spesso già a cinque anni si trova seduto al banco di scuola, senza aver
raggiunto la maturità sociale, e privato dell'"anno del re", quel
periodo importante in cui il bambino si sente più grande e può dare il suo
contributo ai compagni più piccoli. Iniziare la scuola senza la maturità
necessaria, porta facilmente il piccolo a vivere un senso di
inadeguatezza". Ulcigrai riporta, inoltre, l'esperienza positiva dell'asilo
nel bosco organizzato in Alto Adige, "dove i bambini devono seguire solo
le regole del mondo e della natura senza mete, sul binario della massima
tranquillità e serenità".
Dello
stesso parere il direttore della cooperativa Arianna di Trento, Maurizio Camin,
il quale racconta come ogni giorno veda adolescenti non ascoltati, affaticati e
ingabbiati all'interno di regole. "Giovani che parcheggiano il corpo a
scuola, ma hanno anima e interessi fuori, che fanno fatica a stare al mondo,
perché non riescono a pensarsi nel futuro".
Francesca
Gennai, vicepresidente del consorzio Con.solida, che ha moderato l'incontro, ha
provato a trarne le conclusioni "le esperienze che abbiamo ascoltato oggi,
ci ricordano che dobbiamo garantire ai bambini il diritto alla lentezza, alla
natura, alla selvatichezza, alla ferita, alla noia, al vuoto e soprattutto ad
essere ascoltati".
giovedì 30 marzo 2017
Uno squalo con un gancio nello stomaco chiede aiuto ad un subacqueo
Il subacqueo Josh Eccles e’ abituato ad avere squali limoni attorno, nelle acque della costa della città di Jupiter, Florida, ma questa volta è stato diverso. Lo squalo limone evidentemente molto sofferente lo ha colpito più volte per ottenere la sua attenzione e fargli notare che qualcosa non andava. E infatti, quando il sub lo ha guardato da vicino ha notato un gancio attaccato al suo stomaco. Ci sono voluti un paio di secondi per il subacqueo per rimuovere il gancio, il tutto ripreso dall'amico fotografo Chris Maddeford.
mercoledì 29 marzo 2017
BUties and the Beast
Utilizzare un video animato per far comprendere in meno di un minuto che cosa prova un bambino dislessico e per far sapere che c’è sempre qualcuno pronto ad aiutarlo. L’idea è di Dyslexia Action, associazione inglese che opera da 40 anni bambini e adulti dislessici. Sono le immagini, i movimenti, i colori e le musiche ad animare spaventosi libri – piraña, che scompaiono nel momento in cui ci si lascia prendere per mano. Un modo per sensibilizzare al problema chi non lo vive. E per incoraggiare chi la strada ancora non l’ha trovata…
lunedì 27 marzo 2017
Ancora assistenzialismo e nuovo inquinamento per il Sulcis - Italia Nostra
Sulcis, quando Pigliaru scriveva “Lasciamo le imprese al loro destino”! Ce lo ricorda Italia Nostra (ignorata dai giornali) - Vito Biolchini
Me lo ricordavo quell’articolo, e probabilmente lo ho
anche conservato da qualche parte. Sì, quell’articolo in cui il professor
Pigliaru dalle colonne della Nuova Sardegna diceva che, insomma, era venuto il
momento di dire basta alle industrie decotte nel Sulcis e che sarebbe stato
“più saggio lasciare le imprese al loro destino e occuparsi invece dei
lavoratori”. Era il 31 agosto 2012: anche per effetto di dichiarazioni del
genere Pigliaru ha avuto il mio voto e quello di tanti altri sardi.
Quattro anni e mezzo dopo il professore, diventato presidente della Regione, fa invece esattamente il contrario di quello che allora teorizzava e prova a salvare l’Eurallumina che, come ho avuto modo di scrivere, prima chiude definitivamente, meglio è (“Io sto con i lavoratori ma non con l’Eurallumina: che prima chiude, meglio è per tutti”).
A ricordare le parole di Pigliaru ci ha pensato Italia Nostra con un documento inviato ieri a tutte le testate ma che i nostri quotidiani hanno pensato al momento di ignorare. Io ve lo propongo integralmente perché a mio avviso contiene degli spunti di riflessione interessanti.
L’altra notizia che voglio condividere con voi è la seguente: sta girando voce che la questione Eurallumina sarà avocata dal Ministero: ovvero, il Soprintendente ai Beni paesaggistici di Cagliari ed Oristano Fausto Martino, che coraggiosamente si è opposto all’ampliamento del bacino dei fanghi rossi perché in contrasto con il ppr, potrebbe vedersi sfilare la pratica, e questo su sollecitazione della Regione che conta così di avere il via libera direttamente da Roma. Nelle prossime ore sapremo se si tratta solo di una voce. Nel frattempo, buona lettura.
Quattro anni e mezzo dopo il professore, diventato presidente della Regione, fa invece esattamente il contrario di quello che allora teorizzava e prova a salvare l’Eurallumina che, come ho avuto modo di scrivere, prima chiude definitivamente, meglio è (“Io sto con i lavoratori ma non con l’Eurallumina: che prima chiude, meglio è per tutti”).
A ricordare le parole di Pigliaru ci ha pensato Italia Nostra con un documento inviato ieri a tutte le testate ma che i nostri quotidiani hanno pensato al momento di ignorare. Io ve lo propongo integralmente perché a mio avviso contiene degli spunti di riflessione interessanti.
L’altra notizia che voglio condividere con voi è la seguente: sta girando voce che la questione Eurallumina sarà avocata dal Ministero: ovvero, il Soprintendente ai Beni paesaggistici di Cagliari ed Oristano Fausto Martino, che coraggiosamente si è opposto all’ampliamento del bacino dei fanghi rossi perché in contrasto con il ppr, potrebbe vedersi sfilare la pratica, e questo su sollecitazione della Regione che conta così di avere il via libera direttamente da Roma. Nelle prossime ore sapremo se si tratta solo di una voce. Nel frattempo, buona lettura.
***
Ancora assistenzialismo e nuovo inquinamento per il
Sulcis
I
giorni scorsi è stata rinviata la Conferenza di Servizi che avrebbe dovuto
decidere la riapertura dell’Eurallumina, la raffineria di bauxite di
Portovesme. Motivo del rinvio il parere contrario del Ministero dei Beni
Culturali per incompatibilità con il Piano Paesaggistico Regionale.
Desta
quanto meno stupore il fatto che l’unica criticità rilevata, nell’ambito del
procedimento autorizzativo per la rimessa in funzione dell’impianto, da parte
degli Organi decisori, sia di esclusiva natura paesaggistica. Eppure si tratta
di un impianto a forte
impatto ambientale perché, per poter riprendere l’attività, si dovrà sollevare
di 10 metri (fino a 46 metri di altezza totale) l’attuale bacino, che sarà
riempito con fanghi inquinanti e pericolosi, contribuendo in tal modo a rendere
irreversibile il processo di degrado ambientale del Sulcis, un Sin tra i più
inquinati d’Italia. Nell’ambito
di un tale “revamping” industriale dovrà per di più essere realizzata una nuova centrale a carbone,
in una regione dove il 78% dell’energia prodotta proviene dall’uso di
combustibili fossili, di cui il 25% circa ottenuta dalla combustione
del carbone.
Nuovi e inquinanti progetti per rilanciare uno
stabilimento i cui dirigenti sono attualmente sotto processo per danno
ambientale, disastro ambientale consumato e traffico illegale di rifiuti.
Le
motivazioni contrarie alla costruzione della nuova centrale a carbone a
Portovesme sono state esposte ed adeguatamente argomentate nelle Osservazioni
al PEARS del 2016 da parte di Italia Nostra, WWF e LIPU. È appena il caso di
ricordare che la centrale risulta in aperto contrasto con gli enunciati di
sostenibilità contenuti negli indirizzi e negli obiettivi del PEARS e la
scelta, dettata esclusivamente da motivazioni economiche connesse al basso costo
del carbone, risulta essere in perfetta antitesi con i contenuti della Road Map
2050 e i trattati COP21 e COP22, che impongono un percorso ispirato alla
decarbonizzazione, riduzione delle emissioni di CO2, risanamento ambientale.
Attualmente
il sistema elettrico sardo produce una quantità di CO2 per Kilowattora di
energia superiore di oltre l’80% rispetto alla media italiana, con una quantità
di circa 700 grammi di CO2 per unità di energia rispetto ai 400 grammi prodotti
nella penisola.
Perché
riaprire uno stabilimento, come quello dell’Eurallumina, che copre una fase
intermedia nel ciclo dell’alluminio, con una produzione slegata completamente
da un territorio ridotto
alla fame, e
per questo costretto ad accogliere qualsiasi impianto ad alto tasso di inquinamento
in cambio di qualche posto di lavoro?
NOI non esitiamo a dire che è necessario fermarsi e
riflettere, perché è folle perseverare nell’errore di tenere in vita industrie
senza futuro per il territorio, insostenibili sotto l’aspetto ambientale ed economico,
che per paradosso drenano risorse pubbliche.
“Il
fatto è che di fronte a emergenze di occupazione e di reddito, l’istinto
italiano, sbagliato, è di esercitare un vero e proprio accanimento terapeutico
a favore dell’impresa in crisi, anche quando le prospettive di mercato sono
improbabili o nulle. Sono interventi che bruciano risorse pubbliche preziose e,
creando false aspettative, consumano futuro. Quasi sempre sarebbe più saggio lasciare le
imprese al loro destino e occuparsi invece dei lavoratori, sostenendo
il loro reddito e accompagnandoli con servizi di qualità (orientamento e
formazione, in primo luogo) verso una nuova occupazione”, scriveva il prof.
Francesco Pigliaru il 31 agosto del 2012 sulla Nuova Sardegna.
Nel
rammentare al prof. Pigliaru, attuale Governatore della Regione Sardegna,
queste sue non lontane dichiarazioni, chiediamo con forza l’effettiva
applicazione di quei sani e condivisi principi che da un lato garantiscano ai
lavoratori del Sulcis il diritto al lavoro e dall’altro tutelino la salute dei
Sulcitani che vivono all’interno del SIN, sotto l’incubo di varie e gravi
patologie che presentano percentuali di incidenza sulla popolazione che non si
possono continuare a ignorare. Il Rapporto SENTIERI ha evidenziato gli
elevatissimi rischi per la salute mettendo in relazione la presenza delle
industrie, la pregressa attività mineraria e la produzione energetica da
combustibili fossili con l’eccesso di mortalità per le malattie
dell’apparato respiratorio e del tumore della pleura.
Riportando
ancora le parole scritte dal prof. Pigliaru nel 2012 ricordiamo che nel “Sulcis
non mancano proposte ragionevoli e di buon senso … in grado di creare
occupazione diffusa e sostenibile: la straordinaria dotazione di bellezze
naturali e la ricchezza della storia mineraria. In più, c’è un agro-alimentare
di qualità… Bisogna però capire questo: che la
vera emergenza per il Sulcis non è una fabbrica che va via o una miniera che
chiude. È invece una qualità delle istituzioni che oggi non dà garanzie sufficienti
a coloro che devono affrontare le profonde e anche dolorose (socialmente ed
economicamente) trasformazioni necessarie per raggiungere una nuova sicurezza
economica. Chi li accompagnerà in quel percorso? … Chi è in grado di sbloccare le bonifiche per rendere credibile la prospettiva
di un decente e sostenibile sviluppo basato sulla bellezza paesaggistica del
territorio?”.
La
risposta a queste domande, non può e non deve essere l’installazione di un
ulteriore impianto industriale a Portovesme – in contrasto con lo stesso
strumento urbanistico comunale – che continuerà a impedire le produzioni
agroalimentari, la pastorizia e l’agricoltura, la pesca e il turismo, settori
capaci di garantire migliaia di posti di lavoro produttivi a costi di gran
lunga contenuti rispetto a quelli delle attività industriali.
Rispetto
ad un quadro ambientale, sanitario e paesaggistico così degradato, si resta
attoniti nel constatare che l’unico parere negativo sul nuovo disastro
ambientale annunciato provenga con isolato coraggio dagli uffici periferici del
Ministero dei Beni Culturali, con le cui riserve ed eccezioni non possiamo che
pienamente concordare in quanto rivendicano semplicemente l’applicazione delle
regole paesaggistiche che la stessa regione Sardegna si è data. Di contro Enti,
Ministeri e Assessorati preposti alla tutela dell’ambiente e della salute non
solo non fanno udire le inoppugnabili ragioni del dissenso, ma si accodano con
supina acquiescenza e subalterna connivenza, alle posizioni demagogiche di quei
tanti politici che con le loro scelte passate e presenti hanno contribuito a
creare nel Sulcis il più grande disastro ambientale, sanitario ed economico
dell’Europa intera.
li,
5 febbraio 2017
Il Consiglio Regionale di Italia Nostra Sardegna
domenica 26 marzo 2017
La solitudine che ci spaventa - Penny
Dovremmo insegnare ai nostri figli a non avere paura
della solitudine. É uno spazio potente di creatività. Il più grande,
forse.
Non dobbiamo spaventarli se si sentono soli, ma
spiegar loro che è una condizione della vita, un bisogno e una necessità per
l’uomo. Invece raccontiamo storie spaventose in cui i bambini si perdono e
rimangono da soli, in cui la salvezza arriva sempre dall’altro.
I bambini imparano a muovere i primi passi, ad afferrare oggetti,
a pronunciare parole dentro a esercizi continui di solitudine.
Si concentrano per ore in atti silenziosi.
Dovremmo sollecitare questi momenti invece di
richiamarli continuamente a noi, e non dovremmo
preoccuparci se ogni tanto si appartano.
In quello spazio immaginano, si ricaricano, progettano, imparano a esserci
e non avere bisogno di altro.
Così come insegniamo ai nostri figli a socializzare,
dovremmo insegnargli a stare da soli. A perdersi in un mondo in cui si è capaci
di bastarsi.
La solitudine non é fuga, ma il tempo della pausa, del
silenzio, della contemplazione, del riparo.
E allora quando li vediamo assorti o decisi a starsene da soli, abbiamo il
dovere di non richiamarli a noi e lasciarli stare.
Esiste una solitudine buona che serve agli adulti
tanto quanto i bambini. Uno spazio in cui immaginare mondi, in cui staccare la
spina e fare silenzio.
Quando cerchiamo spasmodicamente l’amore è quella solitudine che non
vogliamo affrontare. Il vuoto che ci attraversa e la paura del bosco che ci
hanno raccontato. I nostri figli hanno diritto alla solitudine. É attraverso
l’esperienza della solitudine che sapranno costruire legami fecondi, e sapranno
amare.
E se la solitudine busserà alla loro porta sapranno che uso farne. Forse, meglio di noi.
da qui
E se la solitudine busserà alla loro porta sapranno che uso farne. Forse, meglio di noi.
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sabato 25 marzo 2017
A passeggio in Siberia sul lago Baikal fra turisti e inquinamento - Marina Forti
La costa è una linea azzurrina, lontana.
Intorno c’è solo ghiaccio, una distesa che sembra sconfinata. Siamo sul lago
Baikal, Siberia orientale: un mare lungo 620 chilometri, largo tra i 20 e gli
80, profondo circa un chilometro e mezzo, la più grande massa d’acqua dolce del
pianeta. D’inverno si copre di uno strato di ghiaccio abbastanza spesso da
reggere pulmini e jeep. Così, sul lago qui va inteso alla lettera: siamo sopra al
lago e lo attraversiamo a bordo di una jeep.
Il ghiaccio è un mondo surreale. Ora
bianco, accecante, spruzzato di neve. Ora levigato dal vento, lucido, così
trasparente che mette in soggezione: uno specchio nero come gli abissi, con
venature bianche che formano disegni astratti. O ancora distese di lastre
azzurrine, come cocci di vetro sollevati dalle onde e fissati dal ghiaccio.
La jeep procede tra i bagliori, luce
lattiginosa quando è nuvolo, scintillante quando si affaccia il sole. Il
silenzio è rotto da brontolii come tuoni lontani, o da un colpo secco: lastre
ghiacciate cozzano tra loro, una crepa si apre sulla superficie gelata. Grosse
lastre si sollevano e si rinsaldano formando scalini. A volte le crepe
diventano veri e propri crepacci in cui si fa strada l’acqua del lago:
torneranno a congelarsi in poche ore, ma se la crepa è fresca può essere
pericolosa.
Una regione chiave
La jeep, dunque, segue una linea tortuosa, segue tracce di altri veicoli. Perché il ghiaccio è un mondo popolato. Un punto nero in lontananza è una vecchia utilitaria, accanto a una tenda da campeggio piantata sul ghiaccio, dove tre uomini con gli stivaloni di gomma hanno aperto dei buchi e stanno calando le reti. Pescatori di professione, passeranno la notte a controllare che i buchi non si richiudano: si pesca così l’omul, un pesce endemico del lago Baikal, che viene affumicato e venduto in tutti i mercati della regione. In lontananza un altro punto nero, altri pescatori.
La jeep, dunque, segue una linea tortuosa, segue tracce di altri veicoli. Perché il ghiaccio è un mondo popolato. Un punto nero in lontananza è una vecchia utilitaria, accanto a una tenda da campeggio piantata sul ghiaccio, dove tre uomini con gli stivaloni di gomma hanno aperto dei buchi e stanno calando le reti. Pescatori di professione, passeranno la notte a controllare che i buchi non si richiudano: si pesca così l’omul, un pesce endemico del lago Baikal, che viene affumicato e venduto in tutti i mercati della regione. In lontananza un altro punto nero, altri pescatori.
Il lago Baikal è inaspettato. Formato da
un rift, una faglia tra le catene montuose a nord della Mongolia, è
il più antico e profondo del pianeta. È anche il più grande, non per superficie
ma per volume, e contiene un quinto delle riserve d’acqua dolce non congelata
della Terra.
È una regione chiave per “lo sviluppo
economico e sociale tra la Russia orientale e la Mongolia”, leggo nell’Atlante
ecologico del Baikal, pubblicato dal Programma dell’Onu per lo
sviluppo (Undp). Soprattutto, il lago e il suo bacino rappresentano un
ecosistema unico, una nicchia ecologica tra terra e acqua, popolata da circa
3.700 specie di piante e animali di cui molte endemiche, cioè che vivono solo
qui: le Galápagos della Russia. Per questo nel 1996 l’Unesco l’ha proclamato
“patrimonio dell’umanità”. Il Baikal vanta un’acqua cristallina, tra le più
pure al mondo – anche se in ampie zone questo non è più vero: perché la
pressione umana sta aumentando anche qui, in una regione considerata tra le più
isolate della grande Siberia.
Per la verità, proprio isolato il lago
Baikal non lo è stato mai. Certo, ampi tratti della costa sono quasi
inaccessibili, in particolare nella parte settentrionale: scogliere a picco
sull’acqua e un entroterra di boschi fitti di betulle, pioppi e conifere, la
taiga siberiana.
Altrove invece è bordato di villaggi di
pescatori, piccoli centri industriali, insediamenti che si aprono al turismo.
Tra le montagne ci sono le miniere sfruttate fin dalla Russia degli zar. Ci
sono i discendenti delle popolazioni autoctone siberiane e quelli dei
colonizzatori russi arrivati a partire dal settecento. La ferrovia
transiberiana costeggia il tratto meridionale del lago, nella tappa tra Irkutsk
a ovest e Ulan Ude a est: poi si divide, un troncone prosegue in territorio
russo fino a Vladivostok, l’altro attraversa la Mongolia diretto a Pechino.
Foreste vergini e villaggi industriali,
stupa buddisti e monasteri ortodossi. Lineamenti mongolici e visi europei. La
transiberiana e le jeep che corrono sul ghiaccio. Un equilibrio fragile: e
forse la trasformazione più drastica è quella che sta arrivando con il turismo.
“La pressione sul lago sta
aumentando”, mi dice Marina Rikhvanova, biologa, una pioniera
dell’ambientalismo in questo angolo di Siberia. La incontro a Irkutsk, città di
quasi un milione e mezzo di abitanti, “capitale” del Baikal anche se in effetti
si trova a una settantina di chilometri dal lago, sulle sponde del suo unico emissario,
il fiume Angara.
Già avamposto di esploratori e
commercianti, Irkutsk è diventata un centro industriale nel novecento, in
particolare dopo gli anni cinquanta, quando appena a monte della città è stata
costruita una diga con un impianto idroelettrico (la diga ha fatto salire il
livello del lago di oltre un metro, costringendo a cercare un nuovo tracciato
per la transiberiana). In seguito altre dighe sono sorte a valle, e hanno
alimentato l’industria pesante: meccanica, aeronautica militare e civile,
chimica.
Crescita e problemi nuovi
A monte però il lago è rimasto per lo più isolato, salvo insediamenti minori lungo la transiberiana: piccoli impianti dove si inscatola il pesce, centrali termiche alimentate dal carbone. O la cartiera che nell’ultimo decennio ha provocato proteste arroventate a Baikalsk, cittadina di circa tredicimila abitanti sulla costa meridionale del lago, finché tre anni fa è definitivamente fallita. “Ma ora il turismo di massa sta cambiando tutto”, insiste Rikhvanova.
A monte però il lago è rimasto per lo più isolato, salvo insediamenti minori lungo la transiberiana: piccoli impianti dove si inscatola il pesce, centrali termiche alimentate dal carbone. O la cartiera che nell’ultimo decennio ha provocato proteste arroventate a Baikalsk, cittadina di circa tredicimila abitanti sulla costa meridionale del lago, finché tre anni fa è definitivamente fallita. “Ma ora il turismo di massa sta cambiando tutto”, insiste Rikhvanova.
In effetti negli ultimi anni il turismo è
diventato un’attività importante, anche se i dati sono imprecisi: “Ogni fonte
ha le sue stime e non coincidono mai, oscillano tra 500mila e un milione di
arrivi annui”, dice. Di sicuro un’industria in piena crescita, questo è
visibile. E sta portando problemi nuovi.
Per capirlo, torniamo sul ghiaccio. Ma
prima bisogna parlare un po’ di Irkutsk con il suo piccolo centro storico,
alcuni edifici ottocenteschi sul lungofiume e quelli solenni dell’era
staliniana, inframmezzati però a vie di case basse, di legno, nello stile “siberiano”,
finestre e cornicioni intagliati come ricami: alcune ben tenute, restaurate di
fresco, quasi rifatte; molte invece sbilenche, cadenti, pronte a essere
demolite per fare spazio a edifici nuovi e sgraziati.
Come in molte città russe sorprende la densità
di teatri, scuole di musica, l’opera, la filarmonica, numerose università.
Sorprende la stratificazione storica nei nomi delle vie: viale Lenin e via Karl
Marx insieme a piazza Alessandro III (lo zar che si distinse per il suo regime
repressivo), tutti egualmente celebrati come tasselli della nazione.
C’è il mercato centrale, grande mercato
coperto pieno di prodotti locali, ortaggi e infiniti banchi che straboccano di
pesci affumicati – l’omul e altri pesci del lago, aringhe, salmoni – e al
secondo piano interi corridoi di negozi di telefonini e piccola elettronica.
Fuori, bancarelle dove donne dai tratti asiatici vendono erbe, conserve
artigianali, bacche secche. Oppure maglioni e calze di spessa lana mongolica,
cappelli, colbacchi. Intorno, invece, decine di piccoli uffici espongono le
quotazioni della borsa e offrono di investire i risparmi.
Accanto, le due o tre vie eleganti, con
enormi gioiellerie (la regione è nota per la lavorazione di pietre
semipreziose) e vetrine con i nomi della moda italiana che potrebbero essere in
qualsiasi città del mondo. Tra le insegne ricorrenti, quella gialla di una
catena di rivendita di computer e telefonini. O quelle di qualche Burger King,
l’americanizzazione del cibo.
Nei weekend si affollano i nuovi mall. Sull’altra
sponda del fiume sopravvivono i quartieri dell’era sovietica, con grandi
blocchi di edifici residenziali tra cui ora spuntano grandi supermercati. E la
stazione ferroviaria, dove gli orologi segnano l’ora di Mosca (la Russia si
estende per undici fusi orari, e per non fare confusione l’orario dei treni è
sempre quello della capitale).
La strada ufficiale sul piccolo mare
Ora però voltiamo le spalle a Irkutsk, ai ponti sull’Angara intasati di traffico, alle ciminiere e al lungofiume ghiacciato, e imbocchiamo la strada che punta a nord, tra quartieri di casette unifamiliari avvolte nella neve. Per venti, trenta chilometri si estendono nuovi suburbi (il prezzo delle case in città è ormai proibitivo e molte famiglie cercano spazio fuori): ricordano il Midwest americano, solo che qui ogni casa ha il suo recinto. Poi finalmente il panorama cambia. Ecco la steppa gelata, appena punteggiata da piccoli boschi di betulle. Rari gruppi di case, pascoli dove mucche che somigliano a yak cercano erba congelata nella neve.
Ora però voltiamo le spalle a Irkutsk, ai ponti sull’Angara intasati di traffico, alle ciminiere e al lungofiume ghiacciato, e imbocchiamo la strada che punta a nord, tra quartieri di casette unifamiliari avvolte nella neve. Per venti, trenta chilometri si estendono nuovi suburbi (il prezzo delle case in città è ormai proibitivo e molte famiglie cercano spazio fuori): ricordano il Midwest americano, solo che qui ogni casa ha il suo recinto. Poi finalmente il panorama cambia. Ecco la steppa gelata, appena punteggiata da piccoli boschi di betulle. Rari gruppi di case, pascoli dove mucche che somigliano a yak cercano erba congelata nella neve.
Infine pieghiamo a est, e raggiungiamo la
distesa ghiacciata del Baikal. Una piccola baia con poche vecchie case di legno.
La statua di un uomo che guarda il lago, personaggio leggendario della
tradizione popolare russa ed eroe di una canzone patriottica. Poi una
collinetta su cui sono piantati pali di legno ornati da infiniti nastri
colorati, come nella tradizione buddista tibetana che qui si innesta sulla
cultura sciamanica autoctona.
Un’altra baia con casette di legno: ma
queste sono belle e solide, è un ostello per turisti, uno dei numerosi piccoli
alberghi sorti di recente su questa costa. Di fronte infatti c’è l’isola di
Olhon, settanta chilometri di scogliere spettacolari e grandi boschi di
conifere, che chiude una zona di lago chiamata “piccolo mare”. Qui corre anche
l’unica “strada ufficiale” sul ghiaccio: un’autostrada di ghiaccio nero,
segnata da paletti, percorsa da automobili, jeep, o ancora più spesso dai
vecchi e indistruttibili pulmini dismessi dall’esercito russo.
L’isola di Olhon è uno dei punti
“emergenti” del turismo sul Baikal: estivo, con trekking tra boschi e
scogliere, e da qualche tempo anche invernale, nella “stagione del ghiaccio”
che va da fine gennaio ai primi di aprile, quando numerose agenzie organizzano
escursioni più o meno avventurose, weekend sull’isola, trekking sul ghiaccio,
fino alla traversata del lago in jeep.
Il “piccolo mare” è affascinante. Dal
ghiaccio si leva uno scoglio basso che ricorda il profilo di un coccodrillo.
Sull’isoletta di Ogoi, a forma di dorso di drago, c’è uno stupa buddista circondato
da nastri colorati che ondeggiano al vento (di costruzione postsovietica).
Lungo le scogliere le onde si sono bloccate in strani disegni di ghiaccio,
cascate di stalattiti, grotte. In una baia qualcuno ha costruito piccoli stupa
di ghiaccio. Un mondo incantato, lucido, bianco e azzurrino – ma tutt’altro che
solitario. Nei punti più spettacolari il viavai di pulmini è intenso: in un
normale giorno di febbraio ne conto sei o sette fermi presso i faraglioni e i
promontori più rinomati, con frotte di turisti cinesi che si fotografano in
posa sul ghiaccio.
I primi a rompere il monopolio delle poche
agenzie turistiche ufficiali sono stati alcuni giovani che hanno letteralmente
inventato un’attività. Come Vladimir (il nome è cambiato, ndr):
negli anni novanta aveva lavorato come guida occasionale, mentre studiava
all’università; poi nel 2003, con una laurea in tasca ma la prospettiva di un
impiego di stato malpagato, ha deciso di mettersi in proprio e fondare la sua
agenzia.
Gli investimenti cinesi
Oggi ha quattro collaboratori fissi e una ventina di jeep, gestisce un ostello a Irkutsk e organizza escursioni per piccolissimi gruppi, dalle visite a Olhon ai “gran tour del ghiaccio”, oppure trekking sui pattini o sugli sci, o addirittura traversate a piedi con campeggio sul lago gelato – oltre, beninteso, ai trekking estivi. Dice che fino a qualche anno fa aveva clienti un po’ di tutto il mondo, ma ormai sono soprattutto cinesi. I suoi concorrenti hanno traiettorie analoghe.
Oggi ha quattro collaboratori fissi e una ventina di jeep, gestisce un ostello a Irkutsk e organizza escursioni per piccolissimi gruppi, dalle visite a Olhon ai “gran tour del ghiaccio”, oppure trekking sui pattini o sugli sci, o addirittura traversate a piedi con campeggio sul lago gelato – oltre, beninteso, ai trekking estivi. Dice che fino a qualche anno fa aveva clienti un po’ di tutto il mondo, ma ormai sono soprattutto cinesi. I suoi concorrenti hanno traiettorie analoghe.
Dimitri (anche questo nome è cambiato, ndr)
lavora nel turismo da quando, alla fine degli anni novanta, ha perso il posto
in un’azienda energetica dove faceva il venditore: “Allora un turista americano
mi ha dato il business plan, l’idea di organizzare escursioni per visitatori
stranieri, pubblicizzandomi sul web” (in comune Vladimir e Dimitri hanno un
ottimo inglese). Anche lui ha lavorato con clienti americani ed europei, “ma da
quando il valore del rublo è sceso, i più arrivano dall’Asia orientale”.
Il loro però resta un turismo di piccoli
numeri, per sportivi e spiriti avventurosi. Ben altri investimenti stanno
arrivando nella regione del Baikal. Lo scorso ottobre per esempio un consorzio
cinese ha annunciato l’intenzione di
investire undici miliardi di dollari, insieme a un partner russo, per creare
sul lago “attrazioni turistiche, trasporti e infrastrutture di classe mondiale”
(world class, qualunque cosa ciò significhi). Già, cinesi. Qualcuno
parla di “invasione”, ma è logico: è un grande paese, con una classe media in
espansione, soldi da investire, e vicino.
Certo è che il turismo sta già
trasformando il paesaggio umano. Kuzhir, al centro di Olhon, dove approdano i
traghetti dalla terraferma (d’estate) e l’autostrada di ghiaccio (d’inverno),
era fino a una decina d’anni fa uno sperduto villaggio di poche case di legno,
con l’unico ufficio postale dell’isola, la scuola elementare e un paio di
negozi. Strade sterrate, gelido d’inverno e polveroso d’estate. Ora il
villaggio sembra in preda a una frenesia di capitalismo selvaggio.
Molte vecchie case di legno si sono
trasformate in ostelli e nuove stanno sorgendo. Le strade restano sterrate, ma
sulla via principale sono comparsi un paio di caffè e un’agenzia turistica. In
cima all’abitato c’è un supermercato che sembra il vero centro del paese (il
reparto degli alcolici occupa un terzo della superficie, con un assortimento di
vodka che va dalle bottiglie popolari da pochi rubli alle marche più pregiate
per i visitatori).
Forse un’indicazione sul futuro di Kuzhir
si può rintracciare a Listviyanka, località sulla costa occidentale dove il
lago sbocca nel fiume Angara. Chiamata “la riviera di Irkutsk”, Listviyanka è
stata la prima località turistica della zona, con la terrazza di hotel elegante
e un po’ démodé che si affaccia sul fiume, e un sanatorio
dell’era sovietica arrampicato sulla collina.
Ma si è sviluppata con una successione
disordinata di hotel in falso stile siberiano di legno, oppure stravaganti
palazzine a forma di faro (ma con pretese di world class),
affollati da gruppi di cinesi, o più spesso nuove costruzioni sgraziate, fast
food e mercatini di souvenir per i gitanti della domenica.
La crisi ecologica
Piccoli imprenditori del turismo come Vladimir temono “l’invasione” dei cinesi: non tanto dei turisti, che in fondo portano denaro, quanto dei tour operator che progettano infrastrutture, hotel, trasporti e, teme, toglieranno spazio ai piccoli operatori locali come lui. E in sovrappiù, dice, “porteranno plastica e cemento”.
Piccoli imprenditori del turismo come Vladimir temono “l’invasione” dei cinesi: non tanto dei turisti, che in fondo portano denaro, quanto dei tour operator che progettano infrastrutture, hotel, trasporti e, teme, toglieranno spazio ai piccoli operatori locali come lui. E in sovrappiù, dice, “porteranno plastica e cemento”.
Sta di fatto che intorno al lago Baikal
ormai molti parlano di crisi ecologica. Marina Rikhvanova ne parla da
vent’anni. Mi spiega che come biologa si era trovata a studiare le mutazioni
nel genoma dei microrganismi lacustri presso Baikalsk, cittadina di circa
13mila abitanti sulla costa meridionale, dove la nota cartiera da decenni
scaricava tutti i suoi reflui direttamente nel lago: “Allora mi sono resa conto
che bisognava fare qualcosa, con urgenza, perché il lago non era più in grado
di smaltire quegli scarichi”.
Nel 1995, insieme a un piccolo gruppo di
persone, aveva cominciato a pubblicare una rivista su temi ambientali: si
chiamava Volna, Onda, e per l’epoca era una novità assoluta.
Scrivevano di inquinamento, rifiuti, di qualità dell’aria, “di problemi locali
e di temi globali, con notizie da tutto il mondo”. I primi numeri erano
ciclostilati, ricorda, poi poco a poco hanno preso una forma più professionale.
La pubblicazione si è interrotta nel 2008, dice, ma intanto aveva contribuito a
formare una generazione.
Nel frattempo era scoppiato il conflitto
attorno alla cartiera di Baikalsk. Quell’anno l’ente di stato per la protezione
ambientale aveva cominciato a imporre il rispetto della normativa sugli
scarichi, e vietato all’impianto di scaricare nel lago.
La Baikalsk pulp and paper mill,
privatizzata dopo la fine dell’Unione Sovietica, ormai era in contravvenzione,
e l’ente di stato per la protezione ambientale l’ha citata in giudizio. Ma il
conflitto si è trascinato a lungo, con movimenti di cittadini che chiedevano la
chiusura e i circa tremila lavoratori della cartiera che se la prendevano con
gli ambientalisti. Alla fine la cartiera ha chiuso nel 2009, ha riaperto l’anno
dopo grazie a una deroga concessa dall’amministrazione Putin, infine ha chiuso
in via definitiva nel 2013, per bancarotta.
A Baikalsk le ciminiere oggi restano
visibili, in riva al lago, ma la fabbrica vera e propria non c’è più,
smantellata e rottamata mentre l’ultimo amministratore ha ripreso la sua
attività in Carelia, la regione di boschi e cartiere che confina con la
Finlandia. “Ma il sito industriale non è mai stato ripulito”, osserva
l’ecologa, e resta intriso di sostanze tossiche. “Del resto nessuno sa cosa vogliano
farne. Corrono voci di investimenti cinesi, ma per farne cosa non si sa. In
ogni caso i mezzi d’informazione non ne parlano più”.
I lavoratori? Qualcuno è stato assunto in
altre cartiere nella regione, spiega Rikhvanova; qualcuno ha accettato di andare
in trasferta a lavorare per una compagnia petrolifera: un mese nel profondo
nord, un mese a casa. Qualcuno sopravvive con la pesca sul lago. In paese si
vede che molti faticano a superare la crisi. “Altri invece si sono messi ad
affittare camere ai turisti”.
L’eutrofizzazione del lago
Già, perché Baikalsk si sta trasformando in un centro di vacanze. Alle spalle della cittadina, addossata alle montagne, c’è un complesso per lo sci alpino, con skilift e alberghi e case di vacanze in mezzo al bosco: non grande, ma fa un certo effetto vedere le piste di sci dalla riva del lago.
Già, perché Baikalsk si sta trasformando in un centro di vacanze. Alle spalle della cittadina, addossata alle montagne, c’è un complesso per lo sci alpino, con skilift e alberghi e case di vacanze in mezzo al bosco: non grande, ma fa un certo effetto vedere le piste di sci dalla riva del lago.
La presenza umana si intensifica, il
turismo si espande, ma intorno al lago mancano impianti di depurazione, osserva
Rikhvanova. Il ghiaccio è galantuomo, nasconde tutto: ma d’estate, da qualche
anno, presso le zone abitate del lago, le rive si riempiono di minuscole alghe
filamentose. È la spirogira, alga considerata indicatore di contaminazione
fecale. “Pensate che all’estremo nord del lago c’è una cittadina,
Severobajkalsk, che non ha un depuratore: finisce tutto nel lago senza il
minimo trattamento”, continua l’ecologa.
Molti restano convinti che il lago si
“autodepuri”, e in passato era vero: ma ormai gli scarichi sono troppi. Il
dottor Oleg Timoshkin, dell’istituto limnologico dell’Accademia russa delle
scienze a Irkutsk, nel 2014 ha testimoniato davanti
alla Duma, il parlamento russo, spiegando che scarichi fognari, residui di
detersivi e altro provocano una crescita abnorme di microalghe nel lago Baikal,
e questa proliferazione priva l’acqua di ossigeno portando a soffocare gli
altri organismi viventi: si chiama eutrofizzazione.
Così d’estate sulle rive si accumulano
tonnellate di alghe che poi marciscono, insieme a miriadi di lumachine morte.
Pare che stiano morendo anche molte delle spugne naturali endemiche. Il dottor
Timoshkin e altri ricercatori ormai hanno firmato diversi articoli scientifici sul tema, su
riviste russe e internazionali.
Senza contare che una minaccia ancora più
drastica incombe sulla Siberia. Questo febbraio sul lago è arrivata un’ondata
di caldo che ha lasciato molti a bocca aperta: per alcuni giorni il termometro
è salito addirittura sopra lo zero nelle ore più calde, quando la normalità
sarebbe stata tra 10 e 15 gradi sotto lo zero. Un anticipo di primavera.
Passeggiata sul ghiaccio
Si può sviluppare il turismo senza uccidere il lago? Rikhvanova parla di piccoli progetti sostenibili, di percorsi ecologici, di conservare la biodiversità. Si tratta anche di trovare alternative per ridare lavoro agli abitanti, dice (poi verrò a sapere che lei stessa, che anni fa ha ricevuto il premio Goldman per il suo lavoro a difesa del Baikal, ha usato parte dei 25mila dollari del premio per finanziare alcuni progetti dei cittadini di Baikalsk per creare attività alternative dopo la chiusura della cartiera).
Si può sviluppare il turismo senza uccidere il lago? Rikhvanova parla di piccoli progetti sostenibili, di percorsi ecologici, di conservare la biodiversità. Si tratta anche di trovare alternative per ridare lavoro agli abitanti, dice (poi verrò a sapere che lei stessa, che anni fa ha ricevuto il premio Goldman per il suo lavoro a difesa del Baikal, ha usato parte dei 25mila dollari del premio per finanziare alcuni progetti dei cittadini di Baikalsk per creare attività alternative dopo la chiusura della cartiera).
Nel frattempo ha convinto un imprenditore
locale a sponsorizzare un impianto pilota di depurazione. Dice che
l’atteggiamento pubblico sta cambiando, ormai molti sono consapevoli che il
Baikal è in pericolo. Ma i piccoli progetti più o meno sostenibili saranno ben
poca cosa di fronte alle annunciate “attrazioni per turisti” e agli alberghi,
discoteche, sale divertimenti, fast food e processioni di pulmini sulla
riviera.
Eppure il ghiaccio mantiene la sua
alterità. Una domenica pomeriggio, a Baikalsk, gruppi di bambini giocano a
scivolare sul lago gelato. Poco più in là due donne trascinano un bimbo sullo
slittino. Gruppetti di giovani le sorpassano ridacchiando, due ragazzi corrono
in bicicletta. Gruppetti di camminatori, zainetti in spalla, tornano verso la
costa. A passeggio sul ghiaccio, con la luce obliqua del sole che comincia a
declinare dietro un promontorio e un convoglio della transiberiana che passa
lento sulla costa.
(*) reportage pubblicato su
«Internazionale». La prima foto è ripresa da Wikipedia.da qui
giovedì 23 marzo 2017
La frontiera del riciclo, energia dai liquami - Antonio Cianciullo
L'economia circolare applicata all'acqua. Una
ricetta in grado di recuperare materie prime preziose dagli scarti idrici,
riducendo malattie tropicali, dengue, colera, salvando centinaia di migliaia di
vite, creando posti di lavoro. È la proposta contenuta nel rapporto curato dal
Wwap (il World water assessment programme dell'Unesco) e reso noto in occasione
della Giornata mondiale dell'acqua che si celebra oggi.
Lo studio parte dall'aggiornamento di dati già noti (nel 2012 nei Paesi a reddito medio e basso sono state 842 mila le vittime dell'acqua contaminata e dei servizi igienici inadeguati) ma rovescia la prospettiva aggiungendo un senso economico positivo a una scommessa che finora era stata vista come un costo da pagare per evitare un danno: le acque reflue non più solo come elemento di possibile contaminazione sanitaria e ambientale ma come fonte di materie prime.
Grazie agli sviluppi delle tecnologie di trattamento, alcuni elementi nutritivi - come fosforo e nitrati - possono essere recuperati dai reflui fognari e dai fanghi per venire trasformati in fertilizzanti. Secondo le stime Onu, il 22% della domanda globale di fosforo, un minerale già eccessivamente sfruttato, potrebbe essere soddisfatto attraverso il trattamento dell'urina e degli escrementi umani. Paesi come la Svizzera hanno già approvato leggi sull'obbligatorietà del recupero di elementi nutritivi come il fosforo.
E dagli scarti liquidi si può estrarre anche energia: "Le sostanze organiche contenute nelle acque reflue", si legge nel rapporto, "potrebbero essere utilizzate per la produzione di biogas, che potrebbe quindi rifornire di energia gli impianti di trattamento dei reflui, agevolando così la loro trasformazione da impianti ad alto consumo di energia a impianti a consumo zero o addirittura produttori netti di energia. In Giappone il governo si è prefissato l'obiettivo di recuperare il 30% dell'energia da biomassa ricavabile dalle acque reflue entro il 2020. Ogni anno la città di Osaka produce 6.500 tonnellate di biosolidi ricavati da 43 mila tonnellate di fanghi di depurazione".
Oggi questo fiume di risorse liquide non solo viene sprecato ma spesso si trasforma in inquinamento, perché l'80 per cento delle acque reflue non è trattato. L'eccesso di sostanze nutritive (azoto, fosforo e potassio) provenienti dall'agricoltura intensiva e i solventi e gli idrocarburi prodotti dalle attività industriali accelerano così l'eutrofizzazione delle acque dolci e degli ecosistemi marini costieri.
Utile dal punto di vista economico- ecologico, il recupero delle acque diventa poi indispensabile se si guarda al trend dei consumi…
Lo studio parte dall'aggiornamento di dati già noti (nel 2012 nei Paesi a reddito medio e basso sono state 842 mila le vittime dell'acqua contaminata e dei servizi igienici inadeguati) ma rovescia la prospettiva aggiungendo un senso economico positivo a una scommessa che finora era stata vista come un costo da pagare per evitare un danno: le acque reflue non più solo come elemento di possibile contaminazione sanitaria e ambientale ma come fonte di materie prime.
Grazie agli sviluppi delle tecnologie di trattamento, alcuni elementi nutritivi - come fosforo e nitrati - possono essere recuperati dai reflui fognari e dai fanghi per venire trasformati in fertilizzanti. Secondo le stime Onu, il 22% della domanda globale di fosforo, un minerale già eccessivamente sfruttato, potrebbe essere soddisfatto attraverso il trattamento dell'urina e degli escrementi umani. Paesi come la Svizzera hanno già approvato leggi sull'obbligatorietà del recupero di elementi nutritivi come il fosforo.
E dagli scarti liquidi si può estrarre anche energia: "Le sostanze organiche contenute nelle acque reflue", si legge nel rapporto, "potrebbero essere utilizzate per la produzione di biogas, che potrebbe quindi rifornire di energia gli impianti di trattamento dei reflui, agevolando così la loro trasformazione da impianti ad alto consumo di energia a impianti a consumo zero o addirittura produttori netti di energia. In Giappone il governo si è prefissato l'obiettivo di recuperare il 30% dell'energia da biomassa ricavabile dalle acque reflue entro il 2020. Ogni anno la città di Osaka produce 6.500 tonnellate di biosolidi ricavati da 43 mila tonnellate di fanghi di depurazione".
Oggi questo fiume di risorse liquide non solo viene sprecato ma spesso si trasforma in inquinamento, perché l'80 per cento delle acque reflue non è trattato. L'eccesso di sostanze nutritive (azoto, fosforo e potassio) provenienti dall'agricoltura intensiva e i solventi e gli idrocarburi prodotti dalle attività industriali accelerano così l'eutrofizzazione delle acque dolci e degli ecosistemi marini costieri.
Utile dal punto di vista economico- ecologico, il recupero delle acque diventa poi indispensabile se si guarda al trend dei consumi…
mercoledì 22 marzo 2017
martedì 21 marzo 2017
Che vuoi che sia un po’ di glifosato - di Patrizia Gentilini*
Per l’Europa il glifosato – il noto erbicida della
Monsanto – non è cancerogeno. A leggere i titoli di alcuni “grandi” media non è
neanche dannoso. In realtà, perfino l’Echa, l’Agenzia europea per le sostanze
chimiche (tra i cui dipendenti molti hanno lavorato per l’industria chimica…),
non solo ha riconosciuto che provoca seri “danni agli occhi” ed è “tossico con
effetti duraturi sulla vita in ambienti acquatici”, ma ha comunque fornito un
parere senza considerare l’esposizione alla sostanza. Al momento della sua
immissione sul mercato, ricorda l’ematologa Patrizia Gentilini, il glifosato
era stato propagandato come una molecola assolutamente sicura, nociva solo per
le “erbacce” che disseccava, immediatamente degradabile, che non comportava
rischi di alcun tipo né per l’ambiente né per le persone. Il parere formulato
dall’Echa, per altro, ha considerato anche studi (non pubblicati)
dell’industria produttrice. Come ha prontamente replicato l’Agenzia per la
ricerca sul cancro, questo non inficia la classificazione di “cancerogeno
probabile”. Due cose sono certe. La prima: dietro questa molecola (strategica
anche per la produzione di Ogm) continuano a muoversi interessi enormi (è
l’erbicida più venduto al mondo e in Italia), specie ora che la Monsanto sta
per confluire nella Bayer. La seconda: oggi la battaglia contro il glifosato è
diventata il simbolo di una lotta più ampia contro l’agricoltura industriale di
cui tutti dovremmo occuparci, a cominciare dalla nostra spesa quotidiana
Il 15 marzo
2017 l’Echa, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche, ha dichiarato che
il glifosato –
il noto erbicida della Monsanto – non è cancerogeno e non provoca mutazioni genetiche,
riconoscendo tuttavia che provoca seri “danni agli occhi” ed è “tossico con
effetti duraturi sulla vita in ambienti acquatici”.
Conclusioni
quindi abbastanza simili a quelle cui già l’Efsa nel novembre 2015 era
pervenuta dichiarando che “improbabile” che il glifosato fosse cancerogeno. La
decisione dell’Echa era nell’aria e non ha quindi destato troppa sorpresa, ma è
comunque interessante analizzarla in dettaglio. Va ricordato che al momento della sua immissione sul
mercato il glifosato era stato propagandato come una molecola assolutamente
sicura, nociva solo per le “erbacce” che disseccava, immediatamente
degradabile, che non comportava rischi di alcun tipo né per l’ambiente né per
le persone. Già il fatto che ora se ne riconosca una tossicità duratura
per l’ambiente acquatico la dice lunga sulle rassicurazioni a suo tempo
fornite.
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Del resto è
innegabile che glifosato e il suo metabolita Ampa siano le sostanze più
presenti nelle acque superficiali e profonde della Lombardia – l’unica regione
che sistematicamente le ricerca. Le molecole tuttavia sono ampiamente presenti
anche nelle acque di Toscana ed Emilia Romagna dove
solo negli anni più recenti sono state ricercate. In Emilia Romagna su venti
campionamenti esaminati nel 2016 solo tre rientrano nel limite di 0,1µg/l e le
peggiori situazioni si sono riscontrate nel canale Fossatone a Cesenatico
con 1 ,2 µg/l di glifosato e a Ravenna dove l’Ampa raggiunge 6,1
µg/l.
Il recente
parere formulato dall’Echa ancora una volta ha considerato anche
studi non pubblicati, non sottoposti a revisione e condotti dall’industria
produttrice e – comunque come ha prontamente replicato la Iarc (Agenzia
per la Ricerca sul Cancro) questo non inficia la classificazione di “cancerogeno probabile“(2A) del marzo
2016 dalla stessa Iarc.
Inoltre,
come ammette la stessa Echa, il
parere è basato “esclusivamente sulle proprietà dannose della sostanza. Non
tiene conto della possibilità di esposizione alla sostanza e quindi non tratta
dei rischi di esposizione”. Questa affermazione è veramente
paradossale perché non può essere considerato rassicurante il fatto che il
glifosato non induca in modelli sperimentali il cancro o mutazioni genetiche,
senza che sia stata valutata l’esposizione prolungata e “a piccole dose”
quale quella cui sono sottoposti non solo gli agricoltori,
ma anche i consumatori dal
momento che il glifosato si ritrova ormai comunemente anche negli alimenti.
Di fatto
sono proprio queste esposizioni a rappresentare un rischio per la salute
delle persone, specie delle frange più vulnerabili quali donne in gravidanza e bambini,
che quindi non sono stati tenuti in alcun conto. Non va infine dimenticato che alcuni membri della commissione
dell’Echa presentano
potenziali conflitti di interesse avendo lavorato
anche per l’industria chimica.
Comunque, a
parte l’effetto cancerogeno, sono purtroppo molti
altri i rischi per la salute umana correlati alla molecola: in
particolare nella formulazione commerciale agisce anche come interferente endocrino e può
influenzare l’apoptosi in cellule placentari umane. Secondo un altro recente lavoro il glifosato,
rappresenta un fattore di rischio anche per la celiachia e
numerose altre patologie attraverso modificazioni del microbioma intestinale
(in particolare di lactobacilli e bifidobatteri). Si indurrebbero così
infiammazione, malassorbimento, allergie alimentari, intolleranza al glutine,
diminuita sintesi di vitamine e acido folico.
Una vasta opposizione sociale è già da tempo in atto
contro l’uso di questa sostanza: in Italia è presente da oltre un anno una coalizione di
quarantacinque grandi associazioni ambientalisti e anche in Europa l’8
febbraio scorso è sta avviata una Ice (Iniziativa Cittadini Europei) di valore
giuridico con l’obiettivo di spingere la Ue a vietarla definitivamente. È
necessario raggiungere 1.000.000 di firme nei prossimi mesi in tutta Europa e
già oltre 400.000 sono state raccolte. Qui si può sottoscrivere, unitamente
agli estremi di un documento di identità.
Dietro questa molecola si muovono interessi enormi,
specie ora che la Monsanto sta per confluire nella tedesca Bayer e non va dimenticato cheglifosato
è strategico nella produzione di organismi geneticamente
modificati (Ogm) quali mais, soia colza resi resistenti
all’erbicida, che quindi può essere usato in dosi ancora più massicce.
La battaglia contro il glifosato è comunque ormai
chiaramente diventata il simbolo di una guerra più ampia contro l’agricoltura
industriale.
Fortunatamente sta sempre più emergendo, anche nella comunità scientifica, la
necessità di un nuovo concetto di agricoltura in grado di preservare la
qualità dei suoli, la salubrità del cibo e quindi della salute umana.
Anche un
altro recentissimo lavoro non solo rafforza
questo concetto, evidenziando che la sostenibilità ambientale deve
improrogabilmente entrare nel calcolo della sostenibilità delle produzioni
agricole affinché questa possa essere considerata attuabile e realistica, ma
mette anche in seria discussione la necessità, data per scontata dal mondo
scientifico, di dover raddoppiare le quantità di cibo entro il 2050 per
garantire alimenti a tutta la popolazione mondiale e da sempre invocata per
giustificare l’agricoltura industriale.
* Oncoematologa a Forlì, Patrizia
Gentilini fa parte del Comitato Scientifico Isde e di Medicina democratica ed è
tra i primi firmatari di questo appello Siamo angosciati. Il grido dei medici.
lunedì 20 marzo 2017
parla Douglas Tompkins
La Tompkins Conservation si è impegnata a realizzare la più grande
donazione di terreno nella storia: 4,4 milioni di ettari, trasformati in parchi
nazionali.
È stato certamente uno dei sogni di Douglas Tompkins e
della moglie Kristine McDivitt, quello di realizzare una delle aree
protette più grandi al mondo, per fermare la perdita di biodiversità. E con
quest’ultimo gesto, la fondazione Tompkins
Conservation ha raggiunto lo scopo. Il 15 marzo scorso ha
infatti donato al
Governo cileno 4,4 milioni di ettari di terreno, che serviranno a
realizzare 5 nuovi parchi nazionali. Tre volte la dimensione del
parco di Yosemite e di Yellowstone messi insieme.
Si tratta della più grande donazione di terreno da parte di un ente
privato ad un paese. “Avrei voluto che mio marito Doug, il quale sogno
ha ispirato l’accordo di oggi, fosse qui in questo giorno memorabile”, ha
dichiarato Kristine McDivitt Tompkins. “So che se Doug fosse stato qui oggi,
avrebbe affermato che i parchi nazionali sono la più grande espressione
di democrazia che una nazione possa realizzare, proteggendo i
capolavori di una nazione per tutti i suoi cittadini”.
I parchi nazionali sono la più grande espressione di democrazia che una
nazione possa realizzare.
Una donazione storica, che servirà ad estendere l’area protetta del Pumalin
Park e del Patagonia Park e di espandere la superficie di protezione per altri
tre parchi. “Stiamo lasciando in eredità al paese la più grande creazione di
aree protette della nostra storia”, ha detto il presidente della Repubblica
Bachelet, dopo la firma dell’accordo…
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domenica 19 marzo 2017
allacciare le scarpe - Giulio Cavalli
Ogni anziano che incontrate in giro
per la città ha un'intera biblioteca nella pancia. Se riuscissimo a
rinnamorarci della memoria i nostri anziani sparsi nei mercati, quelli che
faticosamente risalgono le scale di un ufficio postale e quelli che sorridono
commossi ad ogni bambino che incrociano sul marciapiede sarebbero i tesori
delle nostre città, da raccontare nelle guide per chi viene da fuori. Forse per
questo il piccolo gesto di William Harris, un autista di bus nella verdissima
Cork che in terra irlandese ha deciso fermare il bus, alzarsi dal suo
posto di guida e scendere per allacciare le scarpe a un'anziana signora è
un'impresa minima che profuma della cura e della storia dei tempi. E fa bene al
cuore.
La foto l'ha scattata Clara Ní
Bhriain, una studentessa universitaria che, pubblicandola su Facebook, ha
voluto sottolineare come quel piccolo gesto le abbia svoltato la giornata:
Clara racconta che l'autista ha avvisato l'anziana di avere le scarpe slacciate
e, dopo avere capito che la signora era troppo instabile per riuscire a
chinarsi, "ha spento la vettura ed è sceso". L'immagine di William
accovacciato sotto la gamba sottile della signora e la mano di lei che gli
tiene la spalla come appoggio e per gratitudine è la fotografia della cura. Del
prendersi cura come coraggio di inginocchiarsi per accarezzare le fragilità
degli altri, di chi sa bene quanto conti trovare il tempo per occuparsi
delle persone, più che per le cose.
Ci vorrebbero convincere che la
gentilezza e la premura per gli altri siano gli effetti di una molliccia
debolezza che non funziona con i nostri tempi. Ci vorrebbero fare credere che
con l'avanzare delle difficoltà e della disperazione ci salveremo solo se
impareremo a essere più egoisti. Ci dicono, in molti, che non bisogna farsi
distrarre troppo dai bisogni degli altri per risparmiare energie da dedicare a
noi e, al massimo, a quelli più vicini a noi. In un tempo in cui il federalismo
più pericoloso sembra essere quello delle responsabilità (schiere di persone
preoccupate dal fatto che il proprio quartiere sia tranquillo, che il proprio
condominio non abbia troppe beghe o addirittura che semplicemente il proprio
pianerottolo risulti in ordine) un autista che ferma il bus per
rivendicare il dovere di prendersi cura è un esploratore della felicità.
Quando il bus è ripartito, racconta
Clara, la signora ha mandato al bus un bacio soffiato con la mano. In quel
bacio c'è il lato migliore del mondo.
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