martedì 31 maggio 2016
Harambe e il nostro delirio antropocentrico - Rita (http://www.ildolcedomani.com/)
Sembra proprio che sui social e sui media sia difficile elaborare un pensiero che non vada oltre una faziosità tipica da stadio, eppure, sulla vicenda di Harambe, credo che ci si debba sforzare di fare qualche considerazione in più perché è paradigmatica non solo del nostro rapporto con gli altri animali, ma anche della rappresentazione di noi stessi in quanto presunta specie eletta la cui sacralità dei singoli non deve essere messa in discussione.
Innanzitutto,
non bisogna smettere di ripetere quanto gli zoo e altre strutture che
imprigionano gli animali siano da bandire totalmente. Si tratta di luoghi
intrisi di violenza sia sul piano pratico, che su quello simbolico e
rappresentativo. Pratico, perché tenere in gabbia (o anche in recinti più ampi,
poco importa) individui appartenenti a specie che necessitano di esprimere ben
altre esigenze etologiche (correre, arrampicarsi sugli alberi, socializzare,
sperimentare il mondo con tutta la varietà di stimoli che offre, predare ecc.)
è una forma di violenza immane. Significa in pratica castrare, mutilare,
dominare, impedire a qualcuno di essere e di stare nel suo mondo.
Sul piano
rappresentativo, quindi del significante, si tratta di un’altrettanta forma di
violenza dalle numerose sfaccettature: innanzitutto si trasmette ai bambini
l’idea che la nostra specie possa impunemente controllare e imprigionare altri
animali, quindi l’antropocentrismo in una delle sue manifestazioni peggiori,
secondo poi li si espone a un rapporto tra soggetto che guarda e soggetti
guardati che non è paritario, non è relazionale, ma è anzi, oltre che di
dominio, spesso di scherno e denigrazione. Tra gli zoo moderni e quelli ottocenteschi
non vi è nessuna differenza. Si possono chiamare “bioparco” quanto volete, ma
le parole in questo caso sono solo orpelli per nulla aderenti alla realtà che
vorrebbero indicare in quanto si tratta sempre della medesima struttura in cui
c’è appunto un osservante che dall’alto della sua presunta posizione di
superiorità osserva altri individui considerandoli fenomeni da baraccone. E non
può essere altrimenti perché altro non si può imparare. Cosa si può sapere
infatti del leone sedato e privato della possibilità di esprimere quelle che
sarebbero le sue caratteristiche di specie?
Mi è
capitato spesso, guardando dei video girati dai visitatori di zoo e strutture
simili, assistere a risate di scherno e azioni di disturbo nei confronti degli
animali imprigionati. Ragazzotti che si sentono superiori e più intelligenti
che fanno il verso ai loro cugini primati, deridendoli e facendoli arrabbiare,
senza minimamente capire che l’uso della parola, anziché del linguaggio
gestuale e del corpo, non fa di noi una specie superiore, ma solo diversa.
Assistere a tali manifestazioni di dominio è avvilente ed è la prova non della
nostra presunta superiorità e intelligenza, ma semmai della nostra incapacità
di guardare oltre l'orizzonte del nostro naso.
La questione
Harambe è paradigmatica anche per un altro verso: la sua vicenda ricorda molto
da vicino quella cinematografica di King Kong. Un gorilla viene estirpato dal
proprio habitat e portato nel nostro al solo fine di trarne profitto economico.
Poi, incapaci di gestirne la natura selvatica, viene ucciso. Doppio danno:
l’essere stato dapprima privato della sua libertà – che è già una prima morte
psicologica – e poi materialmente privato della vita. In questo, come in tanti
casi reali, si assiste alla tragedia di un individuo che deve pagare con la sua
vita per errori tutti umani. E ci sarebbe anche molto da dire sulla maniera in
cui, dal momento in cui ci siamo tirati fuori dalla natura, cui continuiamo
però ad appartenere in quanto animali, abbiamo iniziato a temere e stigmatizzare
ogni comportamento che non appartenga (spesso a torto) al rango della
razionalità. Quel che si teme è la propria animalità (Freud direbbe che
la civiltà è soppressione degli istinti), quel che si mette in atto è una
rimozione della nostra natura animale, quel che inconsciamente manifestiamo è
la distruzione dell'animale per meglio esaltare la nostra presunta umanità
(ossia la costruzione culturale e fittizia che abbiam fatto di essa)*. Inoltre,
tutto ciò che riguarda il nostro comportamento viene sempre definito razionale,
ossia avente una motivazione logica e intelligibile, mentre tutto ciò che fanno
gli altri animali è imputabile al mero istinto. Pure qui si tratta di una pura
distinzione ideologica: perché mai se una donna protegge il proprio figlio
dovrebbe essere un comportamento logico mentre se lo stesso fa un'orsa viene
definito bruto istinto?
Paradigmatico
anche il modo in cui i media hanno trattato la vicenda, a cominciare dalla
terminologia usata: Harambe, è un esemplare appartenente a una specie in via
d’estinzione, mentre il bambino è IL bambino, la cui vita è
considerata sacra a prescindere (anche secondo le parole dell’etologo Alleva).
Ecco, stupisce constatare quanto persino un etologo, che dovrebbe conoscere
Darwin, ancora faccia questa distinzione ontologica tra animali da una parte, in
cui vi sono esemplari intercambiabili, quindi sostituibili e gli umani
dall’altra, in cui vi sono invece individui unici, portatori di una
irripetibile singolarità che non può essere ridotta a qualsivoglia
classificazione tassonomica.
Eppure
sarebbe bastato abbandonare questa ormai obsoleta prospettiva antropocentrica
per capire che tanto Harambe, quanto il bambino, erano soggetti unici di una
vita e che la vita non è sacra a prescindere, ma lo è proprio in quanto
irripetibile per ognuno. Ecco, dicevo, sarebbe bastato questo leggero
spostamento di prospettiva per riflettere meglio sul da farsi e per cercare una
soluzione che non si imponesse come scelta tra uno o l’altro, ma come
rispettosa di entrambi.
Forse una
soluzione diversa davvero non c’era (la sedazione poteva essere pericolosa
perché non si sarebbe potuta prevedere la reazione immediata del gorilla?), ma
quel che duole è constatare come non la si sia nemmeno cercata e senza pensarci
due volte si sia preferito uccidere l’animale non umano: per una petizione di
principio, per una impostazione solamente ideologica. Detto in altre parole:
per pura ignoranza e miopia.
Ed è stato
così per Alexandre, il giraffino fuggito dal circo alcuni anni fa, per Daniza,
l’orsa, rea di aver difeso i suoi cuccioli e per chiunque sia escluso
dall’appartenenza al regno superiore dell’umano.
Che questa
vicenda ci faccia riflettere: sul nostro falso concetto di umanità costituitosi
respingendo da noi l'animalità e su queste strutture lager che continuiamo a
finanziare danneggiando migliaia di individui e avvilendo anche la nostra
intelligenza perché, davvero, potremmo essere migliori di quanto siamo.
*citazione
da un mio precente articolo "Chi ha paura
degli animali?"
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lunedì 30 maggio 2016
ammazzando gorilla
Il gorilla
di uno zoo viene ucciso per trarre in salvo un bambino caduto
nel suo recinto. Accade a Cincinnati, negli States, dove in una manciata
di minuti un bimbo di 4 anni ha avuto la sfortuna di farsi un volo nel fossato
di poco più di 3 metri e di ritrovarsi faccia a faccia col gorilla di
pianura che se ne stava lì beato.
Il
gorillone, di circa 180 chili, di 17 anni e dal nome di Harambe,
era una sottospecie a rischio estinzione. Una volta scorto il bambino, si
sarebbe subito avvicinato a lui, scatenando le urla (come si può
sentire dal video che gira in rete in queste ore) e il panico generale…
…Circa
l’uccisione di Harambe, non chiediamoci tanto se la tragedia si sarebbe
potuta evitare, ma: sulla base di cosa esistono ancora gli zoo? Siamo
andati a chiederlo all'etologo Roberto Marchesini che è chiaro su un punto:
“Quello
che è successo allo zoo di Cincinnati è la dimostrazione di come gli zoo siano
strutture assolutamente da superare, non sono strutture educative, non sono
strutture dove in qualche modo si tutelano gli animali, ma sono semplicemente
dei grandi baracconi dove al primo problema la cosa più semplice da fare è
quella di ammazzare un animale”. Dunque? Questo zoo ha dimostrato una
incapacità totale di saper lavorare con gli animali. Non ha saputo leggere i
comportamenti dell'animale. Non aveva personale capace di entrare dentro la
gabbia e relazionarsi con l'animale. E sicuramente, come questo, ce ne sono
altri mille di esempi nel mondo. "Lo zoo è sempre una prigione
dove l'animale subisce un maltrattamento. Chiuderli in una gabbia non permette
agli animali di esprimersi per quello che sono", conclude
Marchesini...
Scoppia l'indignazione social per l'esecuzione del gorilla
Harambe, ucciso nella sua buca dello zoo dopo che un bambino di quattro anni è caduto nel suo recinto. Per
moltissimi navigatori del web Harambe, maschio di 17 anni, avrebbe dovuto
essere risparmiato, perché non non intendeva far male al bimbo.
E' stato lanciato l'hashtag #JusticeForHarambe, che ha fatto boom. Per molti sono i genitori del bimbo che vanno condannati per quanto è accaduto sabato scorso allo zoo, perché non sono stati in grado di sorvegliare il figlio. I dipendenti dello zoo hanno ucciso il gorilla (un bestione di 180 chili), che aveva preso il bambino caduto nel fossato, perché la situazione rappresentava una "minaccia per la vita" del bimbo…
E' stato lanciato l'hashtag #JusticeForHarambe, che ha fatto boom. Per molti sono i genitori del bimbo che vanno condannati per quanto è accaduto sabato scorso allo zoo, perché non sono stati in grado di sorvegliare il figlio. I dipendenti dello zoo hanno ucciso il gorilla (un bestione di 180 chili), che aveva preso il bambino caduto nel fossato, perché la situazione rappresentava una "minaccia per la vita" del bimbo…
…Nel 1987 accadde un incidente simile in uno zoo sull'isola
di Jersey, ma quella volta ci fu un lieto fine: un bambino di cinque anni cadde
nel recinto dei gorilla e perse conoscenza. Un gorilla schiena d'argento di
nome Jambo lo vegliò, allontanando gli altri animali del branco e carezzandogli
la schiena. Quando il bimbo si riprese scoppiò a piangere, i gorilla si
allontanarono permettendo al personale dello zoo di recuperarlo.
venerdì 27 maggio 2016
giovedì 26 maggio 2016
Legumi, guida pratica per un uso consapevole - Francesca Spiga
Ottima fonte di proteine vegetali e carboidrati, con un basso
contenuto di grassi e ricchi di sali minerali, vitamine e fibra, dall’elevato
potere saziante, adatti alla dieta delle persone affette dalle più svariate
patologie e comprendenti una varietà di tipologie talmente vasta da riuscire ad
accontentare i gusti di tutti, i legumi sulla carta sono l’alimento perfetto,
quello che dovremmo consumare in grandi quantità, diversamente da tanti altri
cibi, eppure il loro utilizzo in cucina sta sensibilmente calando tanto che
molti bambini non ne conoscono neppure il sapore e diversi adulti non hanno ben
chiaro cosa siano tanto da confonderli spesso con le verdure (utilizzandoli
quindi come contorno) oppure con i cereali in chicco come farro, riso, orzo
(utilizzandoli quindi come primo piatto a cui far seguire il secondo proteico
di origine animale).
Forse anche per questi motivi il 2016 è stato eletto dall’ONU
l’anno internazionale dei legumi. Durante questi mesi la FAO avrà il compito di
informare i cittadini sulle caratteristiche nutrizionali dei legumi; una delle
prime iniziative, per esempio, è stata quella di pubblicare sul suo sito (guarda) una raccolta comprendente 850 ricette
internazionali che
vedono protagonisti assoluti i legumi.
I legumi sono i semi secchi dei bacelli, comprendono decine
di specie e un esorbitante numero di varietà che si possono trovare nelle
diverse parti del mondo.
Vengono chiamati spesso “carne dei poveri” per il loro
elevato contenuto in proteine: 100gr di manzo apportano infatti 21,8gr di
proteine contro i 20,9gr per 100gr di ceci, 23,6gr dei fagioli e 36,9gr della
soia. La loro biodisponibilità (la quota che effettivamente viene assimilata
dal nostro organismo) è sicuramente minore rispetto alla carne ma è molto
semplice raggiungere la quota proteica minima e superarla se la nostra dieta è
varia ed energeticamente adeguata. In ogni caso ciò non toglie che anche chi
segue una dieta onnivora potrebbe inserire qualche volta a settimana i legumi
in sostituzione ai prodotti animali, con grandi benefici per la salute ma anche
per la linea e il portafogli!
I legumi infatti non contengono colesterolo, sono molto
ricchi di fibra e minerali come calcio, magnesio, potassio e zinco, essendo
privi di glutine sono adatti anche alla dieta di chi è affetto da malattia
celiaca o soffre di Gluten Sensitivity, inoltre, pur
contenendo carboidrati, possiedono un basso indice glicemico rappresentando
quindi un alimento adatto anche ai soggetti diabetici. In più hanno bassi costi
di produzione e di vendita e si prestano ad essere utilizzati in tantissime
preparazioni culinarie.
Ora, dopo queste righe, in tanti starete pensando che la
prossima volta che andrete a fare la spesa inserirete nel carrello degli
“ottimi” legumi già cotti in barattolo che così non fate neanche la faticaccia
di cucinare, tuttavia questo non è un buon modo per consumarli dal momento che
possiedono un diverso valore nutritivo e le loro proprietà benefiche potrebbero
non essere presenti, sono inoltre dei prodotti ad alto tenore di Sodio, da
evitare soprattuto nei soggetti ipertesi e/o con problemi di ritenzione di
liquidi.
I legumi secchi richiedono un lungo periodo di ammollo prima
della cottura, solitamente dalle 6 alle 12 ore, e lunghi tempi di cottura che
possono variare in funzione della varietà e del metodo di cottura, ma che sono
necessari al fine di inattivare alcuni fattori antinutrizionali e aumentarne la
digeribilità. Nel caso in cui, anche con lunghi ammolli e lunghe cotture, siano
fonte di gonfiore addominale e meteorismo, possono essere passati e ridotti in
crema, per chi è particolarmente sensibile al posto del frullatore si può
utilizzare il passaverdure che riesce ad imprigionare il rivestimento dei
legumi (la cosidetta “pellicina”), maggiore causa di gonfiore. Ancora in
alternativa possono anche essere utilizzate le varianti decorticate che non
presentano il problema.
Un altro accorgimento da adottare per rendere i legumi più
digeribili è quello di aggiungere un piccolo pezzo di alga Kombu(reperibile in qualsiasi negozio di articoli
biologici) in ammollo e un altro in cottura che verrà poi eliminato, ed
effettuare la cottura in pentola a pressione o di terracotta. Tuttavia mi sento
di fare una piccola raccomandazione: quando si ingeriscono degli alimenti
contenenti tanta fibra un minimo di gonfiore è normale ma anche giusto poichè è
il risultato del lavoro di intestino e flora batterica intestinale, basta
attendere la fine della digestione e tutto ritorna come prima con grandi
benefici acquisiti.
Ma come si consumano questi legumi? Per tornare al discorso
di prima, sono verdura, cereali o che cosa? I legumi non vanno confusi né con
la verdura né con i cereali che devono essere usati insieme ai legumi e non “al
posto di”. I legumi infatti sono carenti dell’amminoacido Metionina (chiamato
appunto amminoacido limitante), che è invece contenuto nei cereali che però, a
loro volta, sono carenti in Lisina, di conseguenza combinandoli insieme andiamo
a comporre un ottimo piatto unico dalle grandi prorietà nutrizionali. Ancora
una volta quindi la risposta ci viene data dai piatti della tradizione: pasta e
ceci o fagioli, riso e lenticchie e ottimi minestroni e zuppe di farro, orzo e
altri cereali in chicco con legumi e verdure.
Ma ora che arriva l’estate chi ha voglia di zuppe? I legumi
infatti, nell’accezione comune sono degli ingredienti invernali nonostante,
essendo secchi, non temono la stagionalità ma nessuno ci vieta di prepararci
delle ottime insalate di ceci, pomodori e rucola, o fagioli e cipolle rosse, o ancora
fare delle ottime creme prendendo magari anche spunto dalla cucina etnica, come
l’hummus della cucina araba.
Insomma, non ci sono più scuse per non consumare i legumi con
regolarità! Buon anno dei legumi a tutti!
Per completezza ecco una lista dei legumi che più facilmente
è possibile reperire e consumare nel nostro territorio: ceci, fagioli,
lenticchie, fagioli di soia, fagioli azuki, piselli, fave, lupini, cicerchie.
Francesca Spiga (Biologa nutrizionista)
mercoledì 25 maggio 2016
martedì 24 maggio 2016
se n'è andato Pluto, il cane del terremoto
“Se non c’è Pluto, vuol dire che non è una cosa importante”.
E’ la frase che io pronunciavo, scherzando (ma fino a un certo punto) se a una
manifestazione non vedevo comparire l’inconfondibile sagoma di Pluto. Pluto ju
cane, aveva una pagina facebook tutta sua, con migliaia di like. Era famoso,
Pluto, già prima del terremoto. Perché a ogni manifestazione lo vedevi
comparire col suo fido assistente Chicco a seguire (o più spesso precedere) le
sfilate. Alla Perdonanza era sempre presente, scompariva, o meglio, lo
nascondevano per evitare che fosse portato in canile, solo in occasione del
Corteo della Bolla. Ogni volta lui c’era. Ma è dopo il sisma del 6 aprile 2009
che la fama di Pluto ju cane ha iniziato a varcare i confini dell’Aquila. Pluto
è allora diventato “il cane del terremoto”, quel quadrupede che è rimasto in
centro storico anche quando il centro dell’Aquila era un cumulo di palazzi
svuotati da dentro. “Chissà se Pluto c’è ancora”, si chiedeva chi, col
caschetto in testa, entrava in centro accompagnato dai Vigili del fuoco. E
Pluto compariva, pelle e ossa. Ma lui stava lì. Un giorno arrivò la voce che
Pluto fosse stato catturato e messo in un canile. Su facebook scoppiò la
rivolta. Migliaia di persone chiesero che il cane venisse rimesso al suo posto,
a fare la guardia alla città distrutta. Un giorno il Comune decise anche di
promulgare una ordinanza che, per tutelare “il decoro”, doveva impedire di dare
da mangiare ai randagi. Che, apro una parentesi, randagi non sono, in quanto
chippati e di fatto di proprietà pubblica e assegnati agli animalisti. Anche in
questo caso ci fu la rivolta, con addirittura manifestazioni al Castello, nel
punto in cui ancora oggi ci sono le cucce dei randagi. E in quel punto ci fu
anche la conferenza stampa degli ambientalisti quando il Comune ritirò la
delibera incriminata. Le cucce al Castello furono spostate una volta sola,
quando arrivò il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a inaugurare
l’auditorium del Parco realizzato da Renzo Piano. Allora i cani furono nascosti
un pochino più lontano, ma tornarono al loro posto il giorno dopo. Col passare
del tempo, Pluto era diventato un simbolo, a dispetto delle sue intemperanze
con i ciclisti (mitico fu l’inseguimento alla villa comunale al passaggio di
una tappa ciclistica) e di quelle con gli altri cani. Un writer di lanciano,
Macs, artista conosciuto a livello internazionale, ne fece uno straordinario e
commovente ritratto che per mesi campeggiò a via Garibaldi. Pluto ju cane era
il simbolo dell’Aquila che dopo terremoto aveva resistito a ogni avversità. Gli
aquilani, tutti o quasi, vedevano in quel quadrupede arrivato in piazza Duomo
chissà da dove nel 2003 e che negli ultimi mesi arrancava con le articolazioni
gonfie, il simbolo di chi, nonostante tutte le avversità, non ha mollato mai.
Qualcuno sta pensando di fare un monumento, da mettere in un angoletto al
Castello. Come Balto, il cane da slitta che salvò decine di persone portando il
vaccino in uno sperduto villaggio dell’Alaska, come quello a Taro e Jiro di
Osaka, in memoria dei due cani ritrovati un anno dopo che la spedizione li
aveva dovuti abbandonare in Antartide insieme ad altri 13 cani da slitta. O
come Hachikō, il cane famoso per la sua fedeltà, che aspettò per anni alla
stazione il padrone morto improvvisamente. Storie da film, è vero, ma Pluto ju
cane un simbolo lo era diventato per davvero. Almeno per noi…
domenica 22 maggio 2016
(le volpi a guardia delle galline) Inchiesta sul recupero della fauna selvatica a Padova. Un clamoroso caso di conflitto di interessi - Grig
Il Centro Recupero Animali
Selvatici della LIPU Padova chiude i battenti per una convenzione provinciale che
non gli è stata più rinnovata e che quindi impedisce l’affidamento della fauna
selvatica ferita agli esperti della Lega Italiana Protezione Uccelli, per la
cura, la riabilitazione e infine la restituzione all’ambiente naturale. Perciò
tutti a casa.
Tutti
davvero?
In
qualche meandro del sito internet della Provincia di Padova, scopriamo che la
LIPU Padova ha un “concorrente”. Si tratta dell’Associazione di
Volontariato Ornitologica “IL GHEPPIO ONLUS” con sede operativa a Villafranca
Padovana in Via G. Matteotti, 53, rappresentata dal Presidente pro-tempore,
Bison Giorgio nato a Villafranca Padovana il 29/11/1944.
Il disciplinare che
regola i rapporti tra la Provincia di Padova e la LIPU, e il disciplinare stipulato
tra la Provincia di Padova e “Il Gheppio” sono praticamente una fotocopia l’uno
dell’altro, eccetto che per 2 voci:
la
LIPU Padova all’art. 1 co. 2 ha un punto aggiuntivo che “Il Gheppio” non ha, e
suona così:“La LIPU si impegna a svolgere le seguenti attività: 2.
prestazioni gratuite per la visita e le prime eventuali cure veterinarie da
parte dei volontari L.I.P.U.;”. “Il Gheppio” invece ha a sua volta una
voce (art.1 punto 4) che la LIPU non ha: “L’Associazione
di Volontariato Ornitologica “IL GHEPPIO ONLUS” si impegna a fornire le
seguenti prestazioni: detenzione dei soggetti di cui non è stata possibile la
riabilitazione al volo;”. La LIPU dunque può ospitare degli uccelli per un
tempo limitato, anche se non più curabili.
Tecnicamente,
invece, “Il Gheppio” può detenere a vita uccelli selvatici “compromessi” (non
ci è dato sapere se l’infermità venga documentata da un medico veterinario
oppure sia frutto di autocertificazione da parte dei responsabili della
struttura).
Che
strana difformità di trattamento ad opera del Dirigente del servizio caccia e
pesca, Dott. Renato Ferroli…
Ma
chi sono allora i responsabili del “Centro recupero fauna selvatica Il
Gheppio”? Diamo un’occhiata all’organigramma.
Il Presidente è un
certo Giorgio Bison, il Vicepresidente risponde al nome di Patrizio Carraro, il
Segretario si chiama Mattia Gobbin. A queste tre persone dobbiamo aggiungerne
una quarta, tale Enrico Volpin, che compare, nel disciplinare della Provincia
di Padova, tra i collaboratori de “Il Gheppio” autorizzati a detenere fauna
selvatica presso la propria abitazione. Cominciamo da Giorgio Bison che
sappiamo essere nato a Villafranca Padovana, dove del resto si trova la sede
del Centro recupero fauna selvatica. Proviamo un po’ di combinazioni sul motore
di ricerca e inseriamo qualche parola magica e voilà, scopriamo che Giorgio
Bison è Presidente della Federazione Italiana Della Caccia nella sezione
comunale di Villafranca Padovana. Mah?! Accanto al nome di Bison leggiamo
una sigla “UCIM”. U.C.I.M. sta per “UNIONE CACCIATORI ITALIANI MIGRATORISTI” ed è definito “settoriale della
Federcaccia”. Sì sa, ogni cacciatore ha le sue preferenze: ci sono quelli che
amano la caccia grossa (safari, cinghiali, ecc.) e poi ci sono quelli che
cadono nella follia per uccelli migratori di pochi grammi o anatre migratrici
che arrivano dalla Mitteleuropa, dalla Scandinavia o dalla Siberia. Uccelli che
si fanno qualche migliaia di chilometri in volo per farsi massacrare in Italia.
In
gergo, i “migratoristi”, sono proprio quelli che vanno a caccia di uccelli
migratori (caccia specialmente da appostamento fisso con utilizzo di uccelli da
richiamo in gabbia). Il Presidente del “Centro recupero fauna selvatica Il
Gheppio” di Villafranca Padovana è una di queste persone.
Ma
Giorgio Bison è anche tra i 10 componenti del Comitato Direttivo dell’Ambito
territoriale di caccia PD1 “Alta Padovana”. L’Ambito territoriale di caccia è
una suddivisione del territorio agro-silvo-pastorale dove si esercita la
caccia, ed è amministrato da una struttura di tipo associativo con interesse
pubblico che opera a fini di gestione faunistico-venatoria del territorio
all’interno di confini fissati dal piano faunistico-venatorio regionale (Piano
Faunistico – Venatorio Regionale approvato con L. R. n. 1/2007).
Questi
enti di diritto privato, quali sono gli ATC, non si occupano solo della
distribuzione dei tesserini venatori regionali dei cacciatori residenti
nell’ambito di competenza per conto della Provincia, ma orchestrano la
cosiddetta “riqualificazione ambientale faunistica”, che dal nome sembra una
figata, nella realtà si tratta di acquisto e lancio di migliaia di animali
pronta-caccia (lepri, fagiani, starne,
ecc.), di realizzazione di allevamenti di fauna stanziale domesticata,
organizzati in forma di azienda agricola, nonché di massacro di tutti gli
“elementi di disturbo alla caccia”: ad esempio, massacro delle volpi e dei
Corvidi.
sabato 21 maggio 2016
Il primato verde della Germania: per due giorni solo rinnovabili – Luca Pagni
C'è un fantasma che si aggira per l'Europa
e sta spegnendo le centrali elettriche alimentate con le fonti tradizionali,
che siano il carbone o il gas naturale. A tutto vantaggio delle fonti
rinnovabili, il cui uso è cresciuto al punto negli ultimi anni da riuscire ad
alimentare, in alcuni paesi, tutta l'energia necessaria in certi momenti della
giornata. È accaduto in Germania, la nazione guida dal punto di vista economico
d'Europa. Proprio questo motivo, grande consumatrice di energia. Eppure, nelle
ultime due domeniche, le fonti rinnovabili hanno coperto rispettivamente il 90
e il 99 per cento del fabbisogno.
Questo è avvenuto nella giornata in cui
fabbriche e uffici sono per lo più chiusi e la minore domanda ha portato i
prezzi dell'energia in negativo: cosicché solo le rinnovabili (visto che sole e
vento non costano) hanno prodotto elettricità. Un risultato ancora più
clamoroso, se si pensa che le rinnovabili in Germania al momento coprono nel
corso dell'anno non più del 30 per cento del fabbisogno complessivo. Ma è anche
vero che in Europa la Germania è il paese che ha installato più megawatt di
fotovoltaico di tutti.
Il record tedesco, però, è insidiato dal "piccolo" Portogallo. Dove, l'altra settimana, il 100 per cento del fabbisogno è stato coperto dalle rinnovabili per quattro giorni consecutivi. Per la precisione, il Portogallo ha usato solo energie verdi (per lo più da fonte eolica) dalle 6.45 di sabato 7 maggio alle 17.45 di mercoledì 11. In tutto, 107 ore in cui non si è dovuto far ricorso all'elettricità prodotta da centrali termolettriche. Del resto, il Portogallo è un paese che già dal 1994 ha iniziato la sua uscita dai combustibili fossili, mettendo al bando gli impianti a carbone.
Anche se il dato più clamoroso rimane il record raggiunto più di un anno fa dalla Danimarca, quando l'energia prodotta dai suoi impianti eolici ha coperto il 140 per cento del suo fabbisogno. Mentre, sempre grazie alle rinnovabili, la Gran Bretagna ha potuto per la prima volta in oltre 100 anni (il 10 maggio scorso) fare a meno del carbone.
E L'Italia? È uno dei paesi che sul fronte delle rinnovabili ha fatto più strada negli ultimi anni. Tanto è vero che - secondo i dati forniti da Terna, la società che assicura il "dispacciamento" dell'energia lungo tutta la penisola - la percentuale di fabbisogno coperta dalle rinnovabili si aggira sul 40 per cento del totale. Ma anche per il nostro paese ci sono state giornate in cui il risultato è stato più elevato: in particolare, il 25 aprile scorso, in alcune ore le energie verdi hanno raggiunto una quota del 70 per cento.
Un record che potrebbe essere presto battuto. "Con l'arrivo del bel tempo stabile - spiega Antonio Sileo, ricercatore dello Iefe-Bocconi e direttore dell’osservatorio sull’innovazione energetica dell’I-Com - è facile pronosticare che anche nel nostro paese si arriverà al sorpasso stabile delle fonti rinnovabili su quelle tradizionali: questo sognifica che le rinnovabili andranno a coprire stabilmente il 50 per cento del fabbisogno. L'unico ostacolo potrebbe venire solo da una estate eccesivamente calda, perché in questo caso l'uso massiccio dei condizionatori,
soprattutto nel Nord Italia, richiederà
una tale quantità di energia concentrata in alcune ore della giornata che solo
le centrali termoelettriche possono soddisfare. Ma è solo questione di tempo,
la strada favorevole alle rinnovabili è ormai segnata".
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Sette proposte per l’agricoltura sostenibile del futuro - Greenpeace
1. restituire il controllo sulla filiera alimentare a chi
produce e chi consuma, strappandolo alle multinazionali dell’agrochimica;
2. sovranità alimentare. L'agricoltura sostenibile contribuisce allo sviluppo rurale e alla lotta contro la fame e la povertà, garantendo alle comunità rurali la disponibilità di alimenti sani, sicuri ed economicamente sostenibili;
3. produrre e consumare meglio: è possibile già oggi, senza impattare sull’ambiente e la salute, garantire sicurezza alimentare e, contemporaneamente, lottare contro gli sprechi alimentari. Occorre diminuire il nostro consumo di carne e minimizzare il consumo di suolo
per la produzione di agro-energia. Dobbiamo anche riuscire ad aumentare le rese dove è necessario, ma con pratiche sostenibili;
4. incoraggiare la (bio)diversità lungo tutta la filiera, dal seme al piatto con interventi a tutto campo, dalla produzione sementiera all’educazione al consumo;
5. proteggere e aumentare la fertilità del suolo, promuovendo le pratiche colturali idonee ed eliminando quelle che invece consumano o avvelenano il suolo stesso;
6. consentire agli agricoltori di tenere sotto controllo parassiti e piante infestanti, affermando e promuovendo quelle pratiche (già esistenti) che garantiscono protezione e rese senza l'impiego di costosi pesticidi chimici che possono danneggiare il suolo, l'acqua,
gli ecosistemi e la salute di agricoltori e consumatori;
7. rafforzare la nostra agricoltura, perché si adatti in maniera efficace il sistema di produzione del cibo in un contesto di cambiamenti climatici e di instabilità economica.
Per contribuire alla crescita dell’agricoltura sostenibile, Greenpeace collabora con agricoltori e comunità rurali.
2. sovranità alimentare. L'agricoltura sostenibile contribuisce allo sviluppo rurale e alla lotta contro la fame e la povertà, garantendo alle comunità rurali la disponibilità di alimenti sani, sicuri ed economicamente sostenibili;
3. produrre e consumare meglio: è possibile già oggi, senza impattare sull’ambiente e la salute, garantire sicurezza alimentare e, contemporaneamente, lottare contro gli sprechi alimentari. Occorre diminuire il nostro consumo di carne e minimizzare il consumo di suolo
per la produzione di agro-energia. Dobbiamo anche riuscire ad aumentare le rese dove è necessario, ma con pratiche sostenibili;
4. incoraggiare la (bio)diversità lungo tutta la filiera, dal seme al piatto con interventi a tutto campo, dalla produzione sementiera all’educazione al consumo;
5. proteggere e aumentare la fertilità del suolo, promuovendo le pratiche colturali idonee ed eliminando quelle che invece consumano o avvelenano il suolo stesso;
6. consentire agli agricoltori di tenere sotto controllo parassiti e piante infestanti, affermando e promuovendo quelle pratiche (già esistenti) che garantiscono protezione e rese senza l'impiego di costosi pesticidi chimici che possono danneggiare il suolo, l'acqua,
gli ecosistemi e la salute di agricoltori e consumatori;
7. rafforzare la nostra agricoltura, perché si adatti in maniera efficace il sistema di produzione del cibo in un contesto di cambiamenti climatici e di instabilità economica.
Per contribuire alla crescita dell’agricoltura sostenibile, Greenpeace collabora con agricoltori e comunità rurali.
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venerdì 20 maggio 2016
Così stiamo divorando il suolo italiano - Davide Mancino
Maggiori emissioni di gas serra, perdita di biodiversità, scomparsa di
una risorsa non rinnovabile: quella del consumo di suolo è tutt'altro che una
questione estetica. Eppure esistono città, in Italia, in cui si può girare per
tutto il tempo senza trovare un minimo di spazio libero – non occupato
dall'uomo e dalle sue attività. Per questo è un significativo passo in vanti la
legge contro il consumo di suolo che è stata approvata dalla
Camera con 256 sì, 140 no e 4 astenuti. Per la prima volta si
fissa un obiettivo molto avanzato: azzerare la cementificazione entro il 2050.
Secondo dati resi disponibili dall'istituto superiore per la ricerca e la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), Torino è la grande città con la maggiore fetta di suolo consumato (57,6 percento), seguita a brevissima distanza da Napoli. Anche a Milano risultano numeri simili, mentre fra i centri principali Roma si trova assai più in basso (20 percento).
Eppure i valori più elevati non sono affatto in queste città. Al contrario, in diversi piccoli comuni trovare uno spazio non edificato è quasi impossibile. Che sia a Casavatore – 18mila abitanti appena a nord di Napoli – oppure a Melito o Arzano, ancora nel napoletano, la situazione non cambia troppo: lì il consumo di suolo supera il 75 percento, e proprio a Casavatore – record italiano – tocca un picco dell'85 percento.
Cosa significa, in pratica, "consumo di suolo"? Ispra lo definisce come "l'occupazione di una superficie in origine agricola o naturale", un processo dovuto soprattutto alla "costruzione di nuovi edifici, capannoni e insediamenti, all'espansione delle città". Oppure, altro caso, alla conversione di terreno in un'area urbana: come per esempio è successo a Milano nell'area dedicata a Expo.
"Oltre alla scomparsa di una risorsa non rinnovabile" – spiega Michele Munafò, ricercatore dell'Ispra – "il problema è la perdita delle funzioni che essa ci assicura. In primo luogo la produzione agricola, con tutta una serie di servizi di regolazione dei cicli naturali come quello delle acque. Se il suolo viene sigillato questa capacità va persa, e aumenta per esempio il rischio di inondazione. Scompare anche il supporto alla biodiversità. Direttamente, perché sappiamo molto poco di quanta ce ne sia del suolo anche se possiamo stimare che un quarto delle specie del pianeta viva sotto terra. Ma anche indirettamente, perché trasformandolo abbiamo un impatto anche sulle aree dove il suolo non è consumato in maniera diretta".
Il terreno, poi, è in grado di contenere il carbonio – molto più dell'atmosfera stessa – ma solo a condizione che non venga occupato artificialmente. "Abbiamo stimato", continua Munafò, "che negli ultimi cinque anni il suolo consumato dalle nuove costruzioni e infrastrutture ha portato a una perdita equivalente alle emissioni di CO2 di quattro milioni di auto. Come se ci fosse il 10 percento di veicoli in più che gira per le strade"...
Secondo dati resi disponibili dall'istituto superiore per la ricerca e la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), Torino è la grande città con la maggiore fetta di suolo consumato (57,6 percento), seguita a brevissima distanza da Napoli. Anche a Milano risultano numeri simili, mentre fra i centri principali Roma si trova assai più in basso (20 percento).
Eppure i valori più elevati non sono affatto in queste città. Al contrario, in diversi piccoli comuni trovare uno spazio non edificato è quasi impossibile. Che sia a Casavatore – 18mila abitanti appena a nord di Napoli – oppure a Melito o Arzano, ancora nel napoletano, la situazione non cambia troppo: lì il consumo di suolo supera il 75 percento, e proprio a Casavatore – record italiano – tocca un picco dell'85 percento.
Cosa significa, in pratica, "consumo di suolo"? Ispra lo definisce come "l'occupazione di una superficie in origine agricola o naturale", un processo dovuto soprattutto alla "costruzione di nuovi edifici, capannoni e insediamenti, all'espansione delle città". Oppure, altro caso, alla conversione di terreno in un'area urbana: come per esempio è successo a Milano nell'area dedicata a Expo.
"Oltre alla scomparsa di una risorsa non rinnovabile" – spiega Michele Munafò, ricercatore dell'Ispra – "il problema è la perdita delle funzioni che essa ci assicura. In primo luogo la produzione agricola, con tutta una serie di servizi di regolazione dei cicli naturali come quello delle acque. Se il suolo viene sigillato questa capacità va persa, e aumenta per esempio il rischio di inondazione. Scompare anche il supporto alla biodiversità. Direttamente, perché sappiamo molto poco di quanta ce ne sia del suolo anche se possiamo stimare che un quarto delle specie del pianeta viva sotto terra. Ma anche indirettamente, perché trasformandolo abbiamo un impatto anche sulle aree dove il suolo non è consumato in maniera diretta".
Il terreno, poi, è in grado di contenere il carbonio – molto più dell'atmosfera stessa – ma solo a condizione che non venga occupato artificialmente. "Abbiamo stimato", continua Munafò, "che negli ultimi cinque anni il suolo consumato dalle nuove costruzioni e infrastrutture ha portato a una perdita equivalente alle emissioni di CO2 di quattro milioni di auto. Come se ci fosse il 10 percento di veicoli in più che gira per le strade"...
giovedì 19 maggio 2016
paleocene, eocene, antropocene o telocene, l’era geologica della fine – bortocal
le notizie piu` importanti si trovano, in qualche
angolino dei media.
sono mezze nascoste, perché fanno paura.
La NASA comunica per il settimo mese consecutivo che
il mese appena passato e` il piu` caldo da quando si misurano le
temperature globali del pianeta.
ripassare gli annunci e` impressionante, scelgo a
caso:
Clima, Omm: il 2015 è lʼanno più
caldo di sempre
INVERNO SALTATO Clima, Nasa: “Gennaio 2016 più
caldo di sempre”
. . .
in questo momento in Italia ce ne accorgiamo di meno
(nella mia casa a 750 metri di altezza nelle Prealpi
al momento ho 13 gradi)
ma per un motivo molto semplice, questo:
come si vede dall’immagine, sull’Atlantico
settentrionale le temperature nell’aprile 2016 sono piu` fredde di un grado che
nel 1951.
e questo spiega anche le ondate di freddo e maltempo
che in questi giorni arrivano da ovest a raffreddare le nostre giornate.
. . .
ma anche questo era previsto e risulta comprensibile:
l’aumento globale delle temperature ha come effetto
locale il graduale spegnimento della Corrente del Golfo, che da sempre
manteneva l’Europa piu` calda di quanto normalmente dovuto alla sua latitudine.
e dunque, provvisoriamente, abbiamo aumenti di
temepratura minori, anzi addirittura temperature relativamente piu` fredde in
Europa, soprattutto in questa stagione.
la Corrente del Golfo riscaldava le acque dell’oceano
piu` vicino a noi,
mentre oggi invece la corrente del golfo si arresta a
meta` Atlantico, come sempre si vede dall’immagine.
. . .
bando agli effetti locali, dunque.
Aprile ha fatto segnare un record (il
settimo consecutivo) di temperatura.
I dati rilevati dalla Nasa indicano
che il 2016 sarà l’anno più caldo mai registrato e
probabilmente con ampio margine.
Il primato dello scorso mese batte quello precedente
del 2010 di 0.24 gradi centigradi ed è superiore di 0.87 rispetto alla media di
aprile.
. . .
“Se queste temperature sono in parte causate dal
fenomeno del Nino, il fattore determinante è il riscaldamento globlale dovuto
all’effetto serra.
I climatologi lanciano avvertimenti almeno dagli anni
Ottanta.
Ed è tutto ormai assolutamente scontato dal 2000 in
poi.
Quindi perché sorprendersi?”
Secondo Andy Pitman, direttore dell’Arc Centre of
Excellence for Climate System Science dell’Università australiana del New South
Wales, gli ultimi dati mettono in serio dubbio l’obiettivo fissato dalla COP21
di Parigi.
(come dice anche questo blog da tempi non sospetti)
“L’obiettivo di 1.5 gradi è solo un pio desiderio.
Non so neppure se riusciremo a raggiungere 1.5 gradi
se anche si bloccassero oggi stesso tutte le emissioni.
C’è una forte inerzia nel sistema”.
. . .
trovo altrove altri dati, da combinare con questi,
basta poco.
(e sono quelli che danno il titolo al post).
56 milioni di anni fa la Terra venne colpita dalla
peggiore catastrofe climatica prima di quella attuale.
viene chiamata Massimo termico del Paleocene-Eocene e
segna appunto il passaggio da un’era geologica all’altra, dal Paleocene
all’Eocene.
dal mondo degli animali antichi a quello degli animali
moderni.
Un improvviso aumento dell’anidiride carbonica (forse
rilasciata da giacimenti sottomarini per un aumento delle temperature degli
oceani) fece alzare le temperature del pianeta di 5 gradi.
questo porto` all’estinzione di molte specie e alla
sopravvivenza di alcune altre, che andarono poi gradualmente a ripopolare il
pianeta, quando le temperature tornarono a normalizzarsi.
lo studio dei sedimenti al largo del New Jarsey e
degli isotopi del carbonio e dell’ossigeno ha permesso di quantificare meglio
il fenomeno, secondo una ricerca appena pubblicata su Nature Geo-Science.
Allora le emissioni di Co2 nell’atmosfera erano di un
miliardo di tonnellate l’anno e durarono per 4.000 anni.
la CO2 provoco` l’aumento delle temperature.
ma forse un aumento delle temperature, dovuto ad altre
cause, provoco` a sua volta l’aumento delle temperature…
difficile trovare in natura rapporti di semplice causa
ed effetto, esistono anche i meccnaismi di feedback.
in ogni caso: 4.000 miliardi di tonnellate di CO2
distribuiti in 4.000 anni.
e un aumento devastante medio di 5 gradi delle
temperature del pianeta.
. . .
guardiamo all’oggi, adesso.
attualmente stiamo riversando nell’atmosfera 10
miliardi di tonnellate di CO2 l’anno.
cioe` ogni anno 10 volte l’anidride carbonica di 65
milioni di anni fa.
e senza considerare il metano e altri gas serra ancora
piu` pericolosi della CO2.
da quanto lo stiamo facendo?
diciamo da 100 anni, per semplificare?
allora abbiamo gia` raggiunto il 25% dell’obiettivo di
65 milioni di anni fa.
ma molto piu` in fretta.
l’aumento di 1,5 gradi di temperatura e`
gia` garantito.
anzi, e` gia` stato realizzato e superato.
e non c’e` proprio neppure l’ombra di nessun motivo
ragionevole per cui debba fermarsi.
anche considerando che stiamo continuando a immettere
CO2 nell’atmosfera allo stesso ritmo.
. . .
da qualche tempo chiamiamo l’epoca attuale
antropocene.
la consideriamo una nuova era geologica,
perche` e` gia` in corso la piu` spettacolare estinzione di massa
delle specie viventi della storia della Terra.
e la chiamiamo proprio cosi`, antrocene, l’era
geologica dell’uomo, perche` il protagonista indiscusso di questo
sterminio e` l’essere umano.
indiscutibilmente, ma non so come, il futuro dovra`
cambiare la definizione di questa nuova epoca geologica che viene fatta
iniziare dal 1950.
perche` indiscutibilmente la specie umana
sparira` dal pianeta nel giro di pochissime generazioni, forse soltanto di
qualche decennio.
e dunque sara` ridicolo chiamare antropocene una nuova
era geologica della Terra dove l’essere umano non esistera` piu`.
chiamiamola telocene, piuttosto: l’era geologica della
fine (telos, in greco).
stanno gia` scorrendo in sala i titoli di coda, non
vedete?
. . .
la cosa e`certa, non e` una fantasia.
possiamo provare a ritirarci sulle montagne per
sopravvivere un poco di piu`, almeno individualmente.
ma qui fra meno di cent’anni ci saranno comunque le
temperature del centro del Sahara.
arbusti, insetti e forse serpenti, niente di piu`.
. . .
chi mi legge di solito ha questo punto ridacchia.
a volte arrivano anche commenti stupidi: bene, cosi`
risparmio il riscaldamento…
sono risate nervose, lo sappiamo io e te.
. . .
nella categoria delle idiozie tranquillizzanti metteteci
pure anche questa intervista che adesso copio e incollo.
buonismo generico, ottimismo un tanto al chilo.
e` uno dei massimi studiosi del clima, dice
l’intervistatore.
pero` l’unica cosa che manca in queste previsioni
scritte apposta per tenere tutti tranquilli, sono i dati quantitativi visti
sopra.
. . .
siamo nel pieno di una catastrofe planetaria.
il tempo per riuscire a salvarsi e` passato.
forse sara` bene rendersene conto, giusto per
organizzare al meno peggio i tempi e i modi personali della fine.
io ai miei discendenti lascio una casa e un pezzo
di terra a mezza montagna.
vedo che le patate crescono molto bene qui.
e penso che potrebbero farlo ancora per un po’.
e adesso esco a farmi una passeggiata sui monti, per
oggi il mio dovere l’ho fatto.
pace a voi.
. . .
ecco l’intervista:
L’ecologo Rockström: “Le nostre chances di salvare la
Terra? Il 50%”
Intervista allo studioso svedese: “Nei prossimi 10-15
anni si gioca la partita per salvare noi e il pianeta”
RUDI BRESSA
È uno dei massimi esperti dei temi legati alla
sostenibilità e alla resilienza dei sistemi ecologici del pianeta.
Nel suo nuovo libro Grande mondo, piccolo pianeta(Edizioni
Ambiente), Johan Rockström, direttore dello Stockholm Resilience Centre, spiega
come l’umanità abbia raggiunto il punto in cui il pianeta non è più in grado di
compensare il nostro impatto senza conseguenze.
Ma c’è ancora spazio per una crescita prospera, a
patto di scegliere la sostenibilità come modello.
Il suo ultimo libro è una sorta di sintesi degli studi
condotti finora?
«Sì. Diciamo che si tratta del riassunto di decine di
anni di ricerche scientifiche su quelle che chiamiamo Earth system
sciences (Scienze del sistema terrestre, ndr), le discipline che
studiano come il pianeta opera e che misurano il nostro impatto su di esso.
Queste ricerche, portate avanti da me ma anche da altri scienziati che
collaborano col mio centro, ci hanno fornito la prova fondamentale del fatto
che abbiamo voltato pagina. Siamo passati da un piccolo mondo e un grande
pianeta – quando avevamo un impatto limitato sulla Terra – ad uno in cui
l’umanità ha raggiunto il limite della capacità della Terra di rispondere alla
pressione antropica senza conseguenze catastrofiche».
Nel libro usa il termine “”Antropocene. Come influirà
quest’epoca sulla società e sul futuro del pianeta?
«Io credo che l’Antropocene sia un punto di svolta per
l’umanità. La scienza oggi è d’accordo nell’affermare che siamo entrati in
quest’era negli anni ’50 del XX° secolo. Sono passati circa 60 anni ormai ma,
nonostante la nostra crescita non sia stata sostenibile, nei primi 40 anni
questo modello insostenibile ha portato una crescita considerevole e un
benessere diffuso per tutta l’umanità. Il pianeta aveva così una tale
resilienza, una tanto enorme capacità di assorbire abuso e stress, che non si
sono a lungo viste le conseguenze».
Ora però abbiamo raggiunto il limite.
«Dobbiamo comprendere una volta per tutte che quel
vecchio modello ha portato un relativo benessere economico, ma ha consumato e
inquinato il pianeta. È un modello che non funziona più. Ora il pianeta ci sta
mandando il conto. Dobbiamo cambiare logica e capire che se vogliamo che
l’umanità continui a prosperare ovunque, dobbiamo seguire una strada di
sviluppo sostenibile globale».
Questo cosa significa davvero?
«Significa un cambiamento drastico. Se vogliamo
restare all’interno di una zona di sicurezza, dovremmo condividere la quantità
di CO2 che possiamo ancora emettere e la quantità di combustibili fossili o di
acqua dolce che possiamo consumare con un numero sempre maggiore di persone.
Dovremo perciò cambiare il modo in cui pensiamo lo sviluppo economico. Il punto
fondamentale è che avere dei limiti, dei confini, non significa bloccare lo
sviluppo. La sostenibilità ci può aiutare a fare passi da gigante, producendo
tecnologia, buon cibo, buona energia. E lo possiamo fare in maniera
sostenibile. Non si tratta di tornare indietro, ma di entrare in un’era nuova
per l’umanità».
Come si immagina il pianeta tra 20 o 50 anni?
«Sono ottimista. Ma non nascondo di essere molto
preoccupato: potremmo non fare in tempo. Il 2015, spero, è stato l’anno della
svolta. È l’anno in cui i leader dei Paesi di tutto il mondo hanno adottato gli
Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (SDG, ndr). E poi c’è stata la COP 21 a
Parigi, dove si è deciso di decarbonizzare l’economia il più velocemente
possibile. La questione è: saremo abbastanza rapidi nell’evitare il punto di
non ritorno? Io penso che abbiamo un 50 per cento di possibilità di farcela, e
un 50 per cento di fallire. Tutto sarà deciso da quello che faremo nei prossimi
10-15 anni».
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