martedì 8 febbraio 2022

Sopravvissuti della Shoah ricordano gli animali - Paola Re

Con la risoluzione 60/7 del 01/11/2005, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 Gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. L’Italia ha formalmente istituito la giornata commemorativa, nello stesso giorno, alcuni anni prima con la Legge 211/2000. Chiunque, almeno negli anni della scuola, ha studiato o letto qualcosa sulla Shoah ma niente è più istruttivo delle testimonianze di chi abbia vissuto direttamente quell’esperienza.

Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto” di Charles Patterson, curato e tradotto da Massimo Filippi nell’edizione italiana 2015 EIR, è un libro che amo perché libero e coraggioso nell’aprire le porte a un mondo in parte inesplorato. Sulla base di un’ampia documentazione e bibliografia, presenta la radice comune dello sfruttamento umano e animale, attraverso lo studio delle innegabili somiglianze tra il modo crudele in cui i nazisti trattavano le loro vittime e quello in cui gli esseri umani trattano gli animali. Di fronte allo scetticismo di chi trova tale collegamento irrispettoso ed esagerato, Patterson, studioso di storia dell’Olocausto, riesce a essere convincente. Dopo un’analisi storica indispensabile per capire come si sia arrivati a una tragedia di tali dimensioni, l’autore dà voce ai protagonisti che, proprio a seguito di quell’esperienza drammatica, si sono impegnati a difendere gli animali comprendendo che la radice della violenza è una sola: il diritto del più forte sul più debole. Il libro è una risorsa preziosa da cui estrarre storie di vita e di speranza, tutte meritevoli di essere conosciute, ma ne citerò solo alcune.

In primo piano c’è la figura dello scrittore yiddish Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la Letteratura 1978, e scampato all’Olocausto rifugiandosi negli Stati Uniti. A lui il libro è dedicato, ispirandosi a un suo pensiero espresso nell’opera “L’uomo che scriveva lettere” : «Si sono convinti che l’uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia il vertice della creazione: tutti gli altri esseri viventi sono stati creati unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati. Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno.» La sua dura accusa a chi manifesta scetticismo su questo parallelo: «Dovreste andare a leggervi i rapporti sugli esperimenti che i nazisti effettuarono sugli ebrei nei loro laboratori e poi leggere i rapporti sugli esperimenti che vengono fatti oggi sugli animali. Allora vi cadranno le bende dagli occhi e sarà facile vedere la similitudine. Tutto quello che i nazisti hanno fatto agli ebrei, noi lo facciamo agli animali. I nostri nipoti un giorno ci chiederanno: dov’eri durante l’Olocausto degli animali? Che cosa hai fatto per fermare quei crimini orrendi? A quel punto, non potremo usare la stessa giustificazione per la seconda volta, dicendo che non lo sapevamo.» Nella prefazione al libro di Dudley Giehl “Vegetarianism. A way of life”, 1979, scrive: «Oggi sappiamo per certo, ma lo abbiamo istintivamente sempre saputo, che gli animali possono soffrire esattamente come gli esseri umani. Le loro emozioni e la loro sensibilità sono spesso più forti di quelle umane. Diversi filosofi e capi religiosi hanno cercato di convincere i loro discepoli e seguaci che gli animali non sono altro che macchine senz’anima, senza sentimenti. Chiunque però abbia vissuto con un animale – sia esso un cane, un uccello o persino un topo – sa che questa teoria è una sfacciata menzogna, inventata per giustificare la crudeltà. […] Tra uccidere animali e creare camere a gas come Hitler o campi di concentramento come Stalin, il passo è breve […]. Non vi sarà giustizia fin quando l’uomo reggerà un coltello o una pistola e li userà per distruggere coloro che sono più deboli di lui.» Divenne vegetariano nel 1962, dopo avere “pensato come un vegetariano” fin da bambino, rifiutando la macellazione: «Per anni ho desiderato diventare vegetariano. Non riuscivo a capire come fosse possibile parlare di misericordia e chiedere misericordia, parlare di umanitarismo e contro lo spargimento di sangue quando noi stessi spargiamo sangue – il sangue di animali e di creature innocenti. […] Essere vegetariano è la mia protesta verso il comportamento collettivo. Essere vegetariano significa essere in disaccordo – in disaccordo su come va il mondo oggigiorno. Carestie, crudeltà – dobbiamo prendere una posizione contro queste cose. Il vegetarismo è la mia presa di posizione. E penso che sia una presa di posizione consistente. […] Ogni cosa che ha a che fare con la macellazione, lo scuoiamento e la caccia mi evoca sempre disgusto e sensi di colpa tali che non possono essere descritti a parole. […] Spesso le persone sostengono che gli umani hanno sempre mangiato animali, come se questo giustificasse la continuazione della pratica. Secondo questa logica, non dovremmo neppure impedire l’omicidio, perché anch’esso è sempre stato praticato dall’inizio dei tempi. » In un’intervista rilasciata allo scrittore Richard Burgin nei primi anni Ottanta dichiara: «Io credo fermamente che le persone sensibili, coloro che riflettono sulle cose, devono necessariamente giungere alla conclusione che non si può essere buoni mentre si sta uccidendo una creatura, non si può essere a favore della giustizia mentre si prendono creature che sono più deboli per macellarle e per torturarle. […]. L’uomo che si nutre di carne o il cacciatore che partecipa alla crudeltà della natura, con ogni boccone di carne o di pesce sostiene che il diritto è del più forte.»

Alex Hershaft, fondatore di F.A.R.M. (Farm Animal Reform Movement) nel Maryland, trascorse parte della sua infanzia nel ghetto di Varsavia da cui fuggì per passare il resto della guerra nascondendosi dai nazisti nella campagne polacche. Visse il periodo dell’adolescenza in un campo profughi in Italia: «Ho conosciuto in prima persona che cosa significhi essere trattato come un oggetto senza valore, essere cacciato dagli assassini della mia famiglia e dei miei amici, essere caricato su un carro bestiame diretto al macello.» L’esperienza nella Polonia occupata dai nazisti ha reso Hershaft consapevole della somiglianza tra il trattamento riservato agli animali e quello riservato agli ebrei dai nazisti: «Nel pieno della nostra vita edonistica, ostentata e tecnologica, tra gli splendidi monumenti della storia, dell’arte, della religione e del commercio, esistono delle “scatole nere”. Queste “scatole nere” sono i laboratori di ricerca biomedica, gli allevamenti e i macelli: aree separate, anonime, dove la nostra società conduce i suoi sporchi affari fatti di violenza e sterminio di innocenti esseri senzienti. Queste sono le nostre Dachau, Buchenwald e Birkenau. Come i bravi cittadini tedeschi, abbiamo le idee chiare su cosa accade lì dentro, ma non vogliamo saperne nulla.» Divenne vegetariano: «Ho sempre sentito che c’era qualcosa di eticamente ed esteticamente osceno nel prendere un bell’animale senziente, colpirlo alla testa, tagliarlo a pezzi e rimpinzarmi. […] La mia esperienza mi ha portato a una continua ricerca della giustizia per gli oppressi e in questa ricerca ho scoperto presto che gli esseri più oppressi della terra sono gli animali non umani, e i più numerosi e i più oppressi tra loro sono gli animali d’allevamento.»

Edgar Kupfer-Koberwitz, ebreo, vegetariano, pacifista e obiettore di coscienza, fu condannato dai nazisti al campo di Dachau in cui scrisse un diario su pezzi di carta rubata che riuscì a nascondere sotterrandoli e dai quali ricavò il materiale per scrivere “Animal Brothers”, un saggio pubblicato dopo la guerra in cui spiegava perché non mangiasse animali: «Non mangio animali perché non voglio vivere sulla sofferenza e sulla morte di altre creature. Io stesso ho sofferto così tanto che riesco a sentire la sofferenza delle altre creature proprio grazie alle mie. […] Non  è facile capire come ora posso guardare a tutte le creature rispetto a venti anni fa, con quale libertà posso guardare negli occhi il cervo e la colomba, quanto mi senta fratello di tutte le creature, un fratello affettuoso per la lumaca, il verme e il cavallo, per i pesci e gli uccelli […] Non si possono perseguitare i propri fratelli, non si possono uccidere i propri fratelli. Capisci, adesso, perché non mangio carne?» Anch’egli traccia un parallelo fra il trattamento degli animali degli esseri umani: «Io penso che gli uomini saranno uccisi e torturati fino a quando gli animali saranno uccisi e torturati e che fino allora ci saranno guerre, poiché l’addestramento e il perfezionamento dell’uccidere deve essere fatto moralmente e tecnicamente su esseri piccoli. Penso che ci saranno prigioni finché gli animali saranno tenuti in gabbia. Poiché per tenere in gabbia i prigionieri bisogna addestrarsi e perfezionarsi moralmente e tecnicamente su piccoli esseri.»

Steward David, cresciuto a Chicago tra i sopravvissuti all’Olocausto, divenne attivista per i diritti degli animali: «Da ebreo cristiano cresciuto in un quartiere pieno di sopravvissuti dell’Olocausto e di gente che ha perduto i suoi cari, non penso di banalizzare il loro dolore. Ma non sono forse i macelli, gli allevamenti intensivi e i laboratori di ricerca, così accuratamente nascosti alla nostra vista, le Auschwitz di oggi? Dolore, violenza e sofferenza sono più accettabili solo perché inflitti ad animali innocenti che a persone innocenti?»

Mark Berkowitz, internato ad Auschwitz e oggetto di interventi chirurgici sperimentali sulla spina dorsale da parte di Joseph Mengele insieme a sua sorella gemella quando avevano dodici anni, si oppose all’utilizzo degli animali per esperimenti analoghi. Partecipò a una trasmissione radiofonica in difesa delle oche canadesi che un ispettore della contea del Rockland voleva radunare e uccidere con il gas o il veleno. Durante un incontro pubblico disse: «Anch’io sono stato un’oca.»

David Cantor, cresciuto a Filadelfia, dopo avere perso alcuni parenti durante l’Olocausto, divenne attivista per i diritti degli animali: «Come normali padri di famiglia fecero funzionare la macchina dell’Olocausto in Europa, oggi i leader delle comunità degli Stati Uniti richiedono il sistematico assassinio di massa di cervi e anatre solo per assecondare un comportamento naturale, e l’olocausto di otto miliardi di polli l’anno raggiunge la maggioranza delle persone sotto forma di pubblicità per popolari catene di fast-food e di apparizioni televisive di celebrità.»

Ci sono anche interessanti storie di donne.

Anne Muller, figlia di sopravvissuti ai campi di concentramento, e suo marito vivono a New York e sono a capo del Wildlife Watch e il Commettee to Abolish Sport Hunting: «Quando cresci sapendo che i tuoi familiari sono stati eliminati da un governo e da gente che non attribuiva loro alcun valore, o peggio, che riteneva di avere su di loro un potere assoluto e di poterlo esercitare con la forza bruta, prendendosi tutto, perfino le loro vite, non puoi fare altro che sentirti vicino a chi si trova in quella stessa situazione. Gli animali sono deboli, non hanno voce, non possono difendere sé stessi e gli altri. Anche noi eravamo così. […] Per la gran parte della società, la vita continuava come se nulla stesse accadendo. La gente aveva un’occupazione regolare, le persone addette ai campi di concentramento uscivano la mattina per recarsi al lavoro e tornavano la sera dalle amate famiglie per un pasto e un letto caldo. Per loro era solo un lavoro come lo è per il vivisettore, per il cacciatore che mette le trappole, il grossista di cacciagione, il pellicciaio e l’operaio di un allevamento intensivo.»

Lucy Rosen Kaplan ha iniziato a lavorare in favore della protezione degli animali come volontaria dell’Animal Legal Defense Fund e ha svolto attività legale a favore dei diritti animali. Il padre era stato internato nei campi di concentramento e la madre costretta ai lavori forzati per le S.S.: «Sono stata perseguitata dalle immagini dell’Olocausto tutta la vita e non c’è dubbio che fui attratta dai diritti animali per quelle somiglianze che avvertivo tra lo sfruttamento istituzionalizzato degli animali e il genocidio nazista.»

Anne Keleman, nata a Vienna, dove visse fino agli anni Trenta, attraverso il Kindertransport, un’organizzazione che conduceva in salvo i bambini ebrei, fu mandata in Gran Bretagna dove trascorse gli anni della guerra senza sapere che cosa fosse successo ai suoi genitori, cosa che scoprì successivamente. Impegnata come assistente sociale per gli anziani e nel salvataggio di animali randagi, si è sempre schierata a favore delle vittime «siano esse cani, gatti o persone.»

Jennifer Melton, consulente legale per la Rocky Mountain Animal Defense in Colorado, non è ebrea ma da quando a scuola ha appreso dell’Olocausto ha cercato di saperne di più e di applicare la lezione al presente: «Questa generale mancanza di rispetto, questa perdita del senso di solidarietà, l’attenzione concentrata solo sull’interesse personale senza alcuna considerazione per la sofferenza delle vittime, si applica alle più diverse esistenze, dai prigionieri di guerra agli animali spaventati in attesa di morire al macello, tra le urla dei propri simili.»

Barbara Stagno dirige l’area nordoccidentale di I.D.A. (In Defense of Animals) in California. Da piccola apprese che i nazisti avevano ucciso i suoi nonni e il pensiero di questa tragedia la accompagnò tutta la vita chiedendosi: «Come sia stato possibile che un così grande numero di persone abbia potuto diventare indifferente a un grado di sofferenza umana tanto estremo. Non è forse questa la vera lezione dell’Olocausto? Quella gente poteva fare qualsiasi cosa a coloro che considerava subumani. E ovviamente è la stessa cosa che noi facciamo agli animali.»

Susan Kalev, nata in Ungheria durante l’Olocausto, sopravvisse solo perché inserita in una lista di persone destinate in un campo di internamento, non ad Auschwitz. Ha lavorato come assistente sociale e psicoterapeuta. E’ vegan e tiene conferenze sulla salute e su una condotta di vita umanitaria; l’impegno per uno stile di vita nonviolento è diventato il lavoro della sua vita.

Il punto di discussione non è quello di equiparare milioni di persone uccise dai nazisti con milioni di animali uccisi da “gente che fa il proprio lavoro” ma di capire ciò che accomuna il trattamento riservato a entrambe le vittime: l’attribuzione di un numero, punto di inizio nel togliere loro la dignità, le condizioni di vita in cui sono costrette, l’uso spietato di carri bestiame per il trasporto, il perfezionamento della tecnologia nella loro eliminazione, la costante attenzione al rapporto costi-benefici: tutto ciò avviene ogni giorno in ogni Paese del mondo perché i cancelli di Auschwitz per gli animali sono ancora chiusi.

In questo senso ha ragione Albert Kaplan, figlio di ebrei russi immigrati negli Stati Uniti, il quale racconta che i sette anni passati in Israele gli hanno insegnato che la sua gente non è esente dalla crudeltà: «Le Auschwitz per animali sono ovunque in Israele e alcune di queste sono mandate avanti da sopravvissuti all’Olocausto. […] La maggioranza dei sopravvissuti all’Olocausto sono carnivori che non si preoccupano della sofferenza degli animali più di quanto i tedeschi si siano preoccupati della sofferenza degli ebrei. Che cosa significa tutto questo? Ve lo spiego. Significa che non abbiamo imparato niente dall’Olocausto. Niente. E’ stato tutto inutile. Non c’è speranza.»

Molti intellettuali perseguitati ed esiliati dal nazismo, pur non avendo vissuto nei campi di concentramento, hanno speso energie in difesa della causa animale.

Tra questi il filosofo e musicologo tedesco Theodor Wiesengrund Adorno che, pur non avendo conosciuto direttamente Auschwitz, ne ha dato una definizione lapidaria: «Auschwitz inizia quando si guarda a un mattatoio e si pensa: sono soltanto animali». In “Minima moralia. Meditazioni della vita offesa”, a proposito di bambini, scrive: «La reazione inorridita di un bambino di fronte allo sfruttamento degli animali svanisce nel tempo cedendo davanti alla perniciosa influenza dell’educazione quotidiana… I genitori, gli insegnanti, in modo ufficiale o amichevole, i medici, per non parlare del singolo potente che noi chiamiamo ‘tutti’, lavorano tutti quanti insieme per indurire il carattere del bambino rispetto a questo alimento a quattro zampe che, tuttavia, ama come facciamo noi, sente come noi.»

Max Horkheimer filosofo tedesco di origine ebraica, costretto nel 1933 a fuggire in Svizzera e poi negli Stati Uniti, ci ha lasciato una delle pagine più crude e toccanti ritraendo la società del suo tempo, purtroppo rimasta per certi aspetti tale e quale. Nel brano “Il grattacielo”, tratto dall’opera  “Crepuscolo” (1926-31) scrive: «Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra di loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capoufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati. Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo. Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali. Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato.»

Chissà che quel cielo stellato possa un giorno essere contemplato da tutti gli animali usciti dal loro inferno e che di quel giorno si possa celebrare la memoria.

da qui

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