Con la risoluzione 60/7 del 01/11/2005, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 Gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. L’Italia ha formalmente istituito la giornata commemorativa, nello stesso giorno, alcuni anni prima con la Legge 211/2000. Chiunque, almeno negli anni della scuola, ha studiato o letto qualcosa sulla Shoah ma niente è più istruttivo delle testimonianze di chi abbia vissuto direttamente quell’esperienza.
“Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto” di Charles Patterson,
curato e tradotto da Massimo Filippi nell’edizione italiana 2015 EIR, è un
libro che amo perché libero e coraggioso nell’aprire le porte a un mondo in
parte inesplorato. Sulla base di un’ampia documentazione e bibliografia,
presenta la radice comune dello sfruttamento umano e animale, attraverso lo
studio delle innegabili somiglianze tra il modo crudele in cui i nazisti
trattavano le loro vittime e quello in cui gli esseri umani trattano gli
animali. Di fronte allo scetticismo di chi trova tale collegamento
irrispettoso ed esagerato, Patterson, studioso di storia dell’Olocausto, riesce
a essere convincente. Dopo un’analisi storica indispensabile per capire come si
sia arrivati a una tragedia di tali dimensioni, l’autore dà voce ai
protagonisti che, proprio a seguito di quell’esperienza drammatica, si sono
impegnati a difendere gli animali comprendendo che la radice della violenza è
una sola: il diritto del più forte sul più debole. Il libro è una risorsa
preziosa da cui estrarre storie di vita e di speranza, tutte meritevoli di
essere conosciute, ma ne citerò solo alcune.
In primo piano c’è la
figura dello scrittore yiddish Isaac
Bashevis Singer, premio Nobel per la Letteratura 1978, e scampato
all’Olocausto rifugiandosi negli Stati Uniti. A lui il libro è dedicato,
ispirandosi a un suo pensiero espresso nell’opera “L’uomo che scriveva lettere”
: «Si sono convinti che l’uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia
il vertice della creazione: tutti gli altri esseri viventi sono stati creati
unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati.
Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in
eterno.» La sua dura accusa a chi manifesta scetticismo su questo parallelo:
«Dovreste andare a leggervi i rapporti sugli esperimenti che i nazisti
effettuarono sugli ebrei nei loro laboratori e poi leggere i rapporti sugli
esperimenti che vengono fatti oggi sugli animali. Allora vi cadranno le bende
dagli occhi e sarà facile vedere la similitudine. Tutto quello che i nazisti
hanno fatto agli ebrei, noi lo facciamo agli animali. I nostri nipoti un giorno
ci chiederanno: dov’eri durante l’Olocausto degli animali? Che cosa hai fatto
per fermare quei crimini orrendi? A quel punto, non potremo usare la stessa
giustificazione per la seconda volta, dicendo che non lo sapevamo.» Nella
prefazione al libro di Dudley Giehl “Vegetarianism. A way of life”, 1979,
scrive: «Oggi sappiamo per certo, ma lo abbiamo istintivamente sempre saputo,
che gli animali possono soffrire esattamente come gli esseri umani. Le loro
emozioni e la loro sensibilità sono spesso più forti di quelle umane. Diversi
filosofi e capi religiosi hanno cercato di convincere i loro discepoli e seguaci
che gli animali non sono altro che macchine senz’anima, senza sentimenti.
Chiunque però abbia vissuto con un animale – sia esso un cane, un uccello o
persino un topo – sa che questa teoria è una sfacciata menzogna, inventata per
giustificare la crudeltà. […] Tra uccidere animali e creare camere a gas come
Hitler o campi di concentramento come Stalin, il passo è breve […]. Non vi sarà
giustizia fin quando l’uomo reggerà un coltello o una pistola e li userà per
distruggere coloro che sono più deboli di lui.» Divenne vegetariano nel 1962,
dopo avere “pensato come un vegetariano” fin da bambino, rifiutando la
macellazione: «Per anni ho desiderato diventare vegetariano. Non riuscivo a
capire come fosse possibile parlare di misericordia e chiedere misericordia,
parlare di umanitarismo e contro lo spargimento di sangue quando noi stessi
spargiamo sangue – il sangue di animali e di creature innocenti. […] Essere
vegetariano è la mia protesta verso il comportamento collettivo. Essere
vegetariano significa essere in disaccordo – in disaccordo su come va il mondo
oggigiorno. Carestie, crudeltà – dobbiamo prendere una posizione contro queste
cose. Il vegetarismo è la mia presa di posizione. E penso che sia una presa di
posizione consistente. […] Ogni cosa che ha a che fare con la macellazione, lo
scuoiamento e la caccia mi evoca sempre disgusto e sensi di colpa tali che non
possono essere descritti a parole. […] Spesso le persone sostengono che gli
umani hanno sempre mangiato animali, come se questo giustificasse la
continuazione della pratica. Secondo questa logica, non dovremmo neppure
impedire l’omicidio, perché anch’esso è sempre stato praticato dall’inizio dei
tempi. » In un’intervista rilasciata allo scrittore Richard Burgin nei primi
anni Ottanta dichiara: «Io credo fermamente che le persone sensibili, coloro
che riflettono sulle cose, devono necessariamente giungere alla conclusione che
non si può essere buoni mentre si sta uccidendo una creatura, non si può essere
a favore della giustizia mentre si prendono creature che sono più deboli per
macellarle e per torturarle. […]. L’uomo che si nutre di carne o il cacciatore
che partecipa alla crudeltà della natura, con ogni boccone di carne o di pesce
sostiene che il diritto è del più forte.»
Alex Hershaft, fondatore di F.A.R.M.
(Farm Animal Reform
Movement) nel Maryland, trascorse parte della sua infanzia nel
ghetto di Varsavia da cui fuggì per passare il resto della guerra nascondendosi
dai nazisti nella campagne polacche. Visse il periodo dell’adolescenza in un campo
profughi in Italia: «Ho conosciuto in prima persona che cosa significhi essere
trattato come un oggetto senza valore, essere cacciato dagli assassini della
mia famiglia e dei miei amici, essere caricato su un carro bestiame diretto al
macello.» L’esperienza nella Polonia occupata dai nazisti ha reso Hershaft
consapevole della somiglianza tra il trattamento riservato agli animali e
quello riservato agli ebrei dai nazisti: «Nel pieno della nostra vita
edonistica, ostentata e tecnologica, tra gli splendidi monumenti della storia,
dell’arte, della religione e del commercio, esistono delle “scatole nere”.
Queste “scatole nere” sono i laboratori di ricerca biomedica, gli allevamenti e
i macelli: aree separate, anonime, dove la nostra società conduce i suoi sporchi
affari fatti di violenza e sterminio di innocenti esseri senzienti. Queste sono
le nostre Dachau, Buchenwald e Birkenau. Come i bravi cittadini tedeschi,
abbiamo le idee chiare su cosa accade lì dentro, ma non vogliamo saperne
nulla.» Divenne vegetariano: «Ho sempre sentito che c’era qualcosa di
eticamente ed esteticamente osceno nel prendere un bell’animale senziente,
colpirlo alla testa, tagliarlo a pezzi e rimpinzarmi. […] La mia esperienza mi
ha portato a una continua ricerca della giustizia per gli oppressi e in questa
ricerca ho scoperto presto che gli esseri più oppressi della terra sono gli
animali non umani, e i più numerosi e i più oppressi tra loro sono gli animali
d’allevamento.»
Edgar Kupfer-Koberwitz, ebreo, vegetariano,
pacifista e obiettore di coscienza, fu condannato dai nazisti al campo di
Dachau in cui scrisse un diario su pezzi di carta rubata che riuscì a
nascondere sotterrandoli e dai quali ricavò il materiale per scrivere “Animal
Brothers”, un saggio pubblicato dopo la guerra in cui spiegava perché non
mangiasse animali: «Non mangio animali perché non voglio vivere sulla
sofferenza e sulla morte di altre creature. Io stesso ho sofferto così tanto
che riesco a sentire la sofferenza delle altre creature proprio grazie alle
mie. […] Non è facile capire come ora posso guardare a tutte le creature
rispetto a venti anni fa, con quale libertà posso guardare negli occhi il cervo
e la colomba, quanto mi senta fratello di tutte le creature, un fratello
affettuoso per la lumaca, il verme e il cavallo, per i pesci e gli uccelli […]
Non si possono perseguitare i propri fratelli, non si possono uccidere i propri
fratelli. Capisci, adesso, perché non mangio carne?» Anch’egli traccia un
parallelo fra il trattamento degli animali degli esseri umani: «Io penso che
gli uomini saranno uccisi e torturati fino a quando gli animali saranno uccisi
e torturati e che fino allora ci saranno guerre, poiché l’addestramento e il
perfezionamento dell’uccidere deve essere fatto moralmente e tecnicamente su
esseri piccoli. Penso che ci saranno prigioni finché gli animali saranno tenuti
in gabbia. Poiché per tenere in gabbia i prigionieri bisogna addestrarsi e
perfezionarsi moralmente e tecnicamente su piccoli esseri.»
Steward David, cresciuto a Chicago
tra i sopravvissuti all’Olocausto, divenne attivista per i diritti degli
animali: «Da ebreo cristiano cresciuto in un quartiere pieno di sopravvissuti
dell’Olocausto e di gente che ha perduto i suoi cari, non penso di banalizzare
il loro dolore. Ma non sono forse i macelli, gli allevamenti intensivi e i
laboratori di ricerca, così accuratamente nascosti alla nostra vista, le
Auschwitz di oggi? Dolore, violenza e sofferenza sono più accettabili solo
perché inflitti ad animali innocenti che a persone innocenti?»
Mark Berkowitz, internato ad
Auschwitz e oggetto di interventi chirurgici sperimentali sulla spina dorsale
da parte di Joseph Mengele insieme a sua sorella gemella quando avevano dodici
anni, si oppose all’utilizzo degli animali per esperimenti analoghi. Partecipò
a una trasmissione radiofonica in difesa delle oche canadesi che un ispettore
della contea del Rockland voleva radunare e uccidere con il gas o il veleno.
Durante un incontro pubblico disse: «Anch’io sono stato un’oca.»
David Cantor, cresciuto a
Filadelfia, dopo avere perso alcuni parenti durante l’Olocausto, divenne
attivista per i diritti degli animali: «Come normali padri di famiglia fecero
funzionare la macchina dell’Olocausto in Europa, oggi i leader delle comunità
degli Stati Uniti richiedono il sistematico assassinio di massa di cervi e
anatre solo per assecondare un comportamento naturale, e l’olocausto di otto
miliardi di polli l’anno raggiunge la maggioranza delle persone sotto forma di
pubblicità per popolari catene di fast-food e di apparizioni televisive di
celebrità.»
Ci sono anche
interessanti storie di donne.
Anne Muller, figlia di
sopravvissuti ai campi di concentramento, e suo marito vivono a New York e sono
a capo del Wildlife
Watch e il Commettee
to Abolish Sport Hunting: «Quando cresci sapendo che i tuoi
familiari sono stati eliminati da un governo e da gente che non attribuiva loro
alcun valore, o peggio, che riteneva di avere su di loro un potere assoluto e
di poterlo esercitare con la forza bruta, prendendosi tutto, perfino le loro
vite, non puoi fare altro che sentirti vicino a chi si trova in quella stessa
situazione. Gli animali sono deboli, non hanno voce, non possono difendere sé
stessi e gli altri. Anche noi eravamo così. […] Per la gran parte della
società, la vita continuava come se nulla stesse accadendo. La gente aveva
un’occupazione regolare, le persone addette ai campi di concentramento uscivano
la mattina per recarsi al lavoro e tornavano la sera dalle amate famiglie per
un pasto e un letto caldo. Per loro era solo un lavoro come lo è per il
vivisettore, per il cacciatore che mette le trappole, il grossista di
cacciagione, il pellicciaio e l’operaio di un allevamento intensivo.»
Lucy Rosen Kaplan ha iniziato a
lavorare in favore della protezione degli animali come volontaria dell’Animal Legal Defense Fund e
ha svolto attività legale a favore dei diritti animali. Il padre era stato
internato nei campi di concentramento e la madre costretta ai lavori forzati
per le S.S.: «Sono stata perseguitata dalle immagini dell’Olocausto tutta la
vita e non c’è dubbio che fui attratta dai diritti animali per quelle
somiglianze che avvertivo tra lo sfruttamento istituzionalizzato degli animali
e il genocidio nazista.»
Anne Keleman, nata a Vienna, dove
visse fino agli anni Trenta, attraverso il Kindertransport, un’organizzazione che
conduceva in salvo i bambini ebrei, fu mandata in Gran Bretagna dove trascorse
gli anni della guerra senza sapere che cosa fosse successo ai suoi genitori,
cosa che scoprì successivamente. Impegnata come assistente sociale per gli
anziani e nel salvataggio di animali randagi, si è sempre schierata a favore
delle vittime «siano esse cani, gatti o persone.»
Jennifer Melton, consulente legale per
la Rocky Mountain
Animal Defense in Colorado, non è ebrea ma da quando a scuola
ha appreso dell’Olocausto ha cercato di saperne di più e di applicare la
lezione al presente: «Questa generale mancanza di rispetto, questa perdita del
senso di solidarietà, l’attenzione concentrata solo sull’interesse personale
senza alcuna considerazione per la sofferenza delle vittime, si applica alle
più diverse esistenze, dai prigionieri di guerra agli animali spaventati in
attesa di morire al macello, tra le urla dei propri simili.»
Barbara Stagno dirige l’area
nordoccidentale di I.D.A. (In
Defense of Animals) in California. Da piccola apprese che i nazisti
avevano ucciso i suoi nonni e il pensiero di questa tragedia la accompagnò
tutta la vita chiedendosi: «Come sia stato possibile che un così grande numero
di persone abbia potuto diventare indifferente a un grado di sofferenza umana
tanto estremo. Non è forse questa la vera lezione dell’Olocausto? Quella gente
poteva fare qualsiasi cosa a coloro che considerava subumani. E ovviamente è la
stessa cosa che noi facciamo agli animali.»
Susan Kalev, nata in Ungheria
durante l’Olocausto, sopravvisse solo perché inserita in una lista di persone
destinate in un campo di internamento, non ad Auschwitz. Ha lavorato come
assistente sociale e psicoterapeuta. E’ vegan e tiene conferenze sulla salute e
su una condotta di vita umanitaria; l’impegno per uno stile di vita nonviolento
è diventato il lavoro della sua vita.
Il punto di discussione
non è quello di equiparare milioni di persone uccise dai nazisti con milioni di
animali uccisi da “gente che fa il proprio lavoro” ma di capire ciò che
accomuna il trattamento riservato a entrambe le vittime: l’attribuzione di un
numero, punto di inizio nel togliere loro la dignità, le condizioni di vita in
cui sono costrette, l’uso spietato di carri bestiame per il trasporto, il
perfezionamento della tecnologia nella loro eliminazione, la costante
attenzione al rapporto costi-benefici: tutto ciò avviene ogni giorno in ogni
Paese del mondo perché i cancelli di Auschwitz per gli animali sono ancora
chiusi.
In questo senso ha
ragione Albert
Kaplan, figlio di ebrei russi immigrati negli Stati Uniti, il
quale racconta che i sette anni passati in Israele gli hanno insegnato che la
sua gente non è esente dalla crudeltà: «Le Auschwitz per animali sono ovunque
in Israele e alcune di queste sono mandate avanti da sopravvissuti
all’Olocausto. […] La maggioranza dei sopravvissuti all’Olocausto sono
carnivori che non si preoccupano della sofferenza degli animali più di quanto i
tedeschi si siano preoccupati della sofferenza degli ebrei. Che cosa significa
tutto questo? Ve lo spiego. Significa che non abbiamo imparato niente
dall’Olocausto. Niente. E’ stato tutto inutile. Non c’è speranza.»
Molti intellettuali
perseguitati ed esiliati dal nazismo, pur non avendo vissuto nei campi di
concentramento, hanno speso energie in difesa della causa animale.
Tra questi il filosofo
e musicologo tedesco Theodor
Wiesengrund Adorno che, pur non avendo conosciuto
direttamente Auschwitz, ne ha dato una definizione lapidaria: «Auschwitz inizia
quando si guarda a un mattatoio e si pensa: sono soltanto animali». In “Minima
moralia. Meditazioni della vita offesa”, a proposito di bambini, scrive: «La
reazione inorridita di un bambino di fronte allo sfruttamento degli animali
svanisce nel tempo cedendo davanti alla perniciosa influenza dell’educazione
quotidiana… I genitori, gli insegnanti, in modo ufficiale o amichevole, i
medici, per non parlare del singolo potente che noi chiamiamo ‘tutti’, lavorano
tutti quanti insieme per indurire il carattere del bambino rispetto a questo
alimento a quattro zampe che, tuttavia, ama come facciamo noi, sente come noi.»
Max Horkheimer filosofo tedesco
di origine ebraica, costretto nel 1933 a fuggire in Svizzera e poi negli Stati
Uniti, ci ha lasciato una delle pagine più crude e toccanti ritraendo la
società del suo tempo, purtroppo rimasta per certi aspetti tale e quale. Nel
brano “Il grattacielo”, tratto dall’opera “Crepuscolo” (1926-31) scrive:
«Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi
all’incirca così: su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di
potere capitalistici che però sono in lotta tra di loro; sotto di essi i
magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei
collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le
masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della
manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei
capoufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze
autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il
proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando
attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai
vecchi e ai malati. Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e
proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione,
giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta
la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei
territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la
parte più grande del mondo. Larghi territori dei Balcani sono una camera di
tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione.
Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi
rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali,
l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione
degli animali. Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è
una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una
bella vista sul cielo stellato.»
Chissà che quel cielo
stellato possa un giorno essere contemplato da tutti gli animali usciti dal
loro inferno e che di quel giorno si possa celebrare la memoria.
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