mercoledì 2 febbraio 2022

La crisi ecologica non dà tregua - Alberto Castagnola

 

Negli stessi giorni della COP 26, l’Organizzazione Metereologica Mondiale ha diffuso una serie impressionante di dati, che certo non sono stati  tenuti presenti dagli Stati impegnati nella Conferenza di Glasgow. Nel rapporto annuale si sottolinea che nel 2020, nonostante il rallentamento economico dovuto alla pandemia, le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera hanno raggiunto livelli record.

Quella di anidride carbonica è stata superiore del 149% rispetto all’era preindustriale, quella di metano del 262% e quella di biossido di azoto del 123%. Il 2021 dovrebbe aver chiuso con nuovi record. Secondo le stime, la temperatura media globale supererà di 1,09 gradi quella del periodo 1850- 1900, nonostante un leggero raffreddamento dovuto al fenomeno climatico periodico della Nina e l’anno dovrebbe piazzarsi tra il quinto e il settimo posto nella classifica degli anni più caldi. Inoltre sono stati registrati molti eventi estremi. Il 14 agosto, per la prima volta, ha piovuto sulla vetta più alta della Groenlandia, a più di 3000 metri di quota. La parte ovest del Nord America è stata investita da un’ondata di caldo anomalo (a Lytton, in Canada, le temperature hanno raggiunto i 49,6 gradi). Piogge eccezionali hanno colpito la provincia cinese dell’Henan, l’Europa occidentale, l’Amazzonia e l’Africa orientale, mentre in Madagascar è in corso una grave siccità.

Nell’Artico, con i dati satellitari elaborati dall’Agenzia Spaziale Europea si è costruita la mappa delle strutture stradali e ferroviarie  e delle costruzioni create dall’uomo e si è verificato un aumento del 15% negli ultimi venti anni. L’espansione si è verificata soprattutto in Russia, Canada e Stati Uniti, la maggior parte delle costruzioni è legata allo sfruttamento petrolifero, del gas naturale e minerario. Alcune di queste aree saranno soggette a instabilità a causa dello scioglimento del permafrost, in quanto si stima che il 55% delle strutture è stato costruito in zone vulnerabili. Un caso di cedimento di una costruzione si è già verificato alcuni mesi fa. Per quanto riguarda i ghiacciai, è stato reso noto di recente che i ghiacciai della Svizzera hanno perso l’1%  del loro volume nel 2021, nonostate le abbondanti nevicate e una estate relativamente fresca. 

L’inquinamento da particolato fine (PM 2,5) ha causato 307mila decessi prematuri nell’Unione Europea nel 2019, con una riduzione del 10% rispetto all’anno precedente. A causa dello smog, le autorità di New Delhi, in India, hanno ordinato la chiusura delle scuole per almeno una settimana, ma hanno però respinto un invito della Corte Suprema a confinare l’intera popolazione della capitale.

Una forte tempesta, con venti fino a 140 chilometri all’ora, ha colpito il nord degli Stati Uniti, lasciando senza elettricità seicentomila abitazioni, in particolare nel Massachusets  e nel Rhodeisland. Le alluvioni causate dalle forti piogge che hanno colpito la provincia della British Columbia, nell’ovest del Canada, hanno paralizzato i trasporti e costretto migliaia di persone a lasciare le loro case. Alluvioni hanno duramente colpito anche lo stato dell’Uttar Pradesh, nel sud dell’India, causando almenno 30 vittime. Forti allagamenti sono stati  segnalati anche a Bangalore, capoluogo del vicino stato del Karnataka.

La siccità ha invece colpito la città di Teheran, in Iran, a livelli più gravi degli ultimi cinquanta anni. Tra il 23 settembre e il 26 ottobre le precipitazioni sono crollate del 97% rispetto allo stesso periodo del 2020. Le cinque dighe che alimentano la capitale sono piene per meno di un terzo della capacità: 477 milioni di metri cubi su 2 miliardi. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari ha lanciato l’allarme per il peggioramento della siccità in Somalia: circa 2,3 milioni di persone che vivono in 57 dei 74 distretti del paese soffrono di gravi carenze di acqua e di cibo. C’è stata anche una vittima.

La scorsa estate la regione russa della Carelia è stata colpita da violenti incendi  che hanno distrutto una parte consistente della taiga, o foresta boreale, formata da boschi di conifere. La superficie distrutta è stata superiore a quella totale degli incendi registrati nello stesso periodo in Europa e in Nord America, ma alla Cop 26 si è parlato soltanto di lotta alla deforestazione, evidentemente senza fare distinzioni tra le fonti delle distruzioni. Secondo Greenpeace, il 90% degli incendi è legato alle attività umane. La frequenza dei roghi è molto più alta che in passato e ormai il fenomeno tende anche ad autoalimentarsi: le fiamme riducono l’umidità delle foreste aumentando la probabilità di nuovi roghi.

Tutto questo potrebbe far scomparire la taiga nel giro di pochi anni: uno scenario inquietante, perchè è uno dei principali depositi di carbonio del mondo, insieme alla foresta pluviale tropicale. Il carbonio è conservato nella vegetazione, ma anche nel materiale organico delle zone umide, tra cui torbiere e paludi. E ripristinare una zona umida è molto più difficile che far ricrescere una foresta.

La fonte qui utilizzata (Internazionale numeri 1434-1437) dedica un certo spazio ad alcune soluzioni per i problemi climatici che sarebbero allo studio, anche se mancano ancora le analisi dei loro costi e della loro fattibilità. Alcuni ricercatori ipotizzano una nave autoalimentata per la raccolta della plastica.

Si dovrebbero raccogliere tonnellate di plastica e si dovrebbero trasformare chimicamente in carburante, grazie a un processo ad alta temperatura e pressione. L’energia ricavata dovrebbe rendere autonoma la nave per potere quindi proseguire la raccolta di plastica; le stime vanno da 4,8 ai 12,7 milioni di tonnellate di plastica che vanno a finire in mare ogni anno.

Le tecnologie a emissioni negative potrebbero avere un ruolo nel contrasto della crisi climatica. Alcune sono già conosciute e sperimentate, come quelle in uso nei sottomarini e  nelle navette spaziali. Secondo il New York Times, il governo USA ha promesso di finanziare le ricerche in questo campo, in modo da far scendere entro il 2030 il costo della cattura del carbonio dagli attuali 2000 dollari a tonnellata fino a meno di cento dollari. Si potrebbero quindi realizzare impianti industriali di grandi dimensioni per catturare e trasformare il carbonio presente nell’atmosfera. L’ipotesi di depositarlo in grandi spazi sotto terra è ancora molto costosa, anche se alcune imprese petrolifere pensano di poter utilizzare gli spazi sotterranei che contenevano il petrolio e i gas ora esauriti.

Vi potrebbero poi essere i rischi connessi con l’opposizione di comunità locali, che potrebbero temere gli effetti di tutte queste operazioni sui territori e le abitazioni circostanti. E’ poi da ricordare che l’iniziativa volta a contrastare l’avanzata del deserto in tutto il Sahel sembra aver dato dei primi buoni risultati. Il progetto della Grande Muraglia Verde è stato lanciato nel 2007 con l’obiettivo di ricostiruire gli ecostemi su cento milioni di ettari di terreno a sud del deserto del Sahara , dalla Mautitania fino all’Eritrea, sviluppando foreste, zone umide, terreni agricoli e praterie. Sembra che per ogni dollaro investito si sia ottenuto un ritorno di 1,3 dollari, con punte più alte in Nigeria e più basse in Burkina Faso. Tuttavia il degrado ambientale e i conflitti stanno limitando la disponibilità delle terre sulle quali intervenire. Inoltre, per finanziare tutti i progetti servirebbero ancora almeno altri 44 miliardi di dollari, secondo Nature Sustainability. Infine, La Repubblica del Congo ha presentato un progetto che prevede la creazione di una foresta di quattrocento chilometri quadrati vicino alla localita di NGO, nel dipartimento degli altopiani.

L’obiettivo è di assorbire più di 10mila tonnellate di carbonio, per contribuire alla lotta per il cambiamento climatico. Non vi sono però informazioni su chi dovrebbe finanziare un progetto di tale portata. Infine, alcuni ricercatori hanno usato i dati da satellite per verificare i rapporti tra spazi verdi e temperature in 293 città europee, in Scandinavia, Inghilterra, Francia, Europa centrale e Alpi, Europa orientale, penisola iberica, Europa mediterranea e Turchia. Tra i primi risultati, è emerso che gli spazi verdi abbassano di più la temperatura quando sono ricchi di alberi, mentre i prati potrebbero avere un leggero effetto riscaldante.

 

Ancora eventi estremi

Lo stato del British Columbia, in Canada, a metà del mese di novembre, è stato colpito da una tempesta che ha rovesciato nel paese in poche ore  molta più  acqua che in molti mesi precedenti. Gli sfollati sono stati più di diciottomila, le autostrade sono state trasformate in torrenti in piena che trasportavano auto e alberi abbattuti, fango e detriti di ogni genere e tutte le strade che portavano al porto di Vancouver sono rimaste bloccate per molti giorni. 

I danni complessivi sono stati finora stimati in 790 milioni di dollari. Ma la cosa più impressionante è il confronto con l’ultima estate, durante la quale lo stesso territorio ha fatto registrare i 49,6° gradi centigradi e 600 morti causati dal calore estremo. Evidentemente esistono ormai delle zone nelle quali si avvicendano eventi estremi di natura diversa ma che derivano tutti dalla crisi climatica globale.

Anche in Sicilia si sono verificati eventi di natura finora sconosciuta in quei territori, di segno opposto ma evidentemente causati da fenomeni globali sempre più frequenti. A fine agosto è stata registrata una temperatura molto elevata, pari a 48,6 gradi centigradi, mentre in autunno si sono moltiplicate le condizioni di maltempo, e  l’isola è stata sferzata da nubifragi culminati in un ciclone nel mese di novembre. Ma sono caduti più di 500 millimetri di pioggia su  tutta la costa ionica a partire da ottobre, mentre la concentrazione delle piogge nelle regioni Liguria e Piemonte,  ha determinato le piene storiche di fiumi come la Bormida e l’Orba.

L’Italia quindi sembra ormai stretta dalla presenza di ampie zone di siccità per molti mesi dell’anno e poi dall’arrivo improvviso e distruttivo di potenti nubifragi. Un recente rapporto di Legambiente elenca 133 eventi estremi nel solo 2021; inoltre dal 2010 al primo novembre del 2021 nella penisola sono stati 1118 gli eventi estremi registrati, quindi con un aumento di oltre il 17% rispetto al rapporto precedente. Gli impatti più rilevanti hanno colpito 602 comuni. Più in particolare, negli ultimi dodici mesi si sono verificati 486 casi di allagamenti da piogge intense, 406 casi di stop alle infrastrutture  sempre a causa di piogge intense, 304 casi di danni a seguito di trombe d’aria, 134 casi di esondazioni di fiumi, 48 casi di danni provocati da prolungati periodi di siccità e temperature estreme, 41 casi di frane, e 18 casi di danni al patrimonio storico, con 9 vittime (261 dal 2010). Il rapporto contiene molti altri dati e segnala la mancanza in Italia di un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, già adottati invece in altri 24 paesi europei.

Anche nella Siberia orientale, in particolare nella Jacuzia russa, uno dei luoghi abitati più freddi, che in passato registrava anche 67 gradi sotto zero, il termometro ha raggiunto i 37,8 gradi, la temperatura più calda mai registrata entro il Circolo Polare Artico.  Gli abitanti risentono del mutamento, pesci e altri animali hanno modificato le loro abitudini, il permafrost si scioglie ogni estate. Infine, non possiamo mancare di citare un articolo su Singapore (pubblicato da Internazionale n. 1435) dal titolo emblematico “Freddi Tropici”, dove si descrive con molti dettagli cosa accade in una grande città che aveva un clima caldo umido e che ora lo sente diventare più caldo di un quarto di grado ogni decennio (cioè il doppio della media gobale) a causa di un fenomeno tipico delle città più grandi e ricche, la cosiddetta “isola di calore”, che le rende molto più calde dei territori vicini e che di notte, a causa dell’irradiazione proveniente dagli edifici, può arrivare anche a sette gradi in più rispetto alle aree verdi della città stessa. Ne consegue un uso molto diffuso di condizionatori d’aria e quindi un consumo elevatissimo di energia. 

Meccanismi economici di danno ambientale 

L’Extra Terrestre del 4 novembre presenta una analisi piuttosto completa dei danni derivanti dal metano, un gas naturale che produce circa la metà del riscaldamento globale e che oltre cento paesi, durante la COP 26,  hanno promesso di ridurre del 30% entro i prossimi dieci anni, anche se il gruppo non comprende paesi grandi produttori come la Cina, la Russia e l’India  e il testo dell’accordo promosso da UE e Stati Uniti non fornisce alcuna indicazione sulle modalità da seguire per conseguire tale obiettivo e sui relativi costi. 

L’articolo sottolinea subito che il metano non è facile da rilevare né da misurare, che è responsabile di circa la metà del riscaldamento globale finora preso in considerazione a livello internazionale e che circa la metà del metano di origine antropica deriva dal bestiame degli allevamenti e dalla coltivazione di riso, un quarto dai rifiuti e per il 19% dal settore petrolifero.

Però quest’ultimo dato è sicuramente molto sottovalutato, poiché le perdite di metano dai metanodotti e dagli impianti di produzione non vengono rilevate o si rivelano sempre molto maggiori di quanto ipotizzato. Ad esempio, una ricerca effettuata di recente ha evidenziato perdite  di metano nei pressi di serbatoi di stoccaggio, compressori di gas, valvole, pozzi, terminali per il gas naturale liquefatto, rigassificatori, ecc. Inoltre sono in aumento le emissioni di metano provenienti da pozzi petroliferi esausti, permafrost in fase di scioglimento, ecc.

E questo aspetto è particolarmente importante per l’Italia, il paese più metanizzato d’Europa e dove gran parte degli impianti sono nella Pianura  Padana. Il metano è sempre un gas fossile che ha un effetto potenziale sul riscaldamento globale più di 80 volte superiore a quello dell’anidride carbonica in un arco temporale di venti anni (i due gas serra hanno periodi diversi di dissoluzione nell’atmosfera e di salita verso l’alto). Sono invece ancora alla fase di studio gli interventi diretti a ridurre gli effetti dannosi di  questo gas, ad esempio un sistema obbligatorio di rilevazione e riparazione delle fuoriuscite di metano dagli impianti, compresi quelli per biometano e biogas; divieto di “venting”, cioè del rilascio diretto in atmosfera del gas metano durante le estrazioni di greggio, e di “flaring”, cioè della combustione del gas  in eccesso rilasciato dalle torri petrolifere, invece del recupero del gas a scopi energetici.

Inoltre sono da individuare e sigillare  i pozzi petroliferi e i siti minerari fuori produzione che continuano ad emettere metano.  Servirà anche una revisione delle direttive sulle emissioni dell’industria e delle energie rinnovabili, oltre che sostenere la produzione di biogas da fonti sostenibili.

L’elenco è lungo, alcune misure dovrebbero essere eseguite dalle società petrolifere, quanto tempo ci vorrà per approvarle e farle diventare operative? L’intero comparto rischia di diventare un fattore molto negativo nelle politiche così urgenti di riduzione delle emissioni climalteranti.

Sono iniziati i tentativi di sfruttamento sistematico  dei giacimenti di litio, la materia prima essenziale per le batterie richieste dalle auto elettriche, e reperibile in un numero limitato di paesi. La multinazionale mineraria anglo-australiana Rio Tinto ha annunciato di voler investire due miliardi di euro in Serbia per lo sfruttamento della miniera di Loznica. Secondo la multinazionale potranno essere estratti ogni anno i quantitativi necessari per un milione di auto e ciò permetterebbe all’impresa di imporsi sul mercato europeo. I cantieri dovrebbero essere aperti all’inizio di quest’anno ma si sta sviluppando una forte opposizione da parte degli abitanti della zona e una qualche marcia indietro delle concessioni del governo.

Ma la multinazionale sembra abbia già acquistato l’80% dei terreni necessari per le attività minerarie.

La plastica comincia a preoccupare anche i governi, poichè pure  la pandemia sta incrementando in modo massiccio l’uso di prodotti in plastica, dalle tute protettive alle mascherine, che in gran parte non vengono smaltiti correttamente. Secondo uno studio condotto in Cina dall’università di Nanchino e negli Usa dall’università della California, dall’inizio della pandemia più di otto milioni di tonnellate di rifiuti in plastica sono state riversate nell’ambiente e in misura consistente finiscono anche negli oceani. Anche i consumi basati su ordini on line hanno fatto aumentare del 4,7% i rifiuti in plastica.

Certo si comincia a suggerire di introdurre un sistema di depositi cauzionali per incoraggiare la restituzione delle bottiglie vuote ed è in circolazione un progetto mirato a una raccolta differenziata degli oggetti in polietilene (con marchio PE) che possono essere riciclati, però siamo ancora molto lontani da una soluzione del problema.

da qui

Nessun commento:

Posta un commento