Si tende a credere che la nostra specie abbia sempre
mangiato animali perché ne avrebbe necessità al pari delle specie carnivore.
Questo è falso. Noi non siamo animali carnivori, ma onnivori, questo significa
che possiamo avere una dieta varia e che non ci è affatto necessario mangiare
altri animali per stare in salute. Da dove deriva allora questa convinzione che
sia necessario mangiare animali e i loro derivati?
Sappiamo che sin dall’antichità ci sono state persone,
più o meno famose, vegetariane e strettamente vegetariane (vegane, anche se il
termine all’epoca non era ancora stato coniato) e senza che vi fossero in
commercio tutti i prodotti sostitutivi che è facile trovare oggi. La gente
comune mangiava soprattutto legumi, vegetali, cereali. La carne era considerata
un “bene” di lusso.
Jeremy Rifkin, nel suo saggio Ecocidio, racconta come
la “cultura della bistecca” si sia imposta in occidente attraverso i secoli, “dagli albori della civiltà umana, passando attraverso il mito dei
cowboy, gli infernali mattatoi di Chicago e le stalle superautomatizzate, fino
ai giorni nostri” per poi diffondersi su tutto il globo.
Dal barbecue a McDonald’s
Mangiare carne, in particolare quella bovina, cioè
potersi permettere l’acquisto di carni rosse per molto tempo è stato un
traguardo che testimoniava il successo della scalata sociale, l’avvenuto
raggiungimento di un certo benessere economico.
Nel sogno americano non poteva mancare la casa di
proprietà con giardino dove poter fare il barbecue con gli amici durante il
tempo libero. La diffusione globale dei vari McDonald’s ha poi fatto il resto
rendendo accessibile a tutti quello che prima era un “prodotto” di lusso e
aggiungendo altri significati all’atto del mangiare carne. I McDonald’s non sono
soltanto posti in cui poter consumare degli hamburger, ma “esperienze”: ludiche
per i più piccini e di socializzazione per gli adolescenti. Con una loro
precisa iconografia costituiscono quasi dei riti di passaggio per i bambini
americani.
Questo immaginario del consumo di carne e dei luoghi
ove si consuma, che sia il giardino con il barbecue la domenica o il fast food
cittadino, ha condizionato e letteralmente colonizzato – attraverso il cinema,
la letteratura, il turismo di massa, la televisione – anche il nostro stile di
vita e soprattutto ha contribuito a far divenire l’oggetto “carne” un vero e
proprio status symbol da cui fatichiamo ad affrancarci nonostante la messa in
guardia dei suoi effetti devastanti sulla salute e sull’ambiente e le opere di
sensibilizzazione riguardo la crudeltà di ciò che facciamo agli animali, i
quali sono semplicemente dei referenti assenti, anzi, spesso nemmeno referenti,
dal momento che a livello di significati associati la “carne” è divenuta un
vero e proprio oggetto simbolico di cui si perde la natura del processo di
trasformazione attraverso il quale dall’allevamento è giunta sugli scaffali del
supermercato.
Il culto della carne
Mangiare carne quindi non è mai stato soltanto un atto
legato al mangiare, ma soprattutto un atto di appropriazione culturale: del
sogno americano, di conquista del nuovo mondo, della natura, di trionfo del
razionale e del controllo sull’irrazionale e sul caos. In poche parole mangiare
carne è un po’ il contraltare laico dell’assunzione del corpo del Cristo
durante il rito della Comunione. Il culto della carne è una vera e propria
religione con i suoi santuari, i suoi riti, i suoi significati occulti.
In effetti, come scrisse Ceronetti nel Il silenzio del
corpo, nel 1979: “Dicono di avere abolito i sacrifici animali!
Soltanto il rito hanno abolito: li sterminano ininterrottamente,
illimitatamente, senza bisogno: il sacerdote si è fatto industria.”
Il mito del cowboy che raduna le mandrie a cavallo –
ricordiamo che il popolo Kurga, proveniente dalle steppe euroasiatiche nel
4.400 AC, fu il primo ad allevare i cavalli e ad addomesticarli per poterli
cavalcare, pratica che rese possibile l’allevamento e gestione di mandrie
sempre più numerose di bovini – racchiude in sé significati legati alla
conquista, al coraggio, alla mascolinità. Tutt’oggi la carne è associata alla
forza e a quei valori che testimoniano l’essere veri uomini, mentre mangiare
vegetali viene ritenuto segno di debolezza, di eccessiva sensibilità,
un’alimentazione per “signorine” delicate. Ovviamente questi stereotipi sul
femminile e maschile associati ai vegetali e alla carne si alimentano e
rafforzano a vicenda.
Si è ancora convinti, nonostante le evidenze
scientifiche dicano il contrario, che per fare sport sia necessario assumere
proteine animali altrimenti non si avrebbe l’energia necessaria, quando in
realtà l’energia è data dai carboidrati e dagli zuccheri.
Tutte queste credenze faticano a scomparire perché
continuano a venire trasmesse culturalmente attraverso il linguaggio, i modi di
dire, gli stereotipi, la cultura di massa e ovviamente la pubblicità
ingannevole di chi trae profitto dagli allevamenti di animali.
Non basta cambiare modalità di
produzione, è necessario acquisire una coscienza antispecista
Oggi la cultura della carne, con l’emergere della
questione ambientale, fortunatamente è in netto declino, ma siamo ancora ben
lontani dall’acquisizione di una vera coscienza antispecista perché, sebbene i
cambiamenti sociali possano essere veloci, anche grazie ai traguardi
tecnologici, le coscienze delle persone sono invece molto più lente a cambiare.
Non si scalza facilmente dalle convinzioni comuni un’abitudine con tutti i
significati stratificati annessi e connessi che si porta dietro, soprattutto
quando hanno a che fare con la socialità e con l’affettività.
Quello cui stiamo assistendo oggi infatti non è tanto
la messa in discussione della cultura della bistecca, quanto della sua modalità
di produzione. Che si parli di carne artificiale o di allevamenti più
sostenibili da un punto di vista ambientale (magari idroponici o di animali
modificati geneticamente oppure di altre specie quali insetti) sembra proprio
che il tratto distintivo della nostra specie sia quello di non voler rinunciare
a mangiare carne.
Questo ovviamente anche perché, se da una parte è
difficile risalire a quel referente assente che è l’individuo animale,
dall’altra siamo ancora totalmente immersi in un’ideologia specista e
antropocentrica che potremmo definire di suprematismo dell’umano. Per cui,
anche ammesso che si “riconosca” il pollo, il vitello, il maiale, il manzo,
l’agnello, si continua a considerare irrilevante la sua uccisione. “Un
sacrificio” laico che continua a rendersi necessario per soddisfare i capricci
dell’umano in un perpetuarsi di menzogne sulla presunta necessità.
La nostra identità si è formata attraverso un gioco di
opposizione continua tra noi e gli altri animali. Animali che dominiamo, che
addomestichiamo, di cui mangiamo le carni. Abbiamo talmente introiettato questa
opposizione ontologica che evidentemente la sola idea di dover rinunciare ad
allevarli, dominarli, mangiarli ci fa temere di perdere la nostra identità.
Oggi nuove sfide ci stanno facendo comprendere
l’illusorietà del controllo sulla natura. Siamo animali vulnerabili e nessuna
logica di dominio potrà renderci immortali o farci stare al sicuro.
Come scrive Rifkin sempre in Ecocidio: “I principi fondamentali dell’Illuminismo hanno spogliato la natura
della propria vitalità e derubato le altre creature della propria essenza
originale e del proprio valore intrinseco. Nel mondo moderno, freddo e
calcolatore, abbiamo scambiato la salvezza eterna con l’interesse materiale
personale, il rinnovamento con la convenienza, la capacità generativa con le
quote di produzione.
[…] L’effetto sull’uomo e sull’ambiente del modo moderno di pensare e di
strutturare le relazioni è stato quasi catastrofico: ha indebolito gli
ecosistemi e minato alla base la stabilità e la sostenibilità delle comunità
umane. La grande sfida che dobbiamo affrontare è rappresentata dal lato oscuro
della moderna visione del mondo: dobbiamo reagire al male occulto che sta
trasformando la natura e la vita in risorse economiche che possono essere
mediate, manipolate e ricostruite tecnologicamente per adeguarle ai ristretti
obiettivi dell’utilitarismo e dell’efficienza economica.”[1]
Mettere in discussione il mangiare carne significa
quindi mettere in discussione un’idea precisa di umanità e di civiltà.
Significa rinunciare al suprematismo umano e comprendere che questa ideologia
di dominio, anziché renderci immortali, ci sta in realtà spingendo verso un
baratro.
Dalla parte degli animali:
trasformare la bistecca da status symbol a simbolo di morte e violenza
Dalla nostra, o meglio, dalla parte del veganismo e
dell’antispecismo, abbiamo una verità dimostrabile: la senzienza e desiderio di
libertà degli altri animali, il valore intrinseco delle loro esistenze, la loro
capacità di fare esperienza del mondo.
Abolendo gli allevamenti e ogni altra forma di
sfruttamento e uccisione degli animali potremmo veramente entrare in una nuova
era volta al rispetto delle altre specie con cui convidiamo il pianeta. La
scelta vegana è oggi l’unica scelta possibile di rispetto degli animali e del
pianeta in cui viviamo.
Sarà un lavoro lungo, ma è necessario cambiare tutti
quei significati positivi che culturalmente associamo alla carne per mostrarli
sotto una nuova luce. Illuminare le zone oscure della sua produzione, la
violenza implicita in ogni allevamento, la sottrazione di risorse idriche e di
terreni, la distruzione del pianeta.
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