sabato 5 febbraio 2022

La deforestazione in Brasile, secondo Animal Equality

Un reportage inedito racconta come muore la foresta amazzonica

Il 7 settembre, Animal Equality, associazione che monitora il trattamento degli animali negli allevamenti intensivi in Europa e nel mondo, ha lanciato la sua inedita campagna contro la deforestazione illegale in Brasile innescata dalla corsa alla produzione intensiva di carne bovina e soia.

Nella stessa settimana, davanti alle ambasciate brasiliane in Europa e nel mondo, si sono susseguite marce, presidi, scioperi della fame e altre forme di protesta, che si sono unite all’appello internazionale dei popoli indigeni del Brasile, riuniti nella capitale da agosto. Numerose associazioni impegnate nella difesa dell’Amazzonia e della sua biodiversità hanno inaugurato così la Giornata mondiale dell’Amazzonia, protestando contro il governo di Jair Bolsonaro e le sue proposte di legge. Infatti, secondo numerose realtà ambientaliste ed indigene – tra cui APIB (Brazil’s Indigenous People Articulation), Greenpeace e Survival International – le iniziative del governo Bolsonaro aggraverebbero ulteriormente le condizioni dei biomi del Brasile. Con danni per l’intero ecosistema mondiale. 

 

La conversione forzata delle foreste

Il prezioso ruolo delle foreste, infatti, non riguarda solo la sopravvivenza delle popolazioni locali. Le foreste racchiudono circa l’80% delle specie animali e vegetali del pianeta, rappresentando un importantissimo tesoro di biodiversità e fungendo da regolatori del clima globale. Ma solo se il loro funzionamento e la loro capacità di rigenerazione sono preservati. Secondo un recente studio dello Stockholm Resilience Centre tuttavia, il 40% della foresta pluviale amazzonica avrebbe già raggiunto il punto di non ritorno (tipping point), avvicinandosi pericolosamente a un ecosistema tipico della savana, con boschi e grandi praterie. Le cause sarebbero da rintracciarsi nel rapido aumento della deforestazione che, secondo l’ultimo report di MapBiomas Alert Project, sarebbe aumentata in media del 13.6% nei sei biomi brasiliani.

Se a questo dato si aggiungono le immagini satellitari dell’agenzia spaziale INPE (National Institute for Space Research) i risultati appaiono allarmanti: nel solo mese di settembre 2020 sono stati rilevati oltre 32 mila focolai accesi, il 60% in più rispetto allo stesso mese dell’anno passato. Per quanto riguarda il Pantanal – secondo polmone verde brasiliano e maggiore zona umida al mondo – il LASA, (Environmental Satellite Applications Laboratory) riporta come gli incendi abbiano distrutto il 28% del bioma, per un totale di 4,2 milioni di ettari di foresta perduti. Questi incendi – troppo spesso dolosi – vengono appiccati in particolare nella stagione secca, diffondendosi rapidamente e causando rilascio di CO2 in quantità superiore a quella che la foresta riesce ad assorbire rigenerandosi. Questa incapacità di ripresa si verifica soprattutto quando gli spazi liberati vengono intenzionalmente dedicati a piantagioni e pascoli, e non alla rinascita dell’ecosistema pluviale.

Si tratta di fatto di una conversione forzata, legata alle scelte economiche del paese e alla produzione di specifici prodotti di esportazione conosciuti come i Big Four: carne bovina, soia, olio di palma e legname. Insieme a tutti i loro derivati, questi prodotti rappresentano i maggiori driver di deforestazione in America Latina. Il primato è detenuto dall’industria di produzione e lavorazione della carne che, secondo alcune stime riportate dal WWF, causerebbe direttamente o indirettamente l’80% della deforestazione in Amazzonia. Inoltre, come segnala ancora MapBiomas Alert Project nel suo ultimo report, il 99,8% della deforestazione in Brasile lo scorso anno ha mostrato segni di attività illegale legati proprio a questo settore.

 

Un reportage inedito

Partendo da questi dati allarmanti, Animal Equality ha avviato un percorso di studio e ricerca culminato in un lavoro di inchiesta sul campo intrapreso dal team investigativo internazionale nel Mato Grosso, stato brasiliano in cui le foreste del Pantanal e la savana del Cerrado sono i biomi più compromessi. Attraverso riprese aeree, interviste, collaborazioni con realtà attive sul territorio e il supporto di pubblicazioni autorevoli, il team di Animal Equality ha prodotto un reportage inedito che rafforza gli allarmi lanciati dai report nazionali e internazionali.

Le immagini e le testimonianze raccolte dal team investigativo mostrano come siano proprio gli allevatori che riforniscono le grandi multinazionali della carne ad appiccare illegalmente incendi nelle foreste, per liberare terreni da adibire a pascoli e coltivazioni di soia. Azioni illegali che solo raramente vengono prese in considerazione dalle autorità locali. Nonostante le numerose denunce, secondo il rapporto investigativo redatto e pubblicato dall’osservatorio agroalimentare De Olho nos Ruralistas, solo l’1% delle multe per deforestazione sono state pagate negli ultimi 25 anni.

Come sottolinea Alice Trombetta, direttrice di Animal Equality Italia intervistata da Scomodo, il problema è complesso ed è legato allo smantellamento progressivo delle agenzie di ispezione, alla mancanza di budget e al numero insufficiente di personale dipendente, oltre alle minacce ricevute dalle forze dell’ordine. Animal Equality ha inoltre denunciato una mancanza di monitoraggio integrale nella filiera, sia per quanto riguarda gli standard minimi di benessere degli animali e igiene, sia nel controllo della catena di approvvigionamento che lega le grandi industrie ai piccoli allevatori, di cui viene verificato solo il fornitore diretto e non tutti i partner secondari.

Come riportato dal WWF, se da un lato «in alcune regioni, questo boom della produzione agricola ha generato benefici sociali come l’aumento del reddito, della scolarizzazione e il miglioramento della salute», nella maggioranza dei casi questo modello di produzione per cui la deforestazione gioca un ruolo fondamentale continua ad avere gravi impatti sulle economie locali, causando conflitti e disuguaglianze sociali, degrado ambientale e accaparramento di terre. Anche in territori formalmente protetti da politiche di conservazione o legati ai diritti dei popoli indigeni.  

 

Responsabilità condivisa

Non basta sottolineare le lacune giudiziarie e di monitoraggio per comprendere le responsabilità politiche in gioco. La deforestazione illegale dei biomi, gli incendi inarrestabili e le irregolarità nell’intera filiera, sono strettamente legate a scelte economiche e giuridiche che il presente governo brasiliano notoriamente continua a incentivare. Un esempio lampante, come ricorda la direttrice di Animal Equality Italia Alice Trombetta «è lo sconcertante disegno di legge per approvare quella che è definita eufemisticamente come “land regularization”, che di fatto andrebbe a legittimare, invece che arginare, il fenomeno di accaparramento delle terre fertili». Si tratta di uno dei disegni di legge al centro della protesta dell’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB), che ha portato a Brasilia più di 5000 manifestanti provenienti da tutte le regioni del Brasile e da altri stati dell’America Latina, occupando la piazza Ipê in un campeggio, the Struggle for Life Camp, per più di una settimana. 

Nel frattempo, l’aggravarsi della deforestazione va di pari passo anche con l’aumento dei sussidi dedicati al settore, che secondo l’Instituto Escolhas ammonterebbero dal 2008 al 2017 a più di 100 miliardi: ulteriore dimostrazione secondo la direttrice di Animal Equality Italia, «di quanto le decisioni degli organi legislativi ed esecutivi siano permeabili agli interessi dell’industria». Tuttavia, se consideriamo il valore di esportazione di questi prodotti, la deforestazione può essere direttamente collegata anche all’aumento di domanda dall’estero e ai trattati internazionali che favoriscono il mercato di carne e derivati.

Con quasi il 20% delle esportazioni totali, il Brasile è il più grande produttore mondiale di carne bovina e distribuisce i propri prodotti in 145 paesi. Il suo più grande importatore è la Cina, con il 42,2% delle esportazioni del paese. Anche l’Unione Europea è tra i mercati più attivi: l’Italia in particolare è il primo partner europeo, e utilizza carne brasiliana anche in prodotti “made in Italy”. Come riporta Animal Equality, ad oggi «il 70% della carne per la produzione di bresaola IGP utilizza materia prima proveniente dal Sud America». Un caso eclatante riguarda una delle principali aziende italiane di produzione di bresaola, Rigamonti, direttamente collegata alla multinazionale della carne JBS, accusata in alcune inchieste di approvvigionarsi da fattorie sanzionate per deforestazione illegale. 

Il panorama mondiale è simile anche per quanto riguarda la produzione di soia, aumentata dal 1950 ad oggi di 15 volte a causa dell’aumento del consumo di alimenti di derivazione animale a livello globale. Come riporta WWF, la soia è infatti destinata per l’80% alla produzione di farine e al 20% alla produzione di oli. Il 97% delle farine di soia è destinato ai mangimi per animali. Ancora una volta il Brasile detiene un importante primato, producendo il 30% della soia mondiale che esporta principalmente verso la Cina e l’Unione Europea. La domanda europea di soia è soddisfatta infatti al 95% dalle importazioni e solo il 5% della soia è prodotta internamente, secondo un dato dell’EU Market Observatory.

È a causa di questi stretti legami commerciali che alla embedded deforestation (deforestazione incorporata) viene attribuito l’80% della responsabilità in termini di aree deforestate. Importando prodotti e materie prime che fungono da vettori di deforestazione, i partner mondiali partecipano attivamente al degrado ambientale, incentivando il mercato e inasprendo la pressione sugli allevatori. I produttori locali, infatti, per rispondere alla crescente domanda ricorrono a mezzi illegali di produzione, aggirando i deboli sistemi di controllo. Il concetto di embedded deforestation permette di associare la deforestazione nei paesi produttori alla domanda di beni, come la soia e la carne bovina, dei paesi consumatori, ridistribuendo le giuste responsabilità a tutti gli attori in gioco, almeno a livello teorico.

Come sottolinea Alice Trombetta, «possiamo dire con certezza che il problema della deforestazione e degli incendi in Brasile, con i danni sociali e ambientali che ne conseguono, non deriva da mere difficoltà tecniche di implementazione, ma da una specifica volontà politica» che si manifesta sul piano nazionale, ma anche sul piano degli accordi internazionali. Il trattato di libero scambio UE-Mercosur ne è un esempio chiave. Contestato da agricoltori, associazioni ambientaliste, popoli indigeni ed esperti, secondo Greenpeace questo accordo sarebbe «incompatibile con la protezione dei diritti umani e ambientali ai sensi della normativa UE», proprio perché alimenta la produzione e l’esportazione dei prodotti che maggiormente contribuiscono a deforestazione, emissioni di gas serra e violazioni dei diritti umani.

 

Un appello internazionale

Per evitare che l’accordo commerciale UE-Mercosur aggravi ulteriormente i maltrattamenti sugli animali e la distruzione ambientale legati alle pratiche illegali che coinvolgono la filiera agroalimentare brasiliana, Animal Equality si è rivolta all’Unione Europea, chiedendo di non ratificare l’accordo senza prima aver adottato «un’opportuna legislazione che regoli i prodotti importati con standard specifici per il benessere degli animali e la sostenibilità ambientale».

Il reportage di Animal Equality, inoltre, è servito da occasione per lanciare un appello al Congresso Nazionale del Brasile, a cui si chiede di rafforzare e rendere trasparenti i sistemi di ispezione del benessere animale, istituire pene severe e tagliare i sussidi ad agricoltori e allevatori coinvolti in pratiche illegali di deforestazione. Secondo la direttrice italiana di Animal Equality «sono molte le iniziative politiche che possono e devono essere intraprese per contrastare definitivamente la devastazione ambientale che tutti stiamo vivendo a livello globale, che vede l’industria della carne come principale colpevole e il Brasile come triste protagonista». La stessa Greta Thunberg, in un intervento del 10 settembre al Senato brasiliano lo ha ricordato: «il mondo non può permettersi di perdere l’Amazzonia».

 

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