Un reportage inedito racconta come muore la foresta amazzonica
Il 7 settembre, Animal Equality, associazione che
monitora il trattamento degli animali negli allevamenti intensivi in Europa e
nel mondo, ha lanciato la sua inedita campagna contro la deforestazione
illegale in Brasile innescata dalla corsa alla produzione
intensiva di carne bovina e soia.
Nella stessa settimana, davanti alle ambasciate
brasiliane in Europa e nel mondo, si sono susseguite marce, presidi, scioperi
della fame e altre forme di protesta, che si sono unite all’appello
internazionale dei popoli indigeni del Brasile, riuniti nella capitale da
agosto. Numerose associazioni impegnate nella difesa dell’Amazzonia e della sua
biodiversità hanno inaugurato così la Giornata mondiale dell’Amazzonia,
protestando contro il governo di Jair Bolsonaro e le sue proposte di legge.
Infatti, secondo numerose realtà ambientaliste ed indigene – tra cui APIB (Brazil’s
Indigenous People Articulation), Greenpeace e Survival International – le
iniziative del governo Bolsonaro aggraverebbero ulteriormente le condizioni dei
biomi del Brasile. Con danni per l’intero ecosistema mondiale.
La conversione forzata delle foreste
Il prezioso ruolo delle foreste, infatti, non riguarda
solo la sopravvivenza delle popolazioni locali. Le foreste racchiudono circa
l’80% delle specie animali e vegetali del pianeta, rappresentando un
importantissimo tesoro di biodiversità e fungendo da regolatori del clima
globale. Ma solo se il loro funzionamento e la loro capacità di rigenerazione
sono preservati. Secondo un recente studio dello Stockholm Resilience
Centre tuttavia, il 40% della foresta pluviale amazzonica avrebbe già
raggiunto il punto di non ritorno (tipping point), avvicinandosi
pericolosamente a un ecosistema tipico della savana, con boschi e grandi
praterie. Le cause sarebbero da rintracciarsi nel rapido aumento della
deforestazione che, secondo l’ultimo report di MapBiomas Alert Project, sarebbe aumentata
in media del 13.6% nei sei biomi brasiliani.
Se a questo dato si aggiungono le immagini satellitari
dell’agenzia spaziale INPE (National Institute for Space Research) i
risultati appaiono allarmanti: nel solo mese di settembre 2020 sono stati
rilevati oltre 32 mila focolai accesi, il 60% in più rispetto allo stesso mese
dell’anno passato. Per quanto riguarda il Pantanal – secondo polmone verde
brasiliano e maggiore zona umida al mondo – il LASA, (Environmental
Satellite Applications Laboratory) riporta come gli incendi abbiano distrutto
il 28% del bioma, per un totale di 4,2 milioni di ettari di foresta perduti.
Questi incendi – troppo spesso dolosi – vengono appiccati in particolare nella
stagione secca, diffondendosi rapidamente e causando rilascio di CO2 in
quantità superiore a quella che la foresta riesce ad assorbire rigenerandosi.
Questa incapacità di ripresa si verifica soprattutto quando gli spazi liberati
vengono intenzionalmente dedicati a piantagioni e pascoli, e non alla rinascita
dell’ecosistema pluviale.
Si tratta di fatto di una conversione forzata, legata
alle scelte economiche del paese e alla produzione di specifici prodotti di
esportazione conosciuti come i Big Four: carne bovina, soia, olio
di palma e legname. Insieme a tutti i loro derivati, questi prodotti rappresentano
i maggiori driver di deforestazione in America Latina. Il
primato è detenuto dall’industria di produzione e lavorazione della carne che,
secondo alcune stime riportate dal WWF, causerebbe direttamente o
indirettamente l’80% della deforestazione in Amazzonia. Inoltre, come segnala
ancora MapBiomas Alert Project nel suo ultimo report, il 99,8% della
deforestazione in Brasile lo scorso anno ha mostrato segni di attività illegale
legati proprio a questo settore.
Un reportage inedito
Partendo da questi dati allarmanti, Animal
Equality ha avviato un percorso di studio e ricerca culminato in un
lavoro di inchiesta sul campo intrapreso dal team investigativo internazionale
nel Mato Grosso, stato brasiliano in cui le foreste del Pantanal e la savana
del Cerrado sono i biomi più compromessi. Attraverso riprese aeree, interviste,
collaborazioni con realtà attive sul territorio e il supporto di pubblicazioni
autorevoli, il team di Animal Equality ha prodotto un
reportage inedito che rafforza gli allarmi lanciati dai report nazionali e
internazionali.
Le immagini e le testimonianze raccolte dal team
investigativo mostrano come siano proprio gli allevatori che riforniscono le
grandi multinazionali della carne ad appiccare illegalmente incendi nelle
foreste, per liberare terreni da adibire a pascoli e coltivazioni di soia.
Azioni illegali che solo raramente vengono prese in considerazione dalle
autorità locali. Nonostante le numerose denunce, secondo il rapporto
investigativo redatto e pubblicato dall’osservatorio agroalimentare De Olho nos Ruralistas,
solo l’1% delle multe per deforestazione sono state pagate negli ultimi 25
anni.
Come sottolinea Alice Trombetta, direttrice di Animal
Equality Italia intervistata da Scomodo, il problema è
complesso ed è legato allo smantellamento progressivo delle
agenzie di ispezione, alla mancanza di budget e al numero insufficiente di
personale dipendente, oltre alle minacce ricevute dalle forze
dell’ordine. Animal Equality ha inoltre denunciato una
mancanza di monitoraggio integrale nella filiera, sia per quanto riguarda gli
standard minimi di benessere degli animali e igiene, sia nel controllo della
catena di approvvigionamento che lega le grandi industrie ai piccoli
allevatori, di cui viene verificato solo il fornitore diretto e non tutti i
partner secondari.
Come riportato dal WWF, se da un lato «in alcune
regioni, questo boom della produzione agricola ha generato benefici sociali
come l’aumento del reddito, della scolarizzazione e il miglioramento della
salute», nella maggioranza dei casi questo modello di produzione per cui la
deforestazione gioca un ruolo fondamentale continua ad avere gravi impatti
sulle economie locali, causando conflitti e disuguaglianze sociali, degrado
ambientale e accaparramento di terre. Anche in territori formalmente protetti
da politiche di conservazione o legati ai diritti dei popoli
indigeni.
Responsabilità condivisa
Non basta sottolineare le lacune giudiziarie e di
monitoraggio per comprendere le responsabilità politiche in gioco. La
deforestazione illegale dei biomi, gli incendi inarrestabili e le irregolarità
nell’intera filiera, sono strettamente legate a scelte economiche e giuridiche
che il presente governo brasiliano notoriamente continua a incentivare. Un
esempio lampante, come ricorda la direttrice di Animal Equality Italia Alice
Trombetta «è lo sconcertante disegno di legge per approvare quella che è
definita eufemisticamente come “land regularization”, che di fatto
andrebbe a legittimare, invece che arginare, il fenomeno di accaparramento
delle terre fertili». Si tratta di uno dei disegni di legge al centro della
protesta dell’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB), che ha
portato a Brasilia più di 5000 manifestanti provenienti da tutte le regioni del
Brasile e da altri stati dell’America Latina, occupando la piazza Ipê in un
campeggio, the Struggle for Life Camp, per più di una
settimana.
Nel frattempo, l’aggravarsi della deforestazione va di
pari passo anche con l’aumento dei sussidi dedicati al settore, che secondo
l’Instituto Escolhas ammonterebbero dal
2008 al 2017 a più di 100 miliardi: ulteriore dimostrazione secondo la direttrice
di Animal Equality Italia, «di quanto le decisioni degli
organi legislativi ed esecutivi siano permeabili agli interessi
dell’industria». Tuttavia, se consideriamo il valore di esportazione di questi
prodotti, la deforestazione può essere direttamente collegata anche all’aumento
di domanda dall’estero e ai trattati internazionali che favoriscono il mercato
di carne e derivati.
Con quasi il 20% delle esportazioni totali, il Brasile
è il più grande produttore mondiale di carne bovina e distribuisce i propri
prodotti in 145 paesi. Il suo più grande importatore è la Cina, con il 42,2%
delle esportazioni del paese. Anche l’Unione Europea è tra i mercati più
attivi: l’Italia in particolare è il primo partner europeo, e utilizza carne
brasiliana anche in prodotti “made in Italy”. Come riporta Animal
Equality, ad oggi «il 70% della carne per la produzione di bresaola IGP
utilizza materia prima proveniente dal Sud America». Un caso eclatante riguarda
una delle principali aziende italiane di produzione di bresaola, Rigamonti,
direttamente collegata alla multinazionale della carne JBS, accusata in
alcune inchieste di
approvvigionarsi da fattorie sanzionate per deforestazione illegale.
Il panorama mondiale è simile anche per quanto
riguarda la produzione di soia, aumentata dal 1950 ad oggi di 15 volte a causa
dell’aumento del consumo di alimenti di derivazione animale a livello globale.
Come riporta WWF, la soia è infatti destinata per l’80% alla produzione di
farine e al 20% alla produzione di oli. Il 97% delle farine di soia è destinato
ai mangimi per animali. Ancora una volta il Brasile detiene un importante primato,
producendo il 30% della soia mondiale che esporta principalmente verso la Cina
e l’Unione Europea. La domanda europea di soia è soddisfatta infatti al 95%
dalle importazioni e solo il 5% della soia è prodotta internamente, secondo un
dato dell’EU Market Observatory.
È a causa di questi stretti legami commerciali che
alla embedded deforestation (deforestazione incorporata) viene
attribuito l’80% della responsabilità in termini di aree deforestate.
Importando prodotti e materie prime che fungono da vettori di deforestazione, i
partner mondiali partecipano attivamente al degrado ambientale, incentivando il
mercato e inasprendo la pressione sugli allevatori. I produttori locali,
infatti, per rispondere alla crescente domanda ricorrono a mezzi illegali di produzione,
aggirando i deboli sistemi di controllo. Il concetto di embedded
deforestation permette di associare la deforestazione nei paesi
produttori alla domanda di beni, come la soia e la carne bovina, dei paesi
consumatori, ridistribuendo le giuste responsabilità a tutti gli attori in
gioco, almeno a livello teorico.
Come sottolinea Alice Trombetta, «possiamo dire con
certezza che il problema della deforestazione e degli incendi in Brasile, con i
danni sociali e ambientali che ne conseguono, non deriva da mere difficoltà
tecniche di implementazione, ma da una specifica volontà politica» che si
manifesta sul piano nazionale, ma anche sul piano degli accordi internazionali.
Il trattato di libero scambio UE-Mercosur ne è un esempio chiave. Contestato da
agricoltori, associazioni ambientaliste, popoli indigeni ed esperti, secondo
Greenpeace questo accordo sarebbe «incompatibile con la protezione dei diritti
umani e ambientali ai sensi della normativa UE», proprio perché alimenta la
produzione e l’esportazione dei prodotti che maggiormente contribuiscono a
deforestazione, emissioni di gas serra e violazioni dei diritti umani.
Un appello internazionale
Per evitare che l’accordo commerciale UE-Mercosur
aggravi ulteriormente i maltrattamenti sugli animali e la distruzione
ambientale legati alle pratiche illegali che coinvolgono la filiera
agroalimentare brasiliana, Animal Equality si è rivolta
all’Unione Europea, chiedendo di non ratificare l’accordo senza prima aver
adottato «un’opportuna legislazione che regoli i prodotti importati con
standard specifici per il benessere degli animali e la sostenibilità
ambientale».
Il reportage di Animal Equality, inoltre, è servito da occasione per lanciare un appello al Congresso Nazionale del Brasile, a cui si chiede di rafforzare e rendere trasparenti i sistemi di ispezione del benessere animale, istituire pene severe e tagliare i sussidi ad agricoltori e allevatori coinvolti in pratiche illegali di deforestazione. Secondo la direttrice italiana di Animal Equality «sono molte le iniziative politiche che possono e devono essere intraprese per contrastare definitivamente la devastazione ambientale che tutti stiamo vivendo a livello globale, che vede l’industria della carne come principale colpevole e il Brasile come triste protagonista». La stessa Greta Thunberg, in un intervento del 10 settembre al Senato brasiliano lo ha ricordato: «il mondo non può permettersi di perdere l’Amazzonia».
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