Molte aziende compensano le proprie emissioni di CO2 finanziando progetti di conservazione delle foreste. Eppure secondo un’indagine condotta dal Guardian assieme a Die Zeit e SourceMaterial questi crediti comprati dalle aziende sarebbero in realtà fuffa al 94%.
SHELL E CARBON OFFSETTING
Oggi voglio
aprire questa rassegna con una notizia di cui sui nostri giornali non troverete
traccia o quasi. La notizia è che una nuova inchiesta sta facendo tremare alle
fondamenta il sistema di compensazione delle emissioni di CO2. In pratica, uno
dei principali strumenti che stiamo utilizzando, a livello globale, per
affrontare la sfida della crisi climatica, è perlopiù fuffa, se non addirittura
truffa. Direi che è una notizia importante.
L’indagine è
durata nove mesi, a proposito dei tempi del giornalismo investigativo di cui
parlavamo mercoledì riguardo all’arresto di Messina Denaro, ed è stata condotta
dal Guardian, dal settimanale tedesco Die Zeit e da SourceMaterial,
un’organizzazione no-profit di giornalismo investigativo. Provo a raccontarvela
seguendo il lungo articolo del Guardian scritto da Patrick Greenfield.
Innanzitutto,
di cosa stiamo parlando? Parliamo di compensazioni di carbonio basate sulla
conservazione delle foreste. Le aziende hanno 3 modi per dire che stanno
diventando sostenibili. Il primo è diventarlo davvero, smettendo di inquinare,
il secondo è acquistare crediti di carbonio sul mercato, il terzo è acquistare
carbon offsetting ovvero compensazioni del carbonio.
In pratica
sono degli altri crediti che vanno a finanziare progetti che, si presume,
toglieranno CO2 dall’atmosfera. Quindi, ipersemplificando, se un’azienda
inquina cinquanta, paga me per piantare una serie di alberi che stimo
assorbiranno 10, l’azienda nel suo bilancio del carbonio potrà dire di aver
inquinato 40. Chiaro, più o meno?
Uno di
questi metodi è finanziare progetti di conservazione delle foreste pluviali.
Che già qui la cosa inizia un po’ a scricchiolare: io pago qualcuno per
impedire che una foresta (che ne so, l’Amazzonia, venga disboscata), poi
calcolo quanta CO2 assorbirà quel pezzo di foresta di cui ho impedito la
distruzione e faccio scalare quella CO2 risparmiata dalle emissioni
dell’azienda finanziatrice. Capite già che è difficile calcolare quanta foresta
sto effettivamente proteggendo, dovremmo avere accesso all’universo parallelo
in cui non la sto proteggendo e vedere che succede.
Ma vabbè,
proseguiamo. Ora, le aziende non si interfacciano direttamente con le
associazioni o le organizzazioni che fanno i progetti. No, ci sono delle
aziende il cui lavoro è proprio certificare questi progetti e poi metterli in
un database in cui le aziende vanno a scegliere a seconda di quanto vogliono
compensare.
La più
grande azienda di questo genere è Verra. Ed è proprio su questa organizzazione
che si è basata l’inchiesta in questione. Che ha scoperto in base all’analisi
di una percentuale molto significativa di progetti, che circa il 94% dei
crediti di compensazione della foresta pluviale sono probabilmente “crediti
fantasma” e non rappresentano vere riduzioni di carbonio. Il 94%. È una roba
enorme.
“L’analisi –
scrive Greenfield – solleva dubbi sui crediti acquistati da alcune aziende di
fama internazionale – alcune delle quali hanno etichettato i loro prodotti come
“carbon neutral”, o hanno detto ai loro consumatori che possono volare,
comprare nuovi vestiti o mangiare certi cibi senza peggiorare la crisi
climatica.
Gucci,
Salesforce, BHP, Shell, easyJet, Leon e la band Pearl Jam sono tra le decine di
aziende e organizzazioni che hanno acquistato compensazioni per la foresta
pluviale approvate da Verra per le dichiarazioni ambientali.
L’inchiesta
si è basata su due studi scientifici e su decine di interviste e reportage sul
campo con scienziati, addetti ai lavori e comunità indigene. I risultati – che
sono stati fortemente contestati da Verra – potrebbero porre seri interrogativi
alle aziende che dipendono dalle compensazioni come parte delle loro strategie
net zero.
Verra, che
ha sede a Washington DC, gestisce una serie di standard ambientali molto usati
per l’azione sul clima e lo sviluppo sostenibile, tra cui il suo standard di
carbonio verificato (VCS) che ha emesso più di 1 miliardo di crediti di
carbonio. Approva tre quarti di tutte le compensazioni volontarie. Il suo
programma di protezione delle foreste pluviali costituisce il 40% dei crediti
approvati ed è stato lanciato prima dell’accordo di Parigi con l’obiettivo di
generare entrate per la protezione degli ecosistemi.
Verra
sostiene che le conclusioni raggiunte dagli studi non sono corrette e mette in
dubbio la loro metodologia. E sottolinea che il loro lavoro dal 2009 ha
permesso di convogliare miliardi di dollari verso il lavoro vitale di
conservazione delle foreste.
Secondo i
due studi, però, solo una manciata di progetti di Verra sulle foreste pluviali
mostra prove di riduzione della deforestazione, e ulteriori analisi indicavano
che il 94% dei crediti non aveva alcun beneficio per il clima.
Secondo
l’analisi di uno studio dell’Università di Cambridge del 2022, la minaccia alle
foreste è stata sovrastimata in media del 400% per i progetti Verra.
Due diversi
gruppi di scienziati – uno con sede a livello internazionale e l’altro a
Cambridge, nel Regno Unito – hanno esaminato un totale di circa due terzi degli
87 progetti attivi approvati da Verra. Un certo numero di progetti è stato
escluso dai ricercatori quando hanno ritenuto che non fossero disponibili
informazioni sufficienti per valutarli in modo equo. I due studi del gruppo
internazionale di ricercatori hanno rilevato che solo otto dei 29 progetti
approvati da Verra, per i quali era possibile effettuare ulteriori analisi,
mostravano prove di significative riduzioni della deforestazione.
21 progetti
non avevano alcun beneficio per il clima, sette avevano un impatto tra il 98% e
il 52% in meno rispetto a quanto dichiarato con il sistema Verra e solo uno
aveva un impatto superiore dell’80%, ha rilevato l’indagine.
Mi hanno
colpito anche le parole di Barbara Haya, intevistata dal giornalista. Haya p la
direttrice del Berkeley Carbon Trading Project e ha condotto ricerche sui
crediti di carbonio per 20 anni, nella speranza di trovare un modo per far
funzionare il sistema. Ha dichiarato: “Le implicazioni di questa analisi sono
enormi. Le aziende utilizzano i crediti per dichiarare di aver ridotto le
emissioni quando la maggior parte di questi crediti non rappresenta affatto una
riduzione delle emissioni.
“I crediti
per la protezione delle foreste pluviali sono il tipo più comune sul mercato al
momento. E sta esplodendo, quindi questi risultati sono davvero importanti. Ma
i problemi non sono limitati a questo tipo di crediti. I problemi esistono per
quasi tutti i tipi di credito.
“Una
strategia per migliorare il mercato è quella di mostrare quali sono i problemi
e costringere i registri a rendere più severe le loro regole in modo che il
mercato possa essere affidabile. Ma sto iniziando a rinunciare a questa
possibilità. Ho iniziato a studiare le compensazioni di carbonio 20 anni fa,
studiando i problemi dei protocolli e dei programmi. Eccomi qui, 20 anni dopo,
a fare la stessa conversazione. Abbiamo bisogno di un processo alternativo. Il
mercato degli offset è rotto”.
Sono parole
che pesano come macigni, perché pronunciate da chi ha provato con tutta se stessa
a far funzionare questo sistema. Che non sta funzionando. Per niente. Ora, non
è che sia esattamente una novità. Più o meno questa cosa si sapeva già. Però le
dimensioni del problema sono impressionanti e soprattutto uno studio,
un’inchiesta, sono qualcosa di molto più sostanzioso di qualche sospetto o un
po’ di casi isolati.
Ora dobbiamo
capire se i governi e le aziende saranno disposti a cambiare radicalmente
questo sistema per cercare di affrontare il problema davvero oppure
preferiranno far finta di niente e continuare a dire che lo stanno affrontando,
e che formalmente, nei conti, va tutto bene.
Restando sul
Guardian e restando su questo caso, un altro articolo a firma sempre di Patrick
Greenfield assieme ad Alex Lawson prende in esame un caso specifico, quello di
Shell, per vedere le dimensioni del problema.
Secondo
quanto dichiarato da un rappresentante della stessa azienda al Guardian, Shell,
una delle cinque maggiori compagnie petrolifere del mondo,avrebbe messo da
parte più di 450 milioni di dollari da investire in progetti di compensazione
delle emissioni di anidride carbonica e prevede di acquistare ogni anno
l’equivalente della metà dell’attuale mercato delle compensazioni naturali.
In pratica
quasi tutta la strategia net zero di questa azienda, o perlomeno, un’ampia
fetta, si basa sulla compensazione, che non funziona. Il fatto è che la
compensazione è comoda, non richiede cambiamenti strutturali. Shell, come tutte
le compagnie petrolifere, non potranno mai essere sostenibili. Semplicemente, a
un certo punto, dovremo decidere che non esistono più. Quindi o si riconvertono
in qualcosa di completamente diverso, o smettono di esistere. Ed è complicato
prendere questa decisione, in questo sistema. Di certo non lo faranno i
mercati, non la possono “prendere” i mercati. Ma è anche molto difficile che la
prenda la politica, perlomeno finché stiamo all’interno di questo modello di
democrazia, basato sul voto, sui concetti di maggioranza e minoranza e così
via.
FILENI, IL BIO, LE B-CORP
A proposito
di ciò, mi viene in mente anche un’altra storia, un’altro scandalo emerso nei
giorni scorsi, questa volta una questione italiana che però anche qui riguarda
(anche se meno direttamente) i sistemi di certificazione. Parlo dello scandalo
che ha travolto l’azienda Fileni a seguito della puntata dedicatagli da Report.
Fileni che, oltre a essere uno dei colossi nell’allevamento e la vendita di
polli ha – a proposito di certificazioni – sia il marchio bio che quello di
B-corp.
Provo a
riassumervi in breve la questione. In un lungo servizio andato in onda il 9
gennaio a firma di Giulia Innocenzi gli allevamenti della Fileni vengono
accusati, immagini alla mano, di non rispettare molti degli obblighi per
potersi fregiare del marchio bio. Attraverso immagini riprese di nascosto dalla
Lav, associazione in difesa degli animali, vengono mosse pesanti accuse:
operatori che abbattono polli perché non abbastanza cresciuti, animali sempre
chiusi all’interno degli stabilimenti senza il rispetto del normale ritmo
circadiano e alimentati con mangimi contenenti OGM. Insomma, ciò che viene
descritto parla di azioni cruenti e crudeli, consumate negli stabilimenti di
Monte Roberto, Ripa Bianca e Borghi, nei territori tra Marche e Romagna.
Altra
questione sollevata dalla trasmissione TV riguarda i broiler, un tipo di pollo
che arriva ad avere un petto di dimensioni così grandi da impedirgli di stare
in piedi. Secondo l’associazione animalista Fileni non rispetterebbe i termini
per la denominazione bio in virtù del fatto che questi polli non possono essere
certificati come tali.
Insomma,
Fileni ne è uscita a dir poco malissimo, è stata attaccata dai piccoli
produttori marchigiani, messa sotto inchiesta dalla Procura di Ancona, Massimo
Fileni si è autosospeso da AssoBio e così via.
Comunque, al
di là di questo caso, questo è l’ennesima prova che i sistemi di certificazione
funzionano fino a un certo punto. Per quanto siano elaborati, fatti bene,
stringenti – e quello di B-corp è un sistema comunque piuttosto studiato ed
elaborato – sono comunque e inevitabilmente superficiali. Poi possiamo dirci
meglio che ci siano, che sono comunque uno stimolo a fare meglio, ma
difficilmente garantiscono una sostenibilità strutturale.
Il fatto è
che le prime certificazioni (tipo quella di biologico) erano molto semplici.
Poi a un certo punto ci si è accorti che non funzionavano e molti baravano,
puntavano a prendere il bollino solo per questioni di marketing e di marcato ma
facevano il minimo sforzo possibile, e se possibile provavano ad imbrogliare, per
continuare a massimizzare il profitto.
Allora le
certificazioni che sono arrivate dopo, sono diventate via via più severe,
basandosi sugli errori delle generazioni precedenti. Solo che nel frattempo le
aziende in cattiva fede hanno studiato nuovi modi per aggirarle. In un processo
potenzialmente infinito. Insomma, non possiamo aspettarci che la transizione
ecologica, quella vera, arrivi attraverso (o solo attraverso) le
certificazioni. Non c’è modo di bypassare una profonda trasformazione dei
nostri sistemi, purtroppo. O per fortuna.