venerdì 28 febbraio 2025

Le compensazioni di carbonio delle grandi aziende sono una truffa? – Andrea degl’Innocenti

Molte aziende compensano le proprie emissioni di CO2 finanziando progetti di conservazione delle foreste. Eppure secondo un’indagine condotta dal Guardian assieme a Die Zeit e SourceMaterial questi crediti comprati dalle aziende sarebbero in realtà fuffa al 94%.

SHELL E CARBON OFFSETTING

Oggi voglio aprire questa rassegna con una notizia di cui sui nostri giornali non troverete traccia o quasi. La notizia è che una nuova inchiesta sta facendo tremare alle fondamenta il sistema di compensazione delle emissioni di CO2. In pratica, uno dei principali strumenti che stiamo utilizzando, a livello globale, per affrontare la sfida della crisi climatica, è perlopiù fuffa, se non addirittura truffa. Direi che è una notizia importante. 

L’indagine è durata nove mesi, a proposito dei tempi del giornalismo investigativo di cui parlavamo mercoledì riguardo all’arresto di Messina Denaro, ed è stata condotta dal Guardian, dal settimanale tedesco Die Zeit e da SourceMaterial, un’organizzazione no-profit di giornalismo investigativo. Provo a raccontarvela seguendo il lungo articolo del Guardian scritto da Patrick Greenfield.

Innanzitutto, di cosa stiamo parlando? Parliamo di compensazioni di carbonio basate sulla conservazione delle foreste. Le aziende hanno 3 modi per dire che stanno diventando sostenibili. Il primo è diventarlo davvero, smettendo di inquinare, il secondo è acquistare crediti di carbonio sul mercato, il terzo è acquistare carbon offsetting ovvero compensazioni del carbonio.  

In pratica sono degli altri crediti che vanno a finanziare progetti che, si presume, toglieranno CO2 dall’atmosfera. Quindi, ipersemplificando, se un’azienda inquina cinquanta, paga me per piantare una serie di alberi che stimo assorbiranno 10, l’azienda nel suo bilancio del carbonio potrà dire di aver inquinato 40. Chiaro, più o meno?

Uno di questi metodi è finanziare progetti di conservazione delle foreste pluviali. Che già qui la cosa inizia un po’ a scricchiolare: io pago qualcuno per impedire che una foresta (che ne so, l’Amazzonia, venga disboscata), poi calcolo quanta CO2 assorbirà quel pezzo di foresta di cui ho impedito la distruzione e faccio scalare quella CO2 risparmiata dalle emissioni dell’azienda finanziatrice. Capite già che è difficile calcolare quanta foresta sto effettivamente proteggendo, dovremmo avere accesso all’universo parallelo in cui non la sto proteggendo e vedere che succede.

Ma vabbè, proseguiamo. Ora, le aziende non si interfacciano direttamente con le associazioni o le organizzazioni che fanno i progetti. No, ci sono delle aziende il cui lavoro è proprio certificare questi progetti e poi metterli in un database in cui le aziende vanno a scegliere a seconda di quanto vogliono compensare. 

La più grande azienda di questo genere è Verra. Ed è proprio su questa organizzazione che si è basata l’inchiesta in questione. Che ha scoperto in base all’analisi di una percentuale molto significativa di progetti, che circa il 94% dei crediti di compensazione della foresta pluviale sono probabilmente “crediti fantasma” e non rappresentano vere riduzioni di carbonio. Il 94%. È una roba enorme. 

“L’analisi – scrive Greenfield – solleva dubbi sui crediti acquistati da alcune aziende di fama internazionale – alcune delle quali hanno etichettato i loro prodotti come “carbon neutral”, o hanno detto ai loro consumatori che possono volare, comprare nuovi vestiti o mangiare certi cibi senza peggiorare la crisi climatica. 

Gucci, Salesforce, BHP, Shell, easyJet, Leon e la band Pearl Jam sono tra le decine di aziende e organizzazioni che hanno acquistato compensazioni per la foresta pluviale approvate da Verra per le dichiarazioni ambientali.

L’inchiesta si è basata su due studi scientifici e su decine di interviste e reportage sul campo con scienziati, addetti ai lavori e comunità indigene. I risultati – che sono stati fortemente contestati da Verra – potrebbero porre seri interrogativi alle aziende che dipendono dalle compensazioni come parte delle loro strategie net zero.

Verra, che ha sede a Washington DC, gestisce una serie di standard ambientali molto usati per l’azione sul clima e lo sviluppo sostenibile, tra cui il suo standard di carbonio verificato (VCS) che ha emesso più di 1 miliardo di crediti di carbonio. Approva tre quarti di tutte le compensazioni volontarie. Il suo programma di protezione delle foreste pluviali costituisce il 40% dei crediti approvati ed è stato lanciato prima dell’accordo di Parigi con l’obiettivo di generare entrate per la protezione degli ecosistemi.

Verra sostiene che le conclusioni raggiunte dagli studi non sono corrette e mette in dubbio la loro metodologia. E sottolinea che il loro lavoro dal 2009 ha permesso di convogliare miliardi di dollari verso il lavoro vitale di conservazione delle foreste.

Secondo i due studi, però, solo una manciata di progetti di Verra sulle foreste pluviali mostra prove di riduzione della deforestazione, e ulteriori analisi indicavano che il 94% dei crediti non aveva alcun beneficio per il clima.

Secondo l’analisi di uno studio dell’Università di Cambridge del 2022, la minaccia alle foreste è stata sovrastimata in media del 400% per i progetti Verra.

Due diversi gruppi di scienziati – uno con sede a livello internazionale e l’altro a Cambridge, nel Regno Unito – hanno esaminato un totale di circa due terzi degli 87 progetti attivi approvati da Verra. Un certo numero di progetti è stato escluso dai ricercatori quando hanno ritenuto che non fossero disponibili informazioni sufficienti per valutarli in modo equo. I due studi del gruppo internazionale di ricercatori hanno rilevato che solo otto dei 29 progetti approvati da Verra, per i quali era possibile effettuare ulteriori analisi, mostravano prove di significative riduzioni della deforestazione.

21 progetti non avevano alcun beneficio per il clima, sette avevano un impatto tra il 98% e il 52% in meno rispetto a quanto dichiarato con il sistema Verra e solo uno aveva un impatto superiore dell’80%, ha rilevato l’indagine.

Mi hanno colpito anche le parole di Barbara Haya, intevistata dal giornalista. Haya p la direttrice del Berkeley Carbon Trading Project e ha condotto ricerche sui crediti di carbonio per 20 anni, nella speranza di trovare un modo per far funzionare il sistema. Ha dichiarato: “Le implicazioni di questa analisi sono enormi. Le aziende utilizzano i crediti per dichiarare di aver ridotto le emissioni quando la maggior parte di questi crediti non rappresenta affatto una riduzione delle emissioni.

“I crediti per la protezione delle foreste pluviali sono il tipo più comune sul mercato al momento. E sta esplodendo, quindi questi risultati sono davvero importanti. Ma i problemi non sono limitati a questo tipo di crediti. I problemi esistono per quasi tutti i tipi di credito.

“Una strategia per migliorare il mercato è quella di mostrare quali sono i problemi e costringere i registri a rendere più severe le loro regole in modo che il mercato possa essere affidabile. Ma sto iniziando a rinunciare a questa possibilità. Ho iniziato a studiare le compensazioni di carbonio 20 anni fa, studiando i problemi dei protocolli e dei programmi. Eccomi qui, 20 anni dopo, a fare la stessa conversazione. Abbiamo bisogno di un processo alternativo. Il mercato degli offset è rotto”.

Sono parole che pesano come macigni, perché pronunciate da chi ha provato con tutta se stessa a far funzionare questo sistema. Che non sta funzionando. Per niente. Ora, non è che sia esattamente una novità. Più o meno questa cosa si sapeva già. Però le dimensioni del problema sono impressionanti e soprattutto uno studio, un’inchiesta, sono qualcosa di molto più sostanzioso di qualche sospetto o un po’ di casi isolati. 

Ora dobbiamo capire se i governi e le aziende saranno disposti a cambiare radicalmente questo sistema per cercare di affrontare il problema davvero oppure preferiranno far finta di niente e continuare a dire che lo stanno affrontando, e che formalmente, nei conti, va tutto bene. 

Restando sul Guardian e restando su questo caso, un altro articolo a firma sempre di Patrick Greenfield assieme ad Alex Lawson prende in esame un caso specifico, quello di Shell, per vedere le dimensioni del problema. 

Secondo quanto dichiarato da un rappresentante della stessa azienda al Guardian, Shell, una delle cinque maggiori compagnie petrolifere del mondo,avrebbe messo da parte più di 450 milioni di dollari da investire in progetti di compensazione delle emissioni di anidride carbonica e prevede di acquistare ogni anno l’equivalente della metà dell’attuale mercato delle compensazioni naturali.

In pratica quasi tutta la strategia net zero di questa azienda, o perlomeno, un’ampia fetta, si basa sulla compensazione, che non funziona. Il fatto è che la compensazione è comoda, non richiede cambiamenti strutturali. Shell, come tutte le compagnie petrolifere, non potranno mai essere sostenibili. Semplicemente, a un certo punto, dovremo decidere che non esistono più. Quindi o si riconvertono in qualcosa di completamente diverso, o smettono di esistere. Ed è complicato prendere questa decisione, in questo sistema. Di certo non lo faranno i mercati, non la possono “prendere” i mercati. Ma è anche molto difficile che la prenda la politica, perlomeno finché stiamo all’interno di questo modello di democrazia, basato sul voto, sui concetti di maggioranza e minoranza e così via. 

FILENI, IL BIO, LE B-CORP

A proposito di ciò, mi viene in mente anche un’altra storia, un’altro scandalo emerso nei giorni scorsi, questa volta una questione italiana che però anche qui riguarda (anche se meno direttamente) i sistemi di certificazione. Parlo dello scandalo che ha travolto l’azienda Fileni a seguito della puntata dedicatagli da Report. Fileni che, oltre a essere uno dei colossi nell’allevamento e la vendita di polli ha – a proposito di certificazioni – sia il marchio bio che quello di B-corp.

Provo a riassumervi in breve la questione. In un lungo servizio andato in onda il 9 gennaio a firma di Giulia Innocenzi gli allevamenti della Fileni vengono accusati, immagini alla mano, di non rispettare molti degli obblighi per potersi fregiare del marchio bio. Attraverso immagini riprese di nascosto dalla Lav, associazione in difesa degli animali, vengono mosse pesanti accuse: operatori che abbattono polli perché non abbastanza cresciuti, animali sempre chiusi all’interno degli stabilimenti senza il rispetto del normale ritmo circadiano e alimentati con mangimi contenenti OGM. Insomma, ciò che viene descritto parla di azioni cruenti e crudeli, consumate negli stabilimenti di Monte Roberto, Ripa Bianca e Borghi, nei territori tra Marche e Romagna.

Altra questione sollevata dalla trasmissione TV riguarda i broiler, un tipo di pollo che arriva ad avere un petto di dimensioni così grandi da impedirgli di stare in piedi. Secondo l’associazione animalista Fileni non rispetterebbe i termini per la denominazione bio in virtù del fatto che questi polli non possono essere certificati come tali.

Insomma, Fileni ne è uscita a dir poco malissimo, è stata attaccata dai piccoli produttori marchigiani, messa sotto inchiesta dalla Procura di Ancona, Massimo Fileni si è autosospeso da AssoBio e così via.

Comunque, al di là di questo caso, questo è l’ennesima prova che i sistemi di certificazione funzionano fino a un certo punto. Per quanto siano elaborati, fatti bene, stringenti – e quello di B-corp è un sistema comunque piuttosto studiato ed elaborato – sono comunque e inevitabilmente superficiali. Poi possiamo dirci meglio che ci siano, che sono comunque uno stimolo a fare meglio, ma difficilmente garantiscono una sostenibilità strutturale.

Il fatto è che le prime certificazioni (tipo quella di biologico) erano molto semplici. Poi a un certo punto ci si è accorti che non funzionavano e molti baravano, puntavano a prendere il bollino solo per questioni di marketing e di marcato ma facevano il minimo sforzo possibile, e se possibile provavano ad imbrogliare, per continuare a massimizzare il profitto. 

Allora le certificazioni che sono arrivate dopo, sono diventate via via più severe, basandosi sugli errori delle generazioni precedenti. Solo che nel frattempo le aziende in cattiva fede hanno studiato nuovi modi per aggirarle. In un processo potenzialmente infinito. Insomma, non possiamo aspettarci che la transizione ecologica, quella vera, arrivi attraverso (o solo attraverso) le certificazioni. Non c’è modo di bypassare una profonda trasformazione dei nostri sistemi, purtroppo. O per fortuna.

da qui

mercoledì 26 febbraio 2025

Non sono i nostri figli che si devono vergognare, ma chi li persegue - Haidi Gaggio Giuliani

Il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati dopo.


Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle, soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati statali, direttamente o indirettamente responsabili.

Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e “Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.

La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si processa.

Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo.

Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.

Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla vita di tutte e tutti i giovani del mondo…

Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace.

Sono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo, per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”  (Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di dirlo a voce alta.

Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro.

Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci. L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro.

Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere. Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può avvelenare l’anima.

È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente, ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per noi”?!

In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati dopo.

Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo, delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti per lo più da professionisti per altri studiosi della materia).

Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” – prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese (affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta, agli industriali.

Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava, ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si devono vergognare ma chi li persegue!

Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole, suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso.

Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che, prima o poi, li spazzerà via.

da qui

lunedì 24 febbraio 2025

‘Ignoranza e potere’, ora è più chiaro? - Antonio Cipriani

Quando otto anni fa apparve su Remocontro questo pezzo, intitolato “L’ignoranza dilagante e la camicia nera culturale”, arrivarono un sacco di critiche. Una in particolare da parte di un collega, decisamente democratico, che mi accusava, sinteticamente, di pessimismo in eccesso. “Le cose non sono così”, diceva. Già, le cose non sono mai così, se le vedi attraverso il filtro conformista mediatico. Fin quando, invece, scopri che le cose sono così. Oggi vi metto in visione quel testo del 2017 invitandovi a riflettere sul contesto nazionale e internazionale attuale. Non lo faccio per polemica, figuriamoci, la rubrica si chiama Polemos. Ma per continuare ad affermare che è il contesto culturale a costruire conoscenze e azioni nella società, o la mancanza di conoscenze e di azioni, quindi il conformismo e l’indifferenza che rappresentano la base di questo nuovo turbo capitalismo fascista tecnologico.

 

Ecco il testo del 2017

Da quando l’ignoranza è diventata una categoria filosofica, o per meglio dire, il terreno preferito sul quale agire nella dialettica? Da quando l’ignoranza e quel non sapere e non capire niente di più complesso dell’etichetta della birra, con la convinzione di aver chiaro tutto, sono diventati valori sui quali essere orgogliosi? Non ho una risposta, mi pongo la domanda, mentre assisto al disprezzo di stampo fascista per tutto quello è identificato come diverso, che vagamente ha un minimo di consapevolezza sociale e culturale. O, per lo meno, un minimo di ragionevolezza, di umanità.

Gli ignoranti non hanno preso il potere, non potrebbero farlo. Però adesso agiscono alla luce del sole, rivendicando ogni forma di stupidità, di becerume, di rigurgito razzista, di aggressività impasticcata. Rappresentano le avanguardie picconatrici della distruzione dei vincoli umani, culturali, ecologici, politici a vantaggio di una visione subumana, fatta di cattiveria, livore, di masochismo sociale e territoriale.

Sono quelli che odiano. Odiano gli umani odiano gli alberi. Detestano il verde e considerano “da intellettuale” non solo leggere un libro, ma proteggere un giardino pubblico dai sacchetti dell’immondizia, o difendere il diritto degli ultimi a esistere e ad avere diritti. Sdoganati dalle urticanti arene televisive, dai media in genere, si sono abbeverati alla narrazione tossica della pappa securitaria, propagano la paura come fosse una diceria da comari. Hanno scoperto il nemico, finalmente. Ora sanno perché i loro figli sono disoccupati, perché il futuro cade a pezzi e perché l’aria infetta delle discariche arriva alle loro finestre.

Ora che hanno capito, con i loro forconi, con il fez o con i nickname sui social, rabbiosi e avvelenati, sono scesi in campo per questa rivolta. Hanno scelto. E clicca qua clicca là si sono schierati al fianco di chi deturpa, di chi violenta, di chi inquina, di ogni forma di sopraffazione del forte sul debole, dell’uomo sulla donna. Sempre dalla parte del padrone, come cani da guardia con i denti di fuori, a difendere gli interessi di chi nei decenni li ha resi più poveri e schiavi, sicuramente senza speranze né redenzione.

L’ignoranza non ha preso il potere, dicevo prima. Ma come è accaduto per il fascismo, rappresenta il tappetino dove il potere può poggiare i piedi senza sporcarseli. Ci pensano gli schiavi a combattere per spezzare ogni opposizione, ogni resistenza, ogni dialettica civile. Brutti, sporchi e cattivi e al servizio di un’idea di società che preveda meno diritti (e neanche uguali per tutti), ricatti come fossero dogmi e tanta tanta bruttezza. Obbedienza ottusa a comportamenti di massa spregevoli, sui social come sulle spiagge, nelle città del turismo dove la declinazione ovvia del pianeta ignoranza è il viaggiare senza rispetto. Gonfi di quel senso di onnipotenza che viene dal pensare di avere fatto il pieno dei diritti senza occuparsi manco un minuto dei doveri verso il prossimo.

Scrivo sull’ignoranza come paradigma. Non ci sono riferimenti politici né nostalgie di passato. Anche perché credo serva una coscienza civile accesa, resistente e attiva tra i cittadini pensanti, che impedisca ai nostri figli di finire sotto gli influssi mediatici e politici di un fascismo anche peggiore: razzista, xenofobo, da paura e stupidità. Ma anche allegro, modaiolo, disinvolto e arrogante, che ama i ragazzetti clonati tatuati ciondolanti con le birrette in mano. Precari, alla moda, trasgressivi e succubi.  Cioè l’altra faccia della medaglia: da una parte l’incattivito utile, dall’altra lo schiavetto creativo contento, alla moda e metropolitano. Due aspetti della subalternità culturale inaccettabile che priva di senso critico e getta le basi per la resa finale.

Che fare quindi? Reinventare. Non rassegnarsi di fronte alla congiura dei mediocri che hanno occupato giornali e istituzioni, al dilagare dell’ignoranza come codice di potenza dialettica, al qualunquismo creativo e trasgressivo metropolitano. La storia ci insegna che anche quando tutto sembra perduto, esiste una possibilità di ripensare e individuare modi e culture proprie, rovesciando quelle egemoniche, globalizzate e terribili che sembrano invincibili. Cura e attenzione come forme di generosità, fuori dalle mode, spogliandosi dei goffi abiti che vogliono farci indossare a forza e che ci rendono ridicoli. Eticamente, esteticamente, come esseri umani, come figli e nipoti di chi ha dato il sangue per conquistare libertà e diritti.

Un giorno, quando i nostri pronipoti leggeranno dell’inciviltà di questo tempo scintillante e codardo dovremmo poter essere almeno ricordati come quelli che si opposero, che fecero la loro parte per coltivare cultura e non indossarono la camicia nera culturale – nonostante gli evidenti vantaggi immediati –  perché preferirono di no.

La via della sapienza è oscura e lastricata di misteri. Solo chi procede senza sapere, alla scoperta passo dopo passo, potrà cogliere il miracolo. Tutti gli altri si muovono appesi ai fili, come marionette delle certezze assolute, convinte nella bruttezza di aver visto la luce.

da qui

domenica 23 febbraio 2025

Lettera aperta ai giornalisti sul Lupo. Basta fake news - Grig

 

Sappiamo tutti quanto sia importante una corretta informazione perché l’opinione pubblica possa formarsi una propria idea in un momento storico così complesso e difficile.

Ciò vale anche per i rapporti fra fauna selvatica e attività umane, dove spesso prevale il sensazionalismo, talvolta vera e propria falsità.

In Italia accade fin troppo spesso in relazione al Lupo (Canis lupus).

Si legge di reintroduzioni di Lupi (mai avvenute in Italia), invasioni (“nelle valli Cuneesi ce ne sono migliaia”) di Lupi (inesistenti), aggressioni a persone da parte di Lupi (mai avvenute) e favole via discorrendo.

Spesso credenze e suggestioni la fanno da padrone, come in quel caso, avvenuto tempo fa, in cui un cacciatore rimase per ore in balìa di un branco di famelici Lupi…che nessuno (lui per primo) vide mai.

Quando compare un Lupo, vero o presunto, dubbi favole si diffondono: cerchiamo di rimanere nella realtà.

E’ l’esortazione che facciamo al mondo dell’informazione con questa lettera aperta, promossa da Daniela Stabile (attivista animalista), sottoscritta anche da Antonio Iannibelli (fotografo naturalista, G.E.V., studioso di Lupi), Francesco De Giorgio (etologo).

Ringraziamo fin d’ora chi leggerà con attenzione.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

Gentilissimi tutti,

con la presente, in qualità di esperti e cittadini impegnati da tempo per un corretto rapporto fra fauna selvatica e attività umane, desideriamo proporre elementi di necessaria considerazione perchè sia fornita all’opinione pubblica un’equilibrata e obiettiva informazione sul lupo scevra da sensazionalismi ed elementi privi di riscontro scientifico. 

Negli ultimi anni, la comunicazione messa in atto da molti giornalisti si è dimostrata totalmente priva di nozioni scientifiche, e al contempo colma di inesattezze, nonché di notizie non corrispondenti al vero, basti vedere gli innumerevoli articoli nei quali si parla di fantomatiche reintroduzioni del lupo, quando in realtà, la sua espansione è frutto solo ed esclusivamente di dinamiche naturali, o ai tantissimi casi di cani lupi cecoslovacchi che vengono puntualmente spacciati per lupi, o ai tanti testi filo-allarmistici corredati da titoloni a lettere cubitali “Allarme lupi”, “ALLARME! Lupi avvistati in zone urbane, LA GENTE HA PAURA” , e così via.

Crediamo fermamente che ci sia bisogno di una comunicazione basata sulla consapevolezza e sul rispetto, sia nei confronti di un animale selvatico che è un componente fondamentali per l’equilibrio ecosistemico, e sia nei confronti degli utenti che invece di imparare, ricevono e assorbono questi scritti in maniera totalmente sbagliata e nociva, l’immagine che viene percepita dalla collettività è unicamente quella insana del lupo cattivo e non per quello che è realmente, un predatore sì ma che, se lasciato in pace, non rappresenta alcun pericolo verso l’ essere umano, in quanto quest’ ultimo non è concepito dal lupo come una possibile preda.

Negli ultimi tempi assistiamo a una crescente diffusione di notizie allarmistiche sui lupi, spesso prive di un reale fondamento scientifico e basate su episodi decontestualizzati. Titoli sensazionalistici e immagini di lupi avvistati vicino ai centri abitati generano paure infondate tra i cittadini, contribuendo a una percezione distorta della realtà.I lupi, come confermato da studi scientifici e dagli enti di tutela della fauna, non rappresentano un pericolo per l’uomo. Sono animali schivi, il cui ritorno nei nostri territori è segno di un ecosistema più sano. L’aumento degli avvistamenti è dovuto, oltre alla maggiore disponibilità di cibo, anche alla diffusione di fototrappole, videocamere di sorveglianza e smartphone, che permettono di documentare situazioni che in passato passavano inosservate. Inoltre, il disturbo causato da alcune attività umane – come la caccia, il taglio indiscriminato dei boschi, la frammentazione degli habitat e il consumo di suolo – li costringe sempre più spesso a uscire allo scoperto e ad avvicinarsi ai centri abitati.Partecipare agli eventi organizzati da esperti, associazioni di volontari, guardie ecologiche e polizia locale addetta alla fauna selvatica aiuta a conoscere meglio la biologia del lupo. Ad esempio, un aumento degli avvistamenti si registra nei primi mesi dell’anno, quando i giovani lupi in dispersione, non trovando un territorio libero, si avvicinano temporaneamente alle attività umane. Questa fase è naturale e transitoria: come arriva un giovane lupo, così se ne andrà, talvolta nello stesso giorno o nel giro di poche settimane.

Per questo motivo, invitiamo gli addetti stampa e i giornalisti a consultare esperti locali o nazionali di fauna selvatica prima di pubblicare notizie allarmistiche. Questi professionisti saranno lieti di fornire informazioni corrette, consentendo di realizzare articoli basati su dati scientifici. Chi legge saprà apprezzare nel tempo un’informazione responsabile e affidabile.

La protezione dell’ambiente, e quindi anche dei lupi, dipende molto dalla qualità dell’informazione diffusa dai giornali, dai siti web, dai social e da tutti i media. Attenersi ai fatti e rispettare l’articolo 9 della Costituzione italiana, che sancisce la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, non è solo un dovere professionale, ma un atto di responsabilità verso le future generazioni.

Chiediamo ai media e ai politici di trattare l’argomento con maggiore attenzione, consultando esperti e diffondendo informazioni corrette. Creare allarmismo non solo danneggia la percezione di questa specie protetta, ma alimenta tensioni inutili tra cittadini e istituzioni.”

 

– Antonio Iannibelli, fotografo naturalista, guardia ecologica volontaria, studioso di lupi.

La paura del selvatico, in questo caso del lupo, non è biologica, ma culturale.

Ovvero non appartiene alla nostra storia bio-evolutiva di animali umani, ma da una cultura oscurantista lunga secoli se non millenni, che oggi è il caso di lasciare all’oblìo del tempo.

Diversamente da quanto narrato infatti, i nostri antenati preistorici non vivevano nella paura, ma nell’animalità, cioè avevano piena conoscenza del mondo naturale. Noi a quel modo di percepire e vivere il mondo dobbiamo, anzi abbiamo l’obbligo etico, di riferirci.

Per questo la conoscenza dei lupi, ma anche di altri selvatici, dovrebbe essere quasi scuola dell’obbligo. Invece delle inutili ore di religione o educazione fisica, andrebbero introdotte nelle scuole ore di educazione all’animalità.

In questo senso anche i media possono, devono, fare la loro parte, evitando di seminare terrore antiscientifico, ma invece spronando a conoscere, ad usare un ragionamento scientifico, a tornare ad una logica animale che noi tutti possediamo dalla nascita, ma che ignoriamo, dimentichiamo, neghiamo.

I lupi rappresentano un valore, soprattutto in questi tempi oscuri, un valore per l’ambiente, per la biodiversità, per la società.”

 

– Francesco De Giorgio. Etologo antispecista. Presidente di Sparta Riserva dell’Animalità 

Per tutti i motivi sopra riportati, riteniamo che sia di fondamentale importanza, soprattutto in un momento così critico e nefasto per la fauna selvatica, che i giornalisti si avvalgano di quel principio fondamentale chiamato etica, e che si adoperino in una comunicazione sana ed equilibrata, come deontologia comanda, onde evitare allarmismo, isteria collettiva e gente che si sentirà legittimata ad agire con metodi subdoli e irrispettosi delle leggi vigenti.

Il Lupo (Canis lupus) è tutelato ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 12 della Direttiva n. 92/43/CEE sulla salvaguardia degli habitat naturali e seminaturali, la fauna e la flora, rientrando negli allegati II e IV, lettera a) ed è specie particolarmente protetta ai sensi dell’art. 2 della legge n. 157/1992 e s.m.i.

E’, inoltre, tutelato in quanto presente nell’Allegato II della Convenzione internazionale relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa (Berna, 19 settembre 1979), esecutiva in Italia con la legge n. 503/1981.

L’uccisione di un esemplare di Lupo è sanzionata penalmente dall’art. 30 della legge n. 157/1992 e s.m.i., in caso di uccisione da parte di soggetto privo di autorizzazione alla caccia può integrare anche il reato di cui all’art. 625 cod. pen. (furto aggravato ai danni dello Stato).

La diffusione di notizie false o tendenziose riguardo il Lupo può integrare gli estremi dell’art. 656 cod. pen., mentre il procurato allarme può integrare gli estremi dell’art. 658 cod. pen.”

 

– Gruppo d’Intervento Giuridico Onlus. Associazione ambientalista 

Ultimamente, affrontare serenamente il tema legato alla tutela della Natura, sembra essere un’ impresa davvero ardua; ci si siede un attimo, si accede ai social con la speranza di estraniarsi da tutte le notizie nefaste inerenti alle guerre, ai femminicidi, alla criminalità che ormai ha raggiunto livelli inenarrabili, agli innumerevoli fatti di cronaca nera che purtroppo vedono coinvolti tantissimi bambini, e ci si trova, invece, a essere letteralmente bombardati da articoli sul lupo, un continuo martellamento che ha la funzione di una vera e propria coercizione cognitiva, lupi descritti come demoni enormi e cattivi, lupi onnipresenti e famelici, lupi, e ancora lupi…

Essendo un’assidua frequentatrice di boschi, sinceramente, non ho mai riscontrato pericolosità negli animali selvatici, fortunatamente, la comunicazione fuorviante messa in atto da molte testate giornalistiche, non mi ha portata a rinunciare alla mia passione…

Oggi come oggi, in un mondo reale davvero violento, è necessario che ogni testata giornalistica si esprima in rispetto di tutti gli utenti che, come me, desiderano essere informati in maniera corretta, e non resi “schiavi” di paure ataviche e ingiustificate.

Valle Isarco, cartello attenti al Lupo

Credo fermamente che sia doveroso, da parte di chi gestisce le testate giornalistiche sui social, intervenire tempestivamente onde alienare e condannare i commenti di tutti coloro che istighino al bracconaggio, o che, in qualche maniera usino un linguaggio offensivo e irrispettoso, anche queste sono forme di violenza a tutti gli effetti che vengono percepite e assorbite da tanti minorenni lasciati, troppo spesso, da soli davanti a un cellulare o a un PC che sia, c’è davvero bisogno di una comunicazione costruttiva e istruttiva, la prepotenza e sopraffazione non devono essere tollerabili. 

Viva il lupo!”

 

– Daniela Stabile. Attivista/volontaria ma prima di tutto un’utente che respinge fortemente gli attacchi incessanti alla propria mente, e al lupo. 

Con la speranza che si possa intraprendere un cammino davvero istruttivo, e certi di un’ ampia collaborazione da parte dei signori giornalisti affinché il lupo, la fauna selvatica, e gli stessi esseri umani, smettano di essere strumentalizzati, porgiamo i nostri più cordiali saluti.

Francesco De Giorgio 

Daniela Stabile 

Stefano Deliperi – Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) 

Antonio Iannibelli 

 

qui Lupus in bufala – manuale pratico per un’informazione corretta sul Lupo, predisposto da

LIFE WolfAlps EU (LWA EU), un progetto europeo finanziato nell’ambito del programma LIFE Natura e Biodiversità che mette in campo un partenariato internazionale di venti diversi enti ed è beneficiario del supporto di sei co-finanziatori. Il progetto è iniziato nel settembre 2019 e concluso nel settembre 2024, con lo scopo di migliorare la coesistenza fra il lupo e le persone che vivono e lavorano sulle Alpi, costruendo e realizzando soluzioni che garantiscano la sopravvivenza a lungo termine dell’animale in quest’area.
Facta.news, un progetto di debunking nato ad aprile 2020. Da marzo 2021 è una testata registrata, impegnata quotidianamente nella lotta alla disinformazione. Facta.news è supporter del progetto LWA EU ed è membro dell’International Fact-Checking Network (Ifcn).

da qui

sabato 22 febbraio 2025

La propaganda spaventa 60 milioni di persone per l’accoglienza di 20mila minori stranieri - Mariano Turigliatto


A volte la percezione è davvero lontana dalla realtà, quando poi si parla di immigrazione la forza della propaganda della paura finisce per annebbiare perfino le menti più lucide. Prendiamo il caso dei minori stranieri non accompagnati (MSNA). Dei loro viaggi sappiamo parecchio, per fortuna c’è chi li racconta. Meno sappiamo delle loro storie in Italia, del loro percorso verso la maggiore età, dell’impatto con le istituzioni, insomma della loro accoglienza. Per questo sono particolarmente preziosi i dati dell’ultimo rapporto semestrale di approfondimento rilasciato dal Ministero del lavoro e delle Politiche sociali. Cominciamo dal “particolare”.

Tra i MSNA ci sono anche gli ucraini: si tratta di minori emigrati diversi dagli altri. Tanti hanno con sé un genitore – quindi non figurano nei numeri perché non sono MSNA -, altri stanno con chi li ha accolti o ospitati. In questo caso hanno un tutore e sono classificati come MSNA. Il 96% dei minori ucraini è collocato presso soggetti privati, il 67% delle famiglie ospitanti sono parenti (in particolare nonni e zii) e per il restante 33% si tratta di altre famiglie ospitanti senza legami di parentela.

Nel febbraio 2022, la Russia invade l’Ucraina, scoppia la guerra e cominciano da subito gli arrivi di MSNA anche in Italia. A luglio dello stesso anno sono già 7.000 circa. Già da agosto 2022, i nuovi ingressi di minori provenienti dall’Ucraina vanno riducendosi, 200 minori al mese. Meno di quanti fanno ritorno in patria o diventano maggiorenni. Così il 31 dicembre 2023 i MSNA ucraini presenti in Italia sono scesi a 4.131. Un anno dopo la presenza dei MSNA ucraini in Italia si è ancora assottigliata arrivando a 3.503 unità, pari al 18,8% del totale dei MSNA (18.625). La popolazione dei minori ucraini presenti in Italia si caratterizza per un marcato equilibrio di genere e un’età prevalente compresa tra i 7 e i 14 anni; appartiene a tale fascia di età oltre il 56% delle minori di origine ucraina (1770) e il 54,4% dei maschi (1733). L’età media più bassa e l’abitudine a studiare ne ha favorito l’inserimento scolastico – primarie e secondarie si sono spesso attrezzate per accoglierli garantendo loro la normale frequenza scolastica, fra le 30 e le 40 ore settimanali.

Poi ci sono tutti gli altri MSNA. Il 31 dicembre 2024 erano 18.625 (avete letto bene! scommetto che pensavate che fossero almeno 10 volte tanto), così distribuiti: 12.780 (68,6%) arrivano dall’Africa, 1,407 (7,6%) dall’Asia, 4.385 dall’Europa dell’Est (Ucraini e Albanesi), 49 dalle Americhe. Per più della metà sono collocati in strutture nel Meridione, il 36% al Nord e il 13% nelle regioni del Centro. Sono 420 i MSNA extra-europei di genere femminile. Nel 2024 sono state 2030 le domande di protezione internazionale di MSNA che provengono da paesi “a rischio”, in guerra o afflitti da instabilità politica tale da mettere a repentaglio la loro vita. Al 35% dei richiedenti il permesso di soggiorno per asilo è stato rifiutato.

Il 78% dei MSNA ha più di 16 anni, i maschi sono quasi il 90%, le femmine sono mediamente più giovani (fra i 7 e i 14 anni). Agli ultrasedicenni, in prevalenza poco o per niente scolarizzati, lo Stato italiano garantisce 8 ore di scuola alla settimana, prevalentemente per imparare la lingua, erogate nei CPIA (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti). Dato che l’offerta è insufficiente, nelle zone urbane fioriscono attività di volontariato, più o meno strutturate, per integrare la pratica e la conoscenza della lingua.

Il boom degli ingressi di minori si è avuto nel 2023 (23.226, compresi i 7000 ucraini), nel 2024 sono calati drasticamente: 10.000 MSNA sbarcati in meno, 4.000 in meno quelli ritrovati sul territorio. Anche nell’anno appena finito, gli ingressi di MSNA da sbarchi sono circa 8.000, i rimanenti 6900 da porti, aeroporti e valichi. Nel 2024 sono quasi del tutto terminati gli arrivi di minori ucraini e sono iniziati i rientri in patria.

Nel corso del 2024 sono usciti dal sistema di accoglienza 20.859 MSNA a fronte dei 14.900 circa arrivati. Per più del 62% dei casi l’uscita è dovuta il compimento della maggiore età, mentre il 35% è costituito dagli allontanamenti volontari: minori che scappano o che vanno all’estero per ritrovare conoscenti, amici e famigliari. Il rimanente 3% degli eventi di uscita è quasi tutto da accreditare al rientro in patria dei minori ucraini.

La prima riflessione è come sia possibile che un paese di quasi 60 milioni di abitanti si spaventi di fronte alla necessità di provvedere a circa 20mila ragazzi (mille per regione, uno ogni 30mila Italiani) da controllare, aiutare, istruire e mettere all’onor del mondo. La seconda è cosa ne sarà degli/delle ucraini/e (quanti sono?) che, diventati maggiorenni, non sono rientrati nel loro paese e che stanno sparendo dai servizi del sistema di protezione nazionale.

La sensazione è che i MSNA allo sbando servano a distogliere l’attenzione: come pensare (seriamente) che le donne corrano più rischi, quando il rosario è quello dei femminicidi quasi quotidiani? Gli anziani, perfino quando sono valenti imprenditori, non sono forse più minacciati dalle truffe telefoniche che dai piccoli reati a opera di giovani italiani e anche qualche giovane immigrato? Ecco, la propaganda efficace e martellante è riuscita a penetrare così profondamente nelle nostre teste da farci prendere lucciole per lanterne.

da qui

venerdì 21 febbraio 2025

Meno tasse soltanto per pochi ricchi - Rocco Artifoni

Da mesi nel Governo italiano si discute sulla possibile riduzione dell’aliquota fiscale del 35%, che si applica ai redditi delle persone fisiche da 28.000 a 50.000 euro.

In particolare Forza Italia propone di diminuire la percentuale di 2 punti, scendendo al 33%.

Non solo: di estendere questa aliquota anche ai redditi tra 50.000 e 60.000 euro, attualmente tassati al 43%.

Questa modifica dell’aliquota IRPEF, secondo i proponenti, dovrebbe servire ad agevolare il ceto medio.

Ma se si prendono in considerazione gli ultimi dati disponibili sulle dichiarazioni fiscali (del 2023 riferite ai redditi del 2022), si vede chiaramente che il ceto medio non c’entra nulla con queste proposte.

Per comprendere l’effettivo impatto dell’eventuale riduzione dell’aliquota al 33% e dell’applicazione anche ai redditi fino a 60.000 euro, si può calcolare il risparmio in base ai diversi livelli di retribuzione.

Chi guadagna 30.000 euro pagherebbe 40 euro in meno di imposta all’anno.

Con 40.000 euro di reddito lo sconto sarebbe di 240 euro.

Chi ha un reddito di 50.000 avrebbe 440 euro e dai 60.000 euro in su il risparmio sarebbe di 1.440 euro.

In sintesi, si tratterebbe di una riduzione evidentemente contraria al criterio della progressività costituzionale, perché la diminuzione dell’imposta si accentua con l’aumento del reddito.

Resta da vedere quanti potrebbero essere i contribuenti favoriti da queste riduzioni di tasse e se davvero appartengono al ceto medio.

I contribuenti che avrebbero il massimo risparmio (1.440 euro) sono quelli con redditi superiori a 60.000 euro.

Si tratta di 1.756.284 persone, che corrispondono al 4,23% del totale.

Se anche volessimo considerare i 762.699 contribuenti con redditi da 50.000 a 60.000 euro, che avrebbero un vantaggio crescente compreso tra 440 e 1.440 euro, si tratterebbe dell’1,84% del totale.

A questo punto sorge spontanea la domanda: che senso ha agevolare soprattutto il 6% dei contribuenti più ricchi?

Anche allargando il calcolo a tutti coloro che avrebbero uno sconto (anche se minimo), cioè a partire dai redditi di 28.000 euro a cui si applica l’aliquota attuale del 35%, si tratterebbe in totale del 25% dei contribuenti.

Detto in altro modo, il 75% dei contribuenti, quelli con i redditi meno elevati, non trarrebbe alcun beneficio da questa modifica dell’IRPEF.

Perciò, affermare che la riduzione dell’aliquota del 35% andrebbe a vantaggio del ceto medio, se l’aggettivo “medio” ha un senso, è palesemente falso.

In tutta questa vicenda quello che più stupisce è la quasi mancanza di obiezioni sia da parte delle altre forze politiche sia degli organi di informazione.

Ogni volta che si parla della proposta di Forza Italia non c’è nessuno che mostri e dimostri, numeri alla mano, che andrebbe soltanto a favore dei più abbienti.

Nulla ai più poveri e nemmeno al ceto medio indicato espressamente come beneficiario.

Non solo: la riduzione delle imposte dovute dai contribuenti più ricchi, comporterà una minor disponibilità di risorse, che di fatto si trasformano in una riduzione dei servizi per tutti e questa diminuzione di fatto colpisce maggiormente chi è più in difficoltà.

Di conseguenza il vantaggio per i più ricchi si trasforma anche in uno svantaggio per tutti gli altri.

Il commediografo inglese Noel Coward ha scritto: “È sorprendente quante persone sono turbate dall’onestà e quante poche dall’inganno”.

E forse aveva ragione anche Pier Paolo Pasolini: “Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”.

da qui

giovedì 20 febbraio 2025

Sugar tax in Italia, è iniziato il conto alla rovescia. È più importante il profitto o la salute? - Giovanni Peronato

 

Salvo ripensamenti la sugar tax italiana dovrebbe entrare in vigore quest’anno, dopo il recente parere negativo espresso dal ministero dell’Economia e dalla Ragioneria dello Stato alla proposta di Forza Italia e Lega di rinviarla al 2026.

La legge era stata varata dal Governo Conte II nella manovra finanziaria del 2020 (ministra della Sanità Giulia Grillo) ma successivamente, e per la forte opposizione del ministro Antonio Tajani, è stata rinviata otto volte finché, nel maggio scorso, è stata fissata l’entrata in vigore al primo luglio 2025.

Per il primo anno la tassa sarà di cinque centesimi di euro al litro per le bibite zuccherate e di 13 centesimi al chilogrammo per i prodotti zuccherati “previa diluizione”. Poi passerà rispettivamente a 10 e 25 centesimi nel 2026. I prodotti tassati saranno le bevande gassate e zuccherate (un litro di Coca-Cola costerà cinque centesimi in più), i the zuccherati, le bibite energetiche e i succhi di frutta.

Si tratta di aumenti irrilevanti che potrebbero non portare a diminuzione dei consumi. Questa ha avuto luogo, nei Paesi che hanno adottato la sugar tax da molti anni, solo quando la tassa è elevata, attorno al 20% del prezzo base, e quando, soprattutto, è progressiva, cioè aumenta con l’aumentare della concentrazione di zucchero in un prodotto. La sugar tax italiana non possiede nessuna di queste due caratteristiche.

Nel 2019 Il Fatto Alimentare aveva promosso una raccolta di firme a favore di una sugar tax del 20% sulle bibite zuccherate, con l’adesione delle dieci società scientifiche italiane che si occupano di nutrizione e diabete e di 340 nutrizionisti, pediatri e medici, tra cui Giuseppe Remuzzi, dell’Istituto Mario Negri, e Walter Ricciardi, ex presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss). La proposta stimava un possibile incasso di 400 milioni di euro all’anno da destinare a iniziative di educazione alimentare e a progetti per incentivare la riduzione dei consumi. La proposta è stata ignorata dal governo.

Secondo un conteggio aggiornato al 2023, la sugar tax è presente in 105 Paesi con una copertura del 51% della popolazione mondiale, in particolare, del 67% della popolazione dei Paesi a basso reddito rispetto al 29% di quelli ad alto reddito. In Europa è presente in Norvegia, Finlandia, Francia, Spagna, Polonia e Ungheria. In Cile e Messico, dove la sugar tax è elevata e progressiva, i consumi sono calati del 12%. In Danimarca invece è stata ritirata perché era facile procurarsi bevande non tassate in Germania o Svezia. Laddove l’incremento di prezzo ha raggiunto il 20-30%, si è registrato un vistoso calo dei consumi, soprattutto se i ricavi non sono serviti a fare cassa, ma sono stati reinvestiti in campagne educative.

In Italia consumiamo in media 83 grammi di zuccheri semplici al giorno pro capite, al posto dei 50 consigliati per una dieta da duemila chilocalorie. Ogni anno beviamo 54 litri di bevande gassate e zuccherate a testa, che corrispondono a cinque chilogrammi di zucchero pro capite. L’ultimo dato elaborato da Epicentro (Iss) indica che il 24,6% dei bambini italiani consuma bibite zuccherate e/o gassate tutti i giorni.

In Europa, l’Italia si colloca al quarto posto per prevalenza di sovrappeso e obesità (al secondo posto per la sola obesità) nella fascia d’età 7-9 anni, con tassi appena al di sotto del 40%, superata solo da Cipro, Grecia e Spagna. Secondo il World obesity altlas del 2024, il 44% dei bambini italiani (3.341.000) ha un indice di massa corporea (Bmi, ottenuto dividendo il peso per il quadrato dell’altezza) elevato (maggiore o uguale a 25 punti), saranno il 49% nel 2035.

Le previsioni sull’impatto economico della sugar tax sono discordanti; per il governo si avrà un miglioramento della salute dei cittadini, per Assobibe (l’associazione di Confindustria che riunisce marchi come Coca-Cola, Red Bull e San Pellegrino) vi sono rischi occupazionali (5.050 posti di lavoro in meno), calo delle vendite (meno 16%), taglio agli investimenti. Persino Coldiretti si è detta contraria perché, a suo dire, scoraggerebbe il consumo di prodotti Made in Italy come chinotti e cedrate.

Ricordiamo che in una lattina da 330 millilitri di una bevanda gassata e zuccherata ci sono sette cucchiaini da caffè (circa 35 grammi) di zucchero. Secondo una metanalisi dell’American diabetes association, il consumo di una o due bevande zuccherate a pasto comporta un aumento del 26% di rischio di diabete rispetto a chi non ne fa uso o ne assume meno di una al mese. Nei consumatori abituali c’è inoltre un rischio aumentato del 20% di andare incontro a sindrome metabolica. È più importante il profitto o la salute?

Giovanni Peronato, reumatologo, ha esercitato per molti anni all’ospedale San Bortolo di Vicenza. Ora in pensione. Fa parte del gruppo di coordinamento del gruppo “NoGrazie”.


https://i0.wp.com/altreconomia.it/app/uploads/2025/01/Screenshot-2025-01-30-alle-21.24.20.png?resize=768%2C204&ssl=1

Questo articolo di Giovanni Peronato prosegue lo spazio su Altreconomia a cura del movimento “NoGrazie”. Ecco la presentazione a cura di Adriano Cattaneo e Mariolina Congedo.

“Non abbiamo né capi né finanziatori, non abbiamo né soldi né uno statuto, non c’è un presidente né un direttivo, ci sentiamo liberi di dire e scrivere ciò che vogliamo. Ci chiamiamo NoGrazie perché fin dalla fondazione, nel 2004, abbiamo pensato che così fosse giusto rispondere alle ditte farmaceutiche e di altri prodotti sanitari che offrivano al personale di salute, e continuano a farlo, soldi, beni e servizi: dalla biro alla cena conviviale, dal finanziamento per partecipare a un congresso ai fondi per una ricerca. Per queste ditte, che per risparmiare inchiostro e mostrarci anglofili, ma anche per indicare che si tratta di un insieme di imprese sovranazionali, chiamiamo Big Pharma, investire un euro su vari portatori di interessi, medici in primis, significa ottenere un ritorno di almeno tre euro in vendite e profitti. I medici e le altre categorie di sanitari esposti al marketing di Big Pharma si considerano immuni dall’influenza commerciale. Non è così. In un vecchio studio del 2001 si chiedeva a un campione di medici statunitensi quanto i rappresentanti delle ditte influenzassero le loro scelte prescrittive. Solo l’1% rispondeva ‘molto’. Ma quando agli stessi medici si chiedeva quanto i rappresentanti delle ditte influenzassero le scelte prescrittive di altri medici, era il 51% del campione a rispondere ‘molto’. In modo simile, quando a 190 studenti di medicina italiani è stato chiesto se pensassero che i medici possano essere influenzati dalle parole e dai regali dei rappresentanti delle ditte, il 24% ha risposto ‘Sì’, riferendosi a se stessi, ma questa percentuale è salita al 71% riferendosi ai colleghi. Vediamo la pagliuzza nell’occhio degli altri e non ci accorgiamo della trave nel nostro. Ci rifiutiamo di pensare che siamo influenzabili dal marketing, ma lo siamo. Pensiamo che i conflitti di interessi non ci tocchino, mentre lavorano sotto traccia a favore di Big Pharma. E, purtroppo, i conflitti di interessi sono tanto più pericolosi quanto più ci si sente immuni da essi.

Il nostro obiettivo? Contribuire a rendere la ricerca e la pratica medica e sanitaria, in particolare per quanto riguarda l’uso di farmaci, indipendente da interessi commerciali. Per mantenere le distanze da Big Pharma, per evitare che la salute sia gestita dagli interessi di mercato, i NoGrazie non accettano regali di alcun genere, evitano conflitti di interessi, segnalano informazioni distorte e marketing ingannevole, informano operatori e studenti, diffondono letture critiche sui determinanti sociali e commerciali di salute. Lo fanno attraverso una Lettera che esce con frequenza mensile ed è spedita a oltre 1.500 indirizzi e-mail (per riceverla basta iscriversi su www.nograzie.eu, ed è gratis), tramite lo stesso sito internet visitato da 500-1.000 persone al mese e un account di Facebook che ha circa 2.600 followers. Chi volesse entrare a far parte del gruppo non deve far altro che chiederlo su http://www.nograzie.eu/contatti/. Con la stessa facilità con cui si entra a far parte del movimento, se ne può uscire.

Mediante questa collaborazione con Altreconomia, ci auguriamo di sollecitare interesse ai temi di cui sopra anche in un pubblico generale, di non professionisti della salute. Perché, se è vero che gli operatori della salute sono in prima fila nelle relazioni con Big Pharma, è altrettanto vero che i danni conseguenti a queste relazioni pericolose ricadono poi su tutta la popolazione, e in particolare su chi è privo degli strumenti culturali per essere critico e documentato nelle scelte”.

da qui

mercoledì 19 febbraio 2025

Gaza Beach - Ascanio Celestini

 

Sabato 1 febbraio stavamo sul palco della sala Petrassi all’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone di Roma. Raccontavamo storie di persone travolte dalla guerra in Palestina, in Libano. Abbiamo cercato di bilanciare un po’ questa brutta maniera di raccontare il mondo sempre attraverso i potenti e la loro versione. Con le storie di Fabio Tonacci abbiamo portato in scena Abdel che scappa dal suo appartamento che sta per essere bombardato, Shahad che ha una storia triste, ma un nome bellissimo. Ziad ci ha detto che significa “arnia che trabocca miele”. Abbiamo raccontato le ultime ore di vita di Hind la bambina di cinque anni che si faceva le corone di cartone e le colorava con il pennarello.

Poi apriamo il giornale e leggiamo le dichiarazioni di questo imbecille.

Mi fa ricordare la poesia che scrisse Piero Calamandrei in risposta alle dichiarazioni di Albert Kesserling. Il nazista (noto per essere responsabile, di numerosi crimini di guerra, dalle “Fosse Ardeatine” a “Marzabotto”…, ndr) tornò in Germania e fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi. Dichiarò pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che, anzi, gli italiani dovevano fargli un monumento.

 

La poesia dedicata Trump, di seguito quella scritta da Calamandrei.

L’avrai
mister Trump, la spiaggia che pretendi
dai palestinesi
ma su quale sabbia camminerai
a deciderlo tocca a noi.

Non con la polvere dei quartieri straziati
dalle vostre bombe,
non con la terra delle fosse comuni
dove i nostri figli riposano senza nome.
Sulla sabbia di questa spiaggia,
sulla “riviére” come l’hai chiamata,
ci soffierà un vento cattivo che non fa rumore.

Perché questo è silenzio dei torturati
più duro d’ogni macigno.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
Resistenza.


Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
Resistenza.

https://comune-info.net/gaza-beach/