sabato 12 aprile 2025

Riparte la corsa all’oro. Il business illegale devasta l’Amazzonia - Giulio Cavalli

  

Mentre nei caveau delle banche centrali si accumulano lingotti dorati, l’Amazzonia muore. Il nuovo rapporto di Greenpeace, Toxic Gold, fotografa con precisione chirurgica un commercio avvelenato: quello dell’oro estratto illegalmente nei territori indigeni brasiliani, che distrugge foreste, contamina ecosistemi e alimenta un mercato globale opaco.

Dal 2018 al 2022, la superficie interessata da attività minerarie illegali nelle terre indigene del Brasile è aumentata del 265%. Il governo di Lula ha lanciato operazioni di contrasto e controllo, ma i dati del monitoraggio 2023-2024 mostrano una dinamica inquietante: l’attività si sposta da una terra indigena all’altra, come un tumore in metastasi. Laddove arretra, come nei territori Yanomami, Munduruku e Kayapó, si espande altrove: nel Sararé, l’area deforestata è raddoppiata in un anno.

Il processo è ben noto: si entra con ruspe, si devasta il suolo, si usa mercurio per separare l’oro, si inquina l’acqua e si distrugge ogni equilibrio ecologico. Il garimpo non è più un’attività artigianale: è un’industria criminale con mezzi pesanti, logistica avanzata e protezioni politiche. Le comunità indigene pagano il prezzo più alto. Secondo Fiocruz, l’84% della popolazione di nove villaggi Yanomami è contaminata da mercurio. Tra il 2019 e il 2022, 570 bambini sotto i quattro anni sono morti per cause evitabili.

Un sistema perfettamente oleato per lavare oro e responsabilità

L’oro estratto illegalmente entra poi nella catena di distribuzione attraverso un sistema di falsificazione dei documenti, complicità istituzionali e triangolazioni internazionali. Le DTVM (Distribuidoras de Títulos e Valores Mobiliários), che dovrebbero controllare l’origine del metallo, si limitano ad accettare autocertificazioni cartacee. Il risultato? Oro di provenienza sconosciuta, o peggio, nota e taciuta, si mescola a quello legale.

Il terminale più emblematico di questa filiera è la Svizzera. Nel 2022, le importazioni elvetiche di oro dal Brasile hanno superato le esportazioni registrate dal paese sudamericano del 67%. Un’anomalia da 9,7 tonnellate. E nel 2023, il divario è stato del 62%. L’oro entra da Dubai – spesso registrato come “riciclato” – oppure direttamente con spedizioni “fantasma”, in alcuni casi persino trasportato in valigia. Viene raffinato e poi rivenduto con il marchio di garanzia più prestigioso al mondo: “oro svizzero”.

Le autorità elvetiche si trincerano dietro il principio di neutralità e dietro una legislazione che non impone l’indicazione del paese di estrazione. Ma questa “neutralità con benefici” – come la definisce il rapporto – ricorda quella già sperimentata durante la Seconda guerra mondiale, quando le banche svizzere compravano l’oro saccheggiato dal regime nazista.

Quando la finanza internazionale affonda le mani nella terra indigena

Anche l’Europa ha le sue colpe. Il regolamento europeo sui minerali dei conflitti (3TG), in vigore dal 2021, prevede obblighi di due diligence, ma non include la Svizzera tra i paesi a rischio. Né affronta i rischi ambientali, come il disboscamento e la contaminazione da mercurio. Una lacuna che rende il regolamento inefficace di fronte all’ecocidio in corso.

Il mercato dell’oro è alimentato anche dai grandi acquirenti istituzionali. Le banche centrali, oggi, detengono circa un quinto dell’oro mai estratto nella storia. Nel 2024, il settore pubblico ha acquistato oltre mille tonnellate. Nonostante rappresenti meno del 23% della domanda globale, il loro potere sul mercato resta sproporzionato. E anche la loro responsabilità.

Il vertice mondiale sul clima COP30, previsto a novembre a Belém, nel cuore dell’Amazzonia, sarà il banco di prova. Lì si deciderà se affrontare seriamente la questione del commercio dell’oro o continuare a fingere che l’oro svizzero luccichi più dell’oro tossico dell’Amazzonia.

Per ora, tra le piogge di mercurio, i bambini contaminati e le foreste in fiamme, resta una sola certezza: finché l’oro continuerà a essere un rifugio sicuro per gli investimenti, l’Amazzonia sarà un campo di battaglia per la sopravvivenza.

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venerdì 11 aprile 2025

La Sanità pubblica è messa sempre peggio. Secondo il sindacato Nursing up mancano all’appello 8500 ostetriche

Secondo il sindacato Nursing up, in Italia mancano all’appello almeno 8500 ostetriche Si tratta di una carenza drammatica che, secondo il sindacato, rischia di aumentare fino al 30% entro il 2030, trascinando con sé la qualità, la sicurezza e l’umanità dell’assistenza alla nascita. “Parliamo di professioniste essenziali, oggi costrette a lavorare con turni infiniti, spesso ben oltre le 12 ore, in reparti dove ogni secondo può fare la differenza tra la vita e la morte”, denuncia Nursing Up. “Non sono solo numeri: sono volti, mani, cuori. In maggioranza donne che accompagnano altre donne nel momento più delicato dell’esistenza e che lo fanno, sempre più spesso, senza adeguato supporto, senza riconoscimenti, senza voce”.

“L’Italia si ferma a 29 ostetriche ogni 100mila abitanti, ben al di sotto della media europea di 43. Una voragine che si allarga ogni giorno, lasciando le corsie scoperte, sovraccaricando chi resta, spingendo fuori chi non ce la fa più. È una questione di dignità professionale, ma anche di sicurezza pubblica”, afferma il sindacato. “L’ostetrica è pilastro clinico e umano nella relazione madre-bambino, eppure ancora esclusa dalla legge che riconosce l’ indennità di specificità all’altro pilastro dell’assistenza, la professione infermieristica , come anche da percorsi chiari di valorizzazione economica e normativa” continua.

“È tempo di rimediare a questa grave mancanza. Serve una legge che estenda alle ostetriche l’indennità di specificità infermieristica già riconosciuta agli infermieri. E che sia una legge, una misura concreta, equa, necessaria, per riportare giustizia e coerenza nel sistema” aggiunge. “Quanto vale, per lo Stato, la tutela della nascita? Quando arriverà un vero riconoscimento per una figura tanto cruciale? O dobbiamo aspettare che il sistema collassi del tutto?” si chiede il sindacato.

Le segnalazioni si moltiplicano: al DAI Materno Infantile della Federico II di Napoli, al Pronto Soccorso Ostetrico di Treviso, all’Ospedale Pertini di Roma, fino a Liguria, Lombardia, Piemonte. Una mappa del disagio che abbraccia l’intero Paese, a testimoniare che non si tratta di un’anomalia locale, ma di una frattura nazionale, profonda e trascurata. “Servono subito nuove assunzioni, revisione dei modelli organizzativi, allineamento agli standard europei. Ma soprattutto serve rispetto. Per la professione. Per chi la esercita. Per chi ne ha bisogno. Il tempo è scaduto. Le ostetriche non possono più aspettare. E neppure le donne, le madri, le famiglie italiane”, conclude il Nursing Up.

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giovedì 10 aprile 2025

Dal Consorzio di Cagliari, appalto alla moglie del presidente Comandini - Andrea Sparaciari

 

Nel 2024 il Cacip ha firmato con Interforum una convenzione (senza gara) da 139mila euro. Nulla di illecito, ma c'è un tema di opportunità

 

Un affidamento da 139mila euro dato senza gara dal Consorzio Industriale Provinciale di Cagliari (Cacip) alla società Interforum srl, rappresentata legalmente dalla moglie dell’attuale presidente del Consiglio regionale sardo, nonché segretario regionale del Partito democratico sardo, Piero Comandini, quando quest’ultimo era già in carica. È quanto scoperto in esclusiva da La Notizia. Un appalto assolutamente lecito, diciamolo subito, che però pone forse una questione di opportunità.

L’appalto d’Urgenza e il preventivo

Per raccontare questa storia, bisogna partire dall’ottobre del 2024, quando con la determina 271 il direttore del Cacip, Stefano Mameli, chiedeva a Interforum un preventivo per “il Servizio di supporto Cacip”. Si tratta, come si legge nel documento, di un “affidamento diretto ex articolo 50”, cioè senza gara competitiva. La società cagliaritana presenta il preventivo e propone come compenso forfettario 139mila euro + Iva, cioè mille euro sotto quella soglia che farebbe scattare una gara competitiva tra società.

La firma della convenzione

Evidentemente sia il programma elaborato da Interforum, sia la cifra richiesta, sono convincenti per il consorzio, tanto che il 22 novembre 2024 i vertici del Consorzio e Interforum sottoscrivono la “Convenzione per l’affidamento del servizio operativo di supporto al Cacip per il rafforzamento delle attività” dalla durata di 24 mesi. Il contratto conferma che l’appalto prevede un compenso complessivo pari a 139mila euro + Iva; che sarà liquidato in “12 tranches da 11.583,3 euri ciascuna”; che esiste un’urgenza, tanto che si procede con l’assegnazione senza gara competitiva. A firmare quell’affidamento il 22 novembre è la legale rappresentante della società, Annamaria D’Angelo, moglie del presidente Comandini.

Cosa farà Interforum per il Cacip

In base alla convenzione, Interforum, per conto del Cacic, dovrà offrire un “servizio di supporto alla programmazione” e “un servizio di informazione al Cacip e alle imprese insediate nel comprensorio consortile”. Dovrà inoltre ricercare bandi “di interesse” per i consorziati ed “elaborare contenuti e trasferire informazioni con cadenza periodica”. Dovrà infine calendarizzare alcune giornate destinate alle imprese e organizzare un servizio di supporto. Per realizzare tutte queste attività, “l’appaltatore si impegna a garantire (…) la costituzione di un gruppo di lavoro multidisciplinare coordinato dalla Dott.ssa Annamaria D’angelo”, si legge nel documento di convenzione.

Ora, la società della dottoressa D’Angelo è attiva da anni nell’ambito della consulenza, come testimoniano i numerosi appalti vinti con i Gal (i Gruppi di azione locale, partenariati pubblici-privati) o i comuni sardi,  tuttavia il Cisiv pone un problema di opportunità politica, visti i rapporti che legano il Consorzio industriale a Regione Sardegna.

Comandini: “Nessun rapporto Regione-Cacip”

Raggiunto da La Notizia, il presidente Comandini ha confermato l’affidamento. E, alla richiesta di un commento, ha dichiarato: “Posso affermare con certezza che la Regione, e ancora meno il presidente del Consiglio regionale, non esercita alcuna competenza o funzione sugli atti gestionali dei Consorzi industriali, compreso il CACIP, i cui organi sono nominati dagli  Enti locali che li costituiscono, così come stabilito dalla L.R. 10/2008 che  definisce i poteri ordinari e straordinari degli stessi, senza alcuna influenza regionale”.

Cosa dice lo Statuto del Consorzio

Vero. Tuttavia, sebbene Regione Sardegna non faccia parte del Consorzio per l’aria di sviluppo industriale di Cagliari, non ne è certo estranea. Secondo lo Statuto, infatti, “i proventi del Consorzio sono costituiti da contributi dello Stato, della Regione ecc…” (Art.7, punto B); ma soprattutto “Il Consorzio è sottoposto, ai sensi dello Statuto Speciale della Regione Autonoma della Sardegna (…) al coordinamento, tutela e vigilanza della Regione stessa” (art.34). Inoltre Regione Sardegna “controlla i Piani economici e finanziari del Consorzio” (Art. 34). E, infine, Regione Sardegna “previa diffida scritta ed ove il Consorzio non ottemperi, può sciogliere gli organi consortili (…)”. Insomma ci sono più aspetti per i quali quell’affidamento senza gara del Cacip può far storcere più di un naso.

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mercoledì 9 aprile 2025

Il più grande sciopero degli acquisti della storia fa piangere Trump - Jacopo Fo

Colpire il cuore del capitalismo è idiota. Il capitalismo non ha un cuore. Ha solo il portafoglio. È lì che gli fai veramente male

 

Trump è riuscito a fare incazzare almeno due miliardi di terrestri: spiagge dorate sugli scheletri di Gaza, deportazione dei Latinos in catene e dazi stanno distruggendo il marketing Usa. Sud America, Spagna, Germania, Scandinavia, Paesi Arabi, sono in prima fila in questo scontro epocale. Il crollo del made in Usa sta crescendo di giorno in giorno. I numeri sono disastrosi! E siamo solo all’inizio.

Più si vede che funziona e più persone ci prendono gusto. Ma che bello!

Da tempo una minoranza del movimento progressista propone il boicottaggio degli acquisti come l’unico strumento veramente potente, contro i malvagi della terra. Alcuni esempi vincenti ci sono stati ma sempre marginali.

Nel 1980 scrissi il libro Come fare il comunismo senza farsi male, dove sostenevo che i consumatori hanno già il potere, solo che non lo sanno! Il potere del non-acquisto è enorme. L’esperienza ci dice che basta una riduzione delle vendite del 5% per provocare un effetto valanga sulle quotazioni azionarie.

Oggi le persone iniziano a capire che i cortei non riescono a smuovere i potenti. E tantomeno lo fanno le azioni violente. Fino all’anno scorso la Tesla era un simbolo ecologico… Che senso ha danneggiare l’auto di una persona che l’aveva comprata? E comunque la violenza contro i possessori di Tesla e i concessionari è controproducente. Fai passare Musk come una vittima.

Astenersi dagli acquisti è uno strumento vincente proprio perché è una forma di lotta non violenta, pacifica e gentile: “Mi dispiace ho la sensazione che i tuoi prodotti portino sfortuna!”.

Colpire il cuore del capitalismo è idiota. Il capitalismo non ha un cuore. Ha solo il portafoglio. È lì che gli fai veramente male. E non rischi nulla: non comprare è un tuo diritto.

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martedì 8 aprile 2025

Mi disturba sentire che Gaza ha ‘risvegliato le coscienze’: dov’eravate prima? Questo non doveva succedere - Dalia Ismail

La verità è che non basta indignarsi quando il sangue scorre in diretta. Non basta condividere un post o dichiararsi “più consapevoli”


Una delle cose che più mi disturbano – e che sento ripetere sempre più spesso con inquietante leggerezza – è l’idea che ciò che sta accadendo a Gaza abbia finalmente aperto gli occhi al mondo su quello che subisce il popolo palestinese da un secolo. Come se ci fosse stato bisogno di un numero infinito di morti, in pochissimo tempo, uccisi nei modi più inimmaginabili, con ospedali e scuole carbonizzati, intere famiglie annientate, e la vita a Gaza completamente cancellata… per risvegliare una coscienza globale. Come se questo, in fondo, fosse servito per capire che qualcosa non andava.

E invece no. Questo non doveva succedere. Nessuno avrebbe mai dovuto pagare un prezzo simile perché tu – spettatore distratto, magari benintenzionato, ma silente – ti decidessi a prendere posizione.

Mi chiedo spesso dove foste prima. Quando le demolizioni di case, le incarcerazioni arbitrarie, le torture inflitte ai bambini, i blocchi, gli assedi e le umiliazioni quotidiane spezzavano la vita dei palestinesi, giorno dopo giorno. Non è vero che oggi è “più atroce” di prima: è solo più concentrato, più visibile, e più difficile da nascondere. Ma la violenza c’era già. Da un secolo.

Il problema è che per troppo tempo i media occidentali – con rare eccezioni – hanno deliberatamente nascosto tutto questo, piegandosi alla narrazione israeliana, oscurando le voci palestinesi, contribuendo a costruire una percezione distorta della realtà. Non è stata disattenzione: è stata complicità.

Ora vi mobilitate. E va bene. Ma non raccontatevi la favola della “nuova consapevolezza”. Non è consapevolezza ciò che vi muove, è disagio. È il peso del silenzio che non potete più sopportare, è il senso di colpa, è la vergogna. Non l’empatia vera. E comunque è tardi. Troppo tardi per noi.

Se io dicessi che gli attentati dell’ISIS in Europa hanno avuto il “merito” di far capire al mondo le conseguenze devastanti dell’invasione americana dell’Iraq e della distruzione della Siria, sarebbe uno scandalo. E giustamente. Perché nessuna atrocità può mai essere definita necessaria per aprire gli occhi. Nessuno è sacrificabile per risvegliare qualcun altro.

La verità è che non basta indignarsi quando il sangue scorre in diretta. Non basta condividere un post, cambiare immagine del profilo o dichiararsi “più consapevoli” quando la realtà diventa troppo cruda per essere ignorata. La solidarietà vera non è una reazione, ma una scelta. Una scelta continua, che costa, perché stare dalla parte degli ultimi della terra non è mai comodo. Non è lo è mai stato nella storia.

La solidarietà vera è responsabilità. Di imparare a riconoscere i meccanismi che rendono certe vite sacrificabili, certe notizie censurate, certe violenze normalizzate. È da lì che si parte. Non per salvarsi la coscienza, ma per smettere – finalmente – di essere attivamente complici.

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domenica 6 aprile 2025

Il caso dello studente morto nel campus di Fisciano riaccende il dibattito sui suicidi nelle università - Francesca Chiti

 

Mentre in Italia aumenta il numero dei suicidi nelle università, tarda ad arrivare un cambiamento strutturale. Il sistema formativo, sempre più competitivo e aziendalizzato, non lascia spazio all’identità e alla vulnerabilità degli studenti.

E così di università si muore.

 

Il caso di Fisciano: l’ultimo di una lunga serie di suicidi nelle università

Lo scorso 17 febbraio, uno studente napoletano si è tolto la vita, precipitando dal quarto piano del parcheggio del campus di Fisciano (Università di Salerno). Si chiamava Nunzio. Sul Corriere del Mezzogiorno si legge che era stato dichiarato “decaduto” dalla carriera universitaria.

Solo a Salerno è il quinto caso in pochi anni. L’ennesimo caso destinato all’anonimato, al quale vengono condannate tutte le storie ritenute non meritevoli di attenzione pubblica da parte della stampa mainstream.

Ogni volta ci si dice “stupiti”, “sconcertati”, “increduli” (il campo semantico è sempre quello), si cade dalle nuvole e si invoca un cambiamento. Nei casi migliori, segue l’inaugurazione di uno sportello per il supporto psicologico. Ma un ripensamento strutturale della carriera universitaria stenta ad arrivare e ad interessare i decisori pubblici: nella sua attuale configurazione, l’esperienza universitaria è anticamera di un mondo iper-competitivo in cui bisogna produrre per poter sperare di contare qualcosa nella società. Ogni ostacolo sul percorso è un errore imperdonabile. Ogni digressione, una perdita di tempo.

L’obiettivo è quello di assorbire acriticamente saperi e conoscenze funzionali a un preciso modello di società, e, soprattutto, farlo nei tempi prestabiliti. Chi ci riesce ottiene più chances di sbarcare il lunario, chi perde corre il rischio di essere lasciato indietro.

 

Il lutto come ostacolo alla riflessione politica: suicidi nelle università e silenzio istituzionale

Ricercando su Google “studente suicida Salerno”, nell’intento di approfondire la notizia di poche settimane fa, i risultati hanno restituito un numero impressionante di storie di suicidi in università. Procedendo a ritroso fino al 2017, sono stati registrati decine e decine di casi in tutta Italia, tutti sovrapponibili al caso di Fisciano. Decine e decine di studenti e sempre lo stesso rituale “in memoriam”: i peana di cordoglio di rettrici e rettori, i palloncini liberati in aria di fronte alle sedi universitarie, il minuto di raccoglimento. 

Il lutto finisce sempre per inibire la riflessione politica, che potrebbe risultare strumentale, fuori luogo: un atto di cattivo gusto in momenti tanto tristi e delicati. Funziona così anche per le morti sul lavoro e i femminicidi. Non a caso, quando Elena Cecchettin provò a catalizzare l’attenzione per intavolare un discorso di consapevolezza collettiva, la accusarono di non soffrire abbastanza. Inchiodare le istituzioni alle loro responsabilità, insomma, sembra essere ancora una questione di stile e corretto tempismo. Questo perché culturalmente consideriamo il silenzio come la più alta forma di cordoglio. La morte riduce a questione privata qualsiasi problema (anche quello dei suicidi in università, clamorosamente collettivo), e tanto basta.

 

Il ruolo della società e dei media

Proprio come accade per i femminicidi, anche in questi casi esistono modi giusti e sbagliati di raccontare i fatti. La maggior parte delle testate ha scelto di parlare di Nunzio, nei titoli, come di uno “studente di 27 anni”. Il fatto che l’età venga riportata come prima informazione nella notizia del suicidio di uno studente universitario è già di per sé parte del problema.

Come se nel dato anagrafico si dovessero rintracciare, dunque validare, le ragioni del gesto, che pure restano insondabili, inafferrabili. Nonostante si tenda a considerare assurda l’idea che l’età basti a pacificarci con la coscienza, il pensiero si insinua subdolamente nel caso dei suicidi nelle università. Così, tutto il resto viene tralasciato: la società, il contesto socioeconomico, i modelli di consumo.

Si finisce per ignorare il fatto che, per esempio, i trent’anni sono diventati i nuovi venti, per forza di cose. Questo perché nessuno è economicamente indipendente o riesce agilmente a pagarsi l’affitto prima di quell’età. Almeno, nessuno che non abbia potuto investire il denaro di famiglia in un percorso di formazione privata. Per il resto, la quasi totalità dei pochi che oggi riescono ad auto-percepirsi indipendenti prima dei trent’anni, deve questo status ai propri genitori e nonni.

 

Suicidi nelle università: la fine della corsa

Insomma, nonostante i percorsi si siano ridefiniti, leggere “studente di 27 anni” fa comunque storcere il naso. Quel numero accanto alla parola “studente”, quell’età adulta in cui è ridicolo stare ancora parcheggiati all’università, testimoniano un disagio che conosciamo bene.

È lo stesso dal quale un po’ tutti – anche chi non ha mai avuto problemi particolari lungo il proprio percorso accademico – imparano presto a scappare. Pena: restare indietro (l’incubo! La minaccia!). Qualcuno ci è riuscito, con lode e senza particolari intoppi. Forse ha potuto studiare in un contesto sereno o non ha dovuto trovare un equilibrio tra studio e lavoro; non ha dovuto trascorrere ore sui mezzi pubblici o è stato tanto fortunato da azzeccare il percorso al primo tentativo. Magari, per qualche ragione, aveva uno schema di apprendimento conforme a quello su cui si basano gli attuali parametri di valutazione, oppure ha abbracciato, più o meno consapevolmente, la retorica del sacrificio.

In questi anni si è letto di tutto sui giornali: giovani laureati e ventenni prodigio che si vantavano di rinunciare a intere ore di sonno pur di sfruttare al massimo ogni appello. L’ultima notizia è del 24 febbraio, ci parla di una ventenne “laureata record” alla Normale di Pisa, ma l’elenco è lungo. Immancabile, arriva ogni volta il plauso sottinteso delle testate, colpevoli invece di dare spazio e lustro a questo approccio discutibile. Ecco perché, probabilmente, si tende a fuggire dalle notizie che raccontano una realtà diversa: esse sono il riflesso di ciò che sarebbe potuto accadere a chiunque.

 

Lo spettro del “fallimento” e i suicidi nelle università

Senza voler risultare drammatici, morire di università è una possibilità concreta, perché l’università è diventata il simbolo di un’esistenza dominata da individualismo e competizione. Il fatto è che non lo si dice abbastanza. Chi è studente universitario oggi è spesso il primo della propria famiglia ad aver avuto accesso a questo grado di istruzione: ecco perché un dialogo intergenerazionale e intrafamiliare su cosa sia e come funzioni l’università è quasi impensabile. A questo si aggiunge il fatto che tra i Baby Boomers e la Gen X regna ancora incontrastata la narrazione spietata del “se vuoi, puoi”. Peccato che non si è più negli anni Ottanta.

Secondo i dati più recenti dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), ogni anno si registrano circa 4.000 suicidi nel Paese, il cui 5% riguarda giovani sotto i 24 anni. Questo significa che annualmente, circa 200 giovani in questa fascia d’età decidono di togliersi la vita, molti dei quali sono studenti universitari. Nel 2023, due casi eclatanti avevano acceso i riflettori sull’emergenza dei suicidi in università. “Fallimento, università e politica”, aveva scritto nel suo messaggio d’addio uno studente di Economia dell’università di Palermo. Si era tolto la vita a una settimana dalla sessione d’esame, il 15 gennaio 2023. In pochi ne avevano parlato. Era stato il ritrovamento del cadavere di un’altra studentessa, la mattina del primo febbraio 2023, a riaprire il dibattito sul disagio degli studenti. Si era uccisa nei bagni dell’università Iulm di Milano e in una lettera aveva descritto la propria vita come “un fallimento”.

 

Un sistema classista e abilista

Tornando a Fisciano, il Rettore dell’Università di Salerno ha parlato di “fragilità nascoste”. Sembrerebbe un discorso avanguardistico, se non fosse che ammettere l’esistenza delle fragilità è utile ma non sufficiente. Parlare della reazione soggettiva, infatti, non mette in discussione il sistema. E nemmeno sottolineare che l’ennesimo studente morto suicida forse non stava bene a prescindere dall’università. Insinuare il dubbio (pur legittimo) e parlare di indagini non serve a denunciare il sistema universitario, diventato oggi una mistione di classismo e abilismo.

La commozione è solo la faccia borghese dell’urgenza che si ha di tenere certe storie lontane. Ripetere fino allo stremo che “ci sono sempre tante ragioni per cui uno decide di farla finita” non basta. Posto sia vero, non ci si può esimere dal domandarsi come mai un contesto come quello universitario non consenta di esprimere un disagio o di chiedere aiuto. Sentirsi isolati fra la gente è una condanna, e, infatti, c’è solo un altro luogo in cui le persone continuano a togliersi la vita con una certa frequenza: il carcere.

Gli sportelli per il supporto psicologico in università, ove presenti, sono del tutto inefficienti, con liste d’attesa lunghissime. E certamente la celebrazione degli enfant prodiges e dei laureati record non aiuta. Serve solo a illudersi del fatto che chi possiede la metà delle risorse materiali possa farcela impegnandosi il doppio. I regolamenti delle tasse rispecchiano questa logica: premialità e sanzioni, esoneri per gli indigenti ma penalità se quegli stessi indigenti finiscono fuoricorso. Non c’è spazio per chi non abbia voglia di sgomitare. La scarsità genera competizione e asciuga l’identità.

 

Università e merito: il sistema che premia solo chi può permetterselo

Così, un voto può facilmente travalicare i confini di un esame di profitto e una bocciatura suonare come la profezia su un futuro infausto. Ma quanto è difficile che la spada di Damocle penda sul capo di chi ha potuto investire nella propria formazione, fra master e università private? Ecco il vero quid pluris da quando la laurea è diventata un prodotto di consumo di massa. Intere sacche di proletariato si sono svuotate nell’università pubblica, rendendola di fatto un ascensore sociale troppo pesante perché possa ancora funzionare.

Ci sarebbe da osservare i simboli, perché basti fare un primo distinguo. Nei campus privati, le corone d’alloro (ormai inflazionate, volgari) stanno piano piano cedendo il passo a toghe nere e cappelli all’americana. Per lo stesso principio, le rette da decine di migliaia di euro vengono restituite agli studenti sotto forma di tutoraggi personalizzati e successivo placement. Il mercato del lavoro, già saturo, diventa così impenetrabile diversamente.

L’aumento dei suicidi in università e il malessere degli studenti sono un segnale d’allarme evidente. Occorrerebbero interventi strutturali per salvare gli ambienti formativi da questo profondo e inesorabile processo di aziendalizzazione. Cominciare a parlare di gratuità (e quindi spazzare via concetti come “fuoricorso”), comunque, sarebbe già un buon inizio per la costruzione di possibilità alternative.

Quanto ancora può essere sostenibile un sistema che trasforma gli studenti in prodotti da svendere sul mercato?

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sabato 5 aprile 2025

La grande fuga. I successi di Meloni: gli italiani si rimpatriano in altri Stati – Alessandro Robecchi

Le politiche dei rimpatri di Giorgia Meloni sono un vero successo, infatti nel 2024 156mila italiani si sono rimpatriati da soli in altri Stati, facendo le valigie e salutando la carbonara e le ospitate di Italo Bocchino in tv (si suppone con qualche rammarico, almeno per la carbonara). Considerando che sempre nel 2024 sono nati in Italia 370mila bambini, si può dire che per ogni due nuovi italiani, un “vecchio” italiano ha levato le tende. Ciao e grazie di tutto. “Vecchio italiano” si fa per dire, perché di quei 156mila che sono espatriati, 131mila hanno meno di quarant’anni e la metà (il 48,5 per cento, per la precisione) sono laureati.

Volendo correre subito alle conclusioni, si potrebbe dire che la retorica nazionalista della signora Meloni, i suoi monologhetti in video diffusi a reti unificate sulla ritrovata grandezza della “Nazzione”, il suo volitivo spronare alla fierezza e al rinascente orgoglio dell’italianità, l’attaccamento sacro alla patria, e tutte quelle fregnacce da cronachette del Ventennio, hanno prodotto risultati concreti: quelli che se ne vanno sono aumentati del 20,5 per cento in un solo anno. Brava Giorgia.

Il fatto è – come al solito – che le belle parole colorite e mascellute non servono a niente, perché la gente non vive mettendo in tavola la bella retorica ardita e la Weltanschauung tricolore di Giorgia & Arianna, ma di solito preferisce buon cibo, sicurezza sociale e una risonanza magnetica quando serve, non tra ventotto mesi. Le statistiche parlano chiaro: ci dicono che a tre anni dalla laurea, solo sette italiani su dieci trovano un lavoro, e la media europea è all’otto e mezzo. Ma le statistiche sono anche freddine: non ci dicono se quei sette lavori hanno veramente a che fare con la laurea conseguita, in un Paese in cui basta lavorare una settimana ogni tanto per essere considerati “occupati”. E infatti quando Giorgia parla di boom dell’occupazione, sotto bisognerebbe scrivere, con nota segnalata da asterisco: grazie al cazzo.

Anche la perdita vertiginosa del potere d’acquisto (meno 8,7 per cento in quindici anni) non è tutta responsabilità del governo Meloni, ci mancherebbe, ma è un dato di fatto che in due anni abbondanti non è stato fatto nulla per invertire la tendenza. Pure la retorica pre-elettorale si è sciolta senza lasciare traccia: chi ricorda i “mille euro con un clic” e “toglieremo le accise sui carburanti” può serenamente farsi una risata, anche se molti se la faranno dalla Germania, o dalla Spagna o dalla Svizzera.

E’ probabile che gli italiani che scappano dall’Italia non troveranno altrove l’Eldorado, certo, tutta l’Europa ha i suoi problemi (primo tra tutti quello di educarli alla guerra prossima ventura), ma almeno si risparmieranno l’eterno giorno della marmotta di cose sentite e risentite. Per avere un lavoro non dovranno passare dalle forche caudine dello “stage non retribuito”, non si sentiranno dire che devono lavorare “per avere visibilità e migliorare il curriculum” e non si dovranno sorbire le periodiche lacrimose intemerate dei ristoratori che non trovano cuochi e camerieri che – avidi – vogliono essere pagati.Insomma, la retorica del Make Italia Great Again che i patrioti spargono a piene mani, abbellita dal paradosso (ah, finalmente non governano più i “comunisti”) diventa, da patetica che era, fortemente autosatirica, una presa in giro autoinflitta. Brutta immagine, quella del comiziante che arringa le folle e poi è costretto a dire, nel bel mezzo del discorso: “Aò! Ma dove andate tutti?”.

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venerdì 4 aprile 2025

Sulle Ande un mondo intero rischia di scomparire con i ghiacciai - Amanda Chaparro

 

Nel villaggio di Phinaya, nella regione peruviana meridionale di Cusco, l’orizzonte è dominato dal Quelccaya, enorme e maestoso: arriva a 5.500 metri di altitudine. Il paesaggio, però, non è composto da cime montuose, ma da vasti altopiani di ghiaccio e crepacci che formano una delle calotte di ghiaccio più estese del mondo, con una superficie di 42 chilometri quadrati.

Gli scienziati osservano con particolare attenzione il gigante bianco, noto anche come Quyllur puñuna (là dove riposano le stelle, in lingua quechua). Sui suoi pendii l’acqua scorre creando zone umide chiamate bofedales, dove pascolano diverse specie di camelidi andini. Lo scioglimento del ghiaccio crea vari corsi d’acqua: alcuni affluiscono nel fiume Vilcanota, le cui rapide precipitano fino a Machu Picchu e alimentano la centrale idroelettrica di Santa Teresa, che fornisce energia a una parte degli 1,2 milioni di abitanti del dipartimento di Cusco.

Ai piedi del ghiacciaio la famiglia di Yolanda Quispe, un’allevatrice di alpaca di 44 anni, è preoccupata perché il Quelccaya sta morendo lentamente. Secondo alcune stime, negli ultimi quarant’anni avrebbe perso il 46 per cento della sua massa e uno studio della Nasa ha rivelato che il ghiacciaio potrebbe scomparire del tutto prima della fine del secolo.

Per anni Quispe ha lavorato come guardia del parco naturale dell’Ausangate, dove si trova il Quelccaya. Ogni giorno ha visto la natura cambiare davanti ai suoi occhi. “Le bofedales si prosciugano e ci sono sempre meno puquiales, pozzi naturali. Questo ci preoccupa molto, perché noi consumiamo quest’acqua, e anche gli animali”, spiega. La donna racconta con tristezza che, insieme al ghiacciaio, si sta perdendo anche una parte della cultura e dell’identità degli abitanti della zona.

Le montagne di ghiaccio hanno un ruolo fondamentale per le comunità quechua, che le considerano entità sacre, oggetto di miti e leggende. “Il Quelccaya per noi è vitale. Facciamo offerte, lo ringraziamo e ce ne prendiamo cura. Lo proteggiamo e in cambio il ghiacciaio protegge noi”, spiega Quispe.

Questa comunità, che sopravvive in condizioni climatiche estreme, deve affrontare periodi di siccità sempre più frequenti a causa dell’arretramento del ghiaccio e del calo delle precipitazioni. Nel 2022 la famiglia di Quispe ha perso decine di alpaca, su cui si fonda l’economia locale. Quispe, per esempio, vende la lana di questi animali e consuma la loro carne.

Il cambiamento climatico ha colpito centinaia di famiglie quechua che vivono nella zona e dipendono quasi interamente dalle risorse naturali, ma anche varie specie di animali selvatici, sia uccelli sia mammiferi.

Questi cambiamenti, conseguenza della crisi climatica e della deforestazione (che altera il ciclo delle precipitazioni), ricordano che l’Amazzonia non è lontana, meno di cento chilometri in linea d’aria: “Quando ci sono incendi nella foresta gli effetti si sentono anche qui. Sul ghiaccio si depositano macchie scure”, dice Quispe.

Thomas Condom, dell’Istituto di ricerca per lo sviluppo di Grenoble, in Francia, ha studiato queste particelle. Sono una causa ulteriore dell’arretramento dei ghiacciai. “Le polveri scure accelerano lo scioglimento del ghiaccio assorbendo i raggi del sole. Possono provenire da incendi boschivi ma anche dalle attività di estrazione mineraria, diffuse nella regione di Cusco, o ancora dall’attività vulcanica naturale, come in altre regioni del Perù”, spiega il ricercatore.

Il rischio di un disastro naturale provocato dallo scioglimento dei ghiacciai e dallo straripamento dei laghi glaciali è preso molto sul serio nelle 18 catene montuose del paese. Nel 1970 la piccola città di Yungay, ai piedi della cordigliera Blanca, fu spazzata via in pochi minuti a causa di una scossa sismica che provocò il distacco di un enorme blocco di ghiaccio e l’esondazione di un lago glaciale, riversando sulle case una valanga di ghiaccio, roccia e acqua, e uccidendo più di settantamila persone. È stata la peggiore catastrofe naturale nella storia del paese.

Nel 1941 una valanga seguita da una colata di fango distrusse parte della città di Huaraz. Con il peggioramento della crisi climatica episodi di questo tipo potrebbero diventare sempre più frequenti, perché il Perù si trova su numerose faglie sismiche. “A causa dell’aumento della temperatura i massicci sono più fragili e le pareti rocciose meno stabili”, dice Condom. Per questo le autorità peruviane sorvegliano in maniera costante i massicci. “Il Perù è un precursore nella gestione di questo tipo di rischi. Esistono sistemi di allerta avanzati, piani di prevenzione e percorsi di evacuazione. Sono state eseguite grandi opere, come i tunnel di cemento in grado di assorbire un’enorme quantità d’acqua in caso di esondazione dei laghi”, conclude il ricercatore.

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giovedì 3 aprile 2025

“Ho la sclerosi multipla, ma posso fare gli esami solo a pagamento”: la denuncia della giornalista Francesca Mannocchi

Ha la sclerosi multipla, ma è costretta a fare gli esami privatamente nel Lazio. Un’attesa di giorni per mettersi in contatto con il centralino regionale. E alla fine quando, il Recup ha risposto, l’appuntamento è stato possibile fissarlo solo in un’altra provincia, a mesi di distanza. È quanto accaduto alla giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi che lo denuncia in un post sui social. “Ogni sei mesi devo fare la mia terapia di Ocrelizumab per la Sclerosi Multipla. E ogni sei mesi devo ripetere una lunga serie di analisi e la risonanza magnetica”, ha raccontato su Instagram.

“Chiamo il Cup della mia regione per avere un appuntamento, la cui spesa dovrebbe essere coperta dallo Stato. Per giorni il messaggio pre-registrato mi dice che le linee sono intasate e dunque suggerisce di richiamare in un altro momento. Oggi, finalmente, rispondono. La prima risonanza magnetica disponibile è a luglio 2025 a Frosinone, in un’altra provincia, a 90 chilometri da casa mia. Per le due strutture dove di solito faccio le risonanze non c’è proprio disponibilità e non si sa per quanto”, continua nel post la giornalista.

La risposta cambia chiamando invece la clinica dove fece “la prima risonanza”, chiedendo costi e disponibilità per fare gli esami privatamente: “Costa 680 euro e c’è posto dopodomani, mi hanno risposto con la cortesia che si riserva a chi paga. E quindi ho preso appuntamento. Perché ne ho bisogno, perché è urgente, perché ho la fortuna di potermelo permettere”, ha scritto ancora Mannocchi, ribadendo che è “così che si demoliscono le democrazie”, mettendo nero su bianco l’ Art. 32 della Costituzione Italiana: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

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mercoledì 2 aprile 2025

Gli alunni con disturbi dell’apprendimento sono il 6%: nel Nord Ovest certificazioni dsa sopra la media. Esperti divisi sui criteri per le diagnosi – Alex Corlazzoli

I dati forniti dal ministero testimoniano aumenti lievi negli ultimi anni, ma molte differenze tra Nord e Sud. E gli specialisti discutono sui test e su chi certifica

In Italia gli alunni con un disturbo specifico dell’apprendimento (dsa) sono il 6% sul totale dei frequentanti. È l’ultimo dato pubblicato dal ministero dell’Istruzione e del Merito prendendo in considerazione l’anno scolastico 2022/2023. Un incremento dal 2014/2015 inferiore a mezzo punto percentuale. Numeri credibili secondo l’Associazione italiana dislessia (Aid) che, tuttavia, parla di un “sommerso” che non emerge a causa del ritardo delle diagnosi e delle famiglie che non vogliono riconoscere il problema segnalato dalla scuola. L’aumento dei casi resta comunque correlato a una maggiore sensibilizzazione e formazione del personale scolastico e sanitario, che permette una migliore capacità di identificare e supportare gli studenti Dsa. Un quadro, quello italiano, che però non mette d’accordo tutti gli specialisti. Se da un lato c’è chi crede ai numeri del ministero e chiede mezzi per permettere diagnosi più tempestive, dall’altro esiste una corrente di pensiero che parla di dati esagerati e denuncia una sorta di business messo in piedi dai centri privati.

I dati del ministero – Partiamo dal report edito da viale Trastevere. Il primo dato significativo riguarda il periodo scolastico in cui emergono i dsa: se alla scuola primaria le unità arrivano a 49.418, per la secondaria di primo grado si salta a 112.210 e a 192.941 per le superiori. Considerando i singoli gradi di istruzione si osserva che gli alunni con dislessia sono pari all’1,3% del numero complessivo degli allievi nella primaria; al 3,8% nelle medie e al 4% nella secondaria di secondo grado. Quelli con disgrafia sono pari allo 0,7% del totale dei frequentanti le elementari; al 2,2% nella secondaria di primo grado e al 2,1% nella secondaria di secondo grado. Per quanto riguarda la disortografia sono lo 0,8% del totale degli alunni nella scuola primaria; il 2,7% tra gli undici e i tredici anni e il 2,4% i più grandi. Infine, gli alunni con discalculia sono risultati pari allo 0,5% del totale dei frequentanti nella scuola primaria, al 2,2% nella secondaria di primo grado e al 2,7% nella secondaria di secondo grado. Perché questo divario? A spiegarlo è Lucia Iacopini, pedagogista, docente, membro del Consiglio direttivo e del comitato scientifico di Aid: “Dal punto di vista clinico si tratta di forme più lievi che emergono quando il carico di lavoro aumenta e la richiesta di prestazione esige più velocità”.

Ma c’è anche la questione delle diagnosi tardive: “Un intervento tempestivo, auspicato più volte negli anni dal legislatore, oltre ad abbassare le componenti emotive, rende di certo più efficaci gli interventi migliorativi, sia nei potenziamenti a scuola che in adeguate terapie extrascolastiche”. Con l’emanazione della Legge 170/2010, c’è più sensibilità da parte delle scuole e delle famiglie, ma è lasciata a queste ultime la libertà di effettuare o meno una diagnosi: “Qualche volta – racconta Iacopini – le famiglie fanno resistenza o non comprendono bene l’entità del problema. Quando individua un dsa la scuola ha la responsabilità di effettuare un potenziamento mirato, ma laddove le difficoltà permangono deve comunicare ai genitori il probabile disturbo. Sono loro, poi, a dover scegliere se provvedere a una certificazione o meno”.

Le differenze territoriali – E su questo punto si torna ai dati e alle notevoli differenze territoriali. Nel biennio preso in esame le regioni del Nord Ovest registrano il maggior numero percentuale di certificazioni (7,9%) seguite da quelle del centro e del Nord Est (6,1% e 6,7%.). Decisamente distante il Sud, dove la percentuale di studenti con diagnosi è ferma al 2,8%. Si tratta di una macroscopica evidenza che dovrebbe indurre ad una riflessione circa la capacità del sistema sanitario nazionale a supportare in maniera geograficamente omogenea le esigenze relative alle fasce deboli e la reale attuazione delle Leggi Regionali in questo ambito. “Là dove le direttive regionali – spiega l’Aid – consentono una adeguata rete di servizi (pubblici, convenzionati e/o accreditati) e campagne di screening funzionali e continuative, viene garantita una presa in carico soddisfacente, e le percentuali di soggetti individuati sono in linea con quanto previsto dalla letteratura scientifica”. D’altro canto per effettuare una diagnosi servono mesi e più specialisti. Una filiera che lo Stato non riesce a garantire in tempi brevi. Da qui il proliferare di centri privati che, secondo testimonianze raccolte da ilfattoquotidiano.it, chiedono dai 700 ai mille euro per una certificazione.

Chi certifica cosa – E qui arriviamo al nodo degli screening. Spesso le scuole, autorizzate dalle famiglie, effettuano per gli alunni frequentanti la scuola dell’infanzia e i primi due anni della primaria test specifici per individuare probabili disturbi di apprendimento che tuttavia non possono essere considerati ancora come diagnosi. Secondo i dati del ministero gli alunni “a rischio dsa” frequentanti la scuola dell’infanzia, sono risultati pari a 1.725 nell’anno scolastico 2021/2022 e a 2.080 nel 2022/2023. Per quel che concerne la scuola primaria si sono attestati a 4.205 unità nel 2021/2022, e a 4.388 nel 2022/2023. “Studi clinici – spiega Iacopini – ci dicono che oggi ci sono segni che ci possono far pensare a una fragilità già all’ultimo anno della scuola dell’infanzia. Tutto ciò serve a noi per attenzionare e lavorare su potenziamenti mirati”.

L’aumento delle diagnosi – Carlo Di Pietrantoni, dirigente analista di epidemiologia, ha analizzato i dati negli anni: “Dal 2014/2015 al 2022/2023, il numero di studenti con certificazione dsa mostra una crescita contenuta. In particolare, negli ultimi sette anni scolastici si sono osservati per ogni anno incrementi inferiori a un mezzo punto percentuale. Nell’anno scolastico 2020/2021 – ha aggiunto – l’incremento rispetto all’anno scolastico precedente è stato particolarmente contenuto (+0,1%), probabile effetto della pandemia e dell’impossibilità di ottenere certificazioni durante quel periodo, che però ha determinato un lieve incremento nei due anni successivi. Per ciclo scolastico, la certificazione si stabilizza attorno al 3% nella primaria, tende al 6,5% nella secondaria di primo grado e al 7,0% nella secondaria di secondo grado. Il sistema – ha concluso – sembra avviarsi a una stabilizzazione, ma persiste un divario tra Nord e Sud, suggerendo una sotto diagnosi nelle regioni meridionali”.

C’è chi dice no – I dati del ministero, come detto, non hanno convinto tutti gli specialisti. Il pedagogista Daniele Novara, ad esempio, è critico su tutta la linea, a iniziare dalle diagnosi fatte alla fine della scuola dell’infanzia: “Il governo dovrebbe intervenire di fronte a queste procedure selvagge – ha detto – Considerare la naturale immaturità un problema, attraverso questi screening, è assurdo”. Stesso discorso per quando riguarda l’aumento delle diagnosi, questione che anche di recente ha dato vita a esternazioni e polemiche da parte anche di Umberto Galimberti. “È lo stesso ufficio scolastico della Regione Emilia Romagna ad aver evidenziato un eccessivo aumento – ha sottolineato Novara – La scuola anziché guardare i progressi neo-valutativi continua a usare metodologie arcaiche che non considerano i normali ritardi nello sviluppo della letto scrittura. Non voglio dire che i disturbi non esistono – ha aggiunto – ma non in queste percentuali che contraddicono le previsioni internazionali”.

E quali sarebbero queste previsioni? È lo stesso Novara a elencarle: “I dati epidemiologici degli studi internazionali si attestano al 2-3%, secondo le stime della Consesus Conference del 2010, a cui partecipano esperti dei ministeri di diverse parti del mondo. Nel nostro Paese sono il doppio. È assurdo – ha attaccato il pedagogista – Non siamo negazionisti. Proliferano sempre più centri privati che effettuano test senza alcuna base scientifica e senza alcun intervento normativo”. D’altro canto sono diverse le varianti che fanno pensare alle ragioni di un incremento notevole in Italia rispetto ad altri Paesi. Secondo diverse fonti di letteratura internazionale e inchieste sul tema, l’aumento dei casi in Italia è correlato a una maggiore sensibilizzazione e formazione del personale scolastico e sanitario. C’è una migliore capacità di identificare e supportare gli studenti Dsa, insomma, ma a detta di altri esperti si tratta di criteri diagnostici e metodi di raccolta dati diversi. Novara non ha usato mezze misure e parlato di “business”.

L’eccellenza italiana – A dare una lettura completamente diversa dei dati è Marco Pontis, docente di pedagogia e didattica speciale delle disabilità intellettuali e dei disturbi generalizzati dello sviluppo che da vent’anni lavora con le persone con disturbi, con le famiglie e le scuole: “Dalla Legge del 2010 c’è più attenzione da parte della scuola, è quindi chiaro che i numeri siano aumentati. Stimo Galimberti ma rispetto alle sue dichiarazioni sulla ‘scuola come clinica psichiatrica‘ va detto che ai suoi tempi nessun insegnante conosceva i disturbi specifici di apprendimento, ad esempio, e spesso nemmeno venivano diagnosticati i disturbi dello spettro autistico. Un alunno con dsa, ad oggi, non ha diritto a un insegnante specializzato per il sostegno – ha continuato – e il termine da lui utilizzato, ovvero ‘handicappato dal punto di vista psichiatrico’, oltre ad essere anacronistico è offensivo e irrispettoso della dignità della persona”. E ancora: “Non solo, il ‘percorso facilitato’ non esiste – ha spiegato – C’è un piano educativo individualizzato (Pei) per gli alunni con disabilità certificata in base alla Legge 104/92 e può essere ordinario, personalizzato oppure differenziato oppure un piano didattico personalizzato (Pdp), obbligatorio per gli alunni con dsa e facoltativo per altri BES (bisogno educativo speciale) non legati a una certificazione clinica”. È proprio su quest’ultimo punto che si sofferma Pontis: “Il Pdp si può fare anche per un alunno con semplici difficoltà in matematica o comprensione del testo o lettura che non soddisfa i criteri di una diagnosi per dsa. Una programmazione personalizzata aiuta – ha concluso – Dobbiamo andare oltre la diagnosi che è solo un tassello”.

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martedì 1 aprile 2025

Morire soli: la società ci vede solo finché produciamo - Gianluca Cicinelli

 

Gene Hackman e Betsy Arakawa a Santa Fe, i coniugi Steffenoni a Montericco. Due storie lontane, geograficamente e per contesto, ma accomunate da un epilogo simile: la morte avvenuta nel silenzio, nell’isolamento, senza che nessuno si accorgesse della loro assenza per giorni, settimane, mesi.

Due casi che si inseriscono in una tendenza sempre più diffusa nelle società moderne, dove la solitudine non è solo una condizione emotiva ma una realtà materiale, capace di far scomparire del tutto una persona agli occhi del mondo.

Gene Hackman, attore premio Oscar, e sua moglie Betsy Arakawa sono stati trovati morti nella loro casa di Santa Fe, in New Mexico, il 26 febbraio scorso. Secondo le ricostruzioni, Arakawa sarebbe deceduta giorni prima del marito, probabilmente a causa di una rara malattia polmonare, mentre Hackman, 95 anni e affetto da Alzheimer, sarebbe rimasto solo, incapace di chiedere aiuto.

Nessuno si era accorto della loro scomparsa, fino a quando un addetto alla manutenzione ha deciso di entrare nell’abitazione. Ma almeno Hackman, dopo la tragica fine, ha avuto qualcuno che lo ha pianto, un ricordo che resterà nelle pagine della storia del cinema. I coniugi Steffenoni no. Nessuno si è accorto della loro scomparsa fino al giorno in cui tre ragazzi si sono avventurati nella loro villa, credendola abbandonata.

Dall’altra parte dell’oceano, sulle colline tra Verona e Negrar, la scoperta dei corpi mummificati di Marco Steffenoni, odontoiatra in pensione, e della moglie Maria Teresa Nizzola, è avvenuta in modo del tutto casuale. Un gruppo di giovani praticanti dell’“urbex”, l’esplorazione urbana, ha trovato i due cadaveri in una villa che sembrava abbandonata.

Dai primi rilievi, la morte risalirebbe a diversi mesi prima, probabilmente tra ottobre e novembre. Anche in questo caso, nessuno si era accorto della loro assenza, nessuna chiamata, nessun allarme, fino al momento della scoperta accidentale.

Se fossero stati ancora al lavoro, in uno studio medico, tra pazienti e appuntamenti, qualcuno si sarebbe accorto che non c’erano più. Ma una volta usciti dal ciclo della produzione, una volta cessata la loro utilità economica, la loro assenza è stata un’assenza invisibile. Nessuno ha notato il silenzio, perché non c’era più nessun luogo a cui mancassero.

 

Queste storie sono frammenti di una realtà più ampia. Il fenomeno delle morti solitarie, un tempo associato esclusivamente agli anziani indigenti o ai senza fissa dimora, oggi attraversa ogni classe sociale. In Giappone, dove il fenomeno ha un nome specifico, “kodokushi”, si registrano ogni anno migliaia di casi di persone che muoiono senza che nessuno se ne accorga per settimane o mesi.

In Italia, anche se non ci sono statistiche altrettanto precise, gli esperti confermano che le morti solitarie sono in crescita. Secondo l’ISTAT, il numero di persone che vivono sole ha superato i 9 milioni, e in molte città italiane i servizi sociali segnalano un aumento delle segnalazioni di decessi scoperti con grande ritardo.

Siamo visibili finché lavoriamo, finché produciamo. Ma se scompariamo da quei luoghi in cui siamo richiesti, da quegli spazi dove siamo necessari, la nostra esistenza smette di lasciare tracce.

C’è poi un altro paradosso: né Hackman né i coniugi Steffenoni erano poveri. Entrambe le coppie godevano di una condizione economica più che dignitosa. Ma il denaro può bastare per una vita confortevole, non per una vita sociale. Non è la sicurezza economica a impedire la solitudine.

Si può vivere circondati dal verde, in una villa, con ogni comfort possibile, e restare comunque invisibili al mondo. Non è una questione di ceto sociale, ma di relazioni, di legami, di comunità che si dissolvono.

Forse la domanda che questi casi ci pongono è semplice: chi si accorgerebbe della nostra assenza? E quanto tempo passerebbe prima che qualcuno lo noti? E soprattutto, cosa dice di noi una società in cui si può morire nel silenzio, senza che nessuno se ne accorga?

Non è una questione di cronaca nera, ma di come è organizzata la nostra vita collettiva. Di come la frammentazione delle relazioni, l’individualismo e l’assenza di spazi di comunità possano portare a questo tipo di epiloghi. Viviamo in un mondo in cui il controllo digitale è pervasivo, in cui ogni nostro acquisto e ogni nostro spostamento lasciano una traccia, ma la nostra vita, nel senso più umano del termine, può sparire nel nulla senza che nessun sistema di sorveglianza se ne accorga.

La tecnologia ci rende rintracciabili, ma non presenti. Ci osserva, ma non ci vede davvero.

E allora forse la vera domanda è: viviamo o serviamo? Finché serviamo a qualcuno o a qualcosa, la nostra presenza è riconosciuta, ma quando smettiamo di essere utili, restiamo solo nella nostra interiorità, nella nostra essenza non visibile. E se nessuno ci guarda davvero, esistiamo ancora?

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lunedì 31 marzo 2025

Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica chiede un lungo elenco di integrazioni sul progetto di centrale eolica flottante Mistral - Stefano Deliperi

 

Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica – Commissione tecnica VIA/VAS ha chiesto (nota prot. n. 1278 del 31 gennaio 2025) alla Società Parco Eolico flottante Mistral s.r.l. (Gruppo Acciona) un lungo elenco di approfondite integrazioni al progetto e allo studio di impatto ambientale nell’ambito del procedimento di valutazione di impatto ambientale (V.I.A.) relativo al progetto di centrale eolica “Parco eolico flottante Mistral, proposto dalla Parco Eolico flottante Mistral s.r.l. (Gruppo Acciona) nel Mar di Sardegna.

Le richieste d’integrazione riguardano praticamente l’intero progetto e l’intera documentazione depositata a supporto della richiesta di pronuncia di compatibilità ambientale. In estrema sintesi:

* schede tecniche e modalità operative delle strutture che dovranno ospitare gli aerogeneratori;

* la fattibilità tecnico-economica del progetto;

* le potenziali criticità realizzative;

* la compatibilità con i “Piani di Gestione dello Spazio Marittimo Italiano dell’Area Marittima interessata dal progetto” ora vigenti;

* le soluzioni tecniche per i cavidotti e i collegamenti con la rete elettrica nazionale;

* la reale ed attuale situazione delle aree terrestri interessate dal progetto, comprese le zone percorse da incendi;

* gli effetti sul microclima locale (aumento della temperatura e della nebbiosità, ecc.) e sull’ondosità;

* problematiche occupazionali in fase di realizzazione, gestione e dismissione;

* realizzazione di una “Relazione geologica integrativa, in cui sia valutata e dichiarata la piena compatibilità ambientale di tutte le opere in progetto (Area impianto offshore, cavidotto di collegamento offshore e opere di connessione alla RTN onshore) in ordine agli aspetti geologici, geomorfologici, idrogeologici e sismici”;

* analisi dettagliata su tutte le fonti idriche a uso potabile e il relativo impatto diretto e indiretto conseguente alla realizzazione dell’opera;

* analisi puntuale del consumo di fondale generato da aerogeneratori e cavidotti;

* analisi specifica dei campi elettromagnetici prodotti;

* analisi dell’impatto delle vibrazioni sugli ambienti terrestri e sulla fauna marina;

* analisi dell’impatto del rumore sulla fauna marina e il potenziale danno arrecato;

* profonde integrazioni al piano di monitoraggio ambientale;

* indicazione puntuale delle misure di compensazione;

* predisposizione di adeguate foto simulazioni dell’impatto paesaggistico a terra e a mare degli impianti in progetto da vari punti di vista di rilievo ambientale e storico-culturale, anche con la predisposizione di un portale web aperto al pubblico e la proposta di efficaci misure di mitigazione;

* caratterizzazione dei sedimenti connessi alla sistemazione di cavi e cavidotti;

* indicazione puntuale dell’area interdetta alla navigazione, che comunque dovranno esser oggetto di interlocuzioni e valutazioni internazionali, in quanto riguardanti zone di mare attualmente escluse dalla giurisdizione italiana;

* individuazione e valutazione degli impatti cumulativi con analoghi progetti;

* analisi di dettaglio degli impatti degli ancoraggi;

* analisi dettagliata sugli impatti sull’avifauna e sulla fauna marina (attualmente assenti), anche in considerazione delle opere a terra;

* valutazioni sull’eventuale riduzione degli aerogeneratori e su alternative di posizionamento;

* analisi e valutazioni specifiche sugli impatti su specie faunistiche e botaniche protette nonché sulle aree ricadenti della Rete Natura 2000;

* controdeduzioni alle numerose osservazioni presentate da soggetti pubblici e privati (ben 36 atti).

In ogni caso, si ricorda che “l’area individuata dal Proponente risulta essere collocata, all’attualità, al di fuori delle acque territoriali dello Stato e che la Repubblica Italiana non ha ancora compiutamente definito la propria ZEE (Zona Economica Esclusiva), prevista dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare ‘”United Nations Convention on the Law of the Sea’,’”UNCLOS’) e richiamata nell’ordinamento dalla legge 14 giugno 2021, n. 91 e in conformità a quanto previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare sopra richiamata, autorizzata l’istituzione di una zona economica esclusiva a partire dal limite esterno del mare territoriale italiano e fino ai limiti determinati a norma di legge; pertanto, alla luce delle considerazioni preliminari sopra richiamate, il procedimento in essere, pur proseguendo nel suo inter-istruttorio, resterà subordinato alle determinazioni che vorrà assumere il Governo in ordine alle scelte operate in campo internazionale e, segnatamente, alla definitiva proclamazione della ZEE nell’area in esame”.

Come si può capire agevolmente, progetto e studio d’impatto ambientale presentati lasciano parecchio a desiderare, con gravi rischi per il mare, la fauna marina, le tante attività umane che sul mare si svolgono.

Il progetto di centrale eolica offshore flottante “Mistral” prevede la realizzazione di una centrale eolica off shore, con 32 “torri eoliche” altre più di 200 metri, su una superficie marina di centinaia di ettari, a circa 35 chilometri (circa 19 miglia marine) dalla costa della Sardegna Nord Ovest.

La potenza prevista è di 15 MW per ciascuna “torre eolica flottante” per complessivi 480 MW, mentre la durata prevista della centrale eolica sarebbe di 30 anni e il cavidotto di collegamento dovrebbe approdare sulla terraferma sulla costa algherese, da dove parte un nuovo elettrodotto verso stazioni elettriche e la stazione di connessione alla rete di Ittiri (da potenziare).

Il GrIG era già intervenuto con specifico atto di opposizione (28 giugno 2022), avverso il rilascio della richiesta concessione demaniale marittima trentennale in assenza di qualsiasi atto autorizzativo.

Ora, non rilasciata la concessione demaniale marittima, è stata richiesta la pronuncia di compatibilità ambientale, la procedura di V.I.A. – nella quale il GrIG è intervenuto (30 luglio 2024) con specifico atto di “osservazioni” –  è in corso.

A breve potrebbe esser avviato il procedimento di V.I.A. anche per un altro progetto di centrale eolica offshore flottante in parte sovrapponibile, il progetto “Sardinia North West”, nei mari della Sardegna nord occidentale, al largo di Capo Caccia,che ha concluso la procedura preventiva di individuazione dei contenuti dello studio di impatto ambientale (scoping).

In un’area di mare di 382 chilometri quadrati in concessione, 27 strutture di fondazione galleggianti a forma triangolare ancorate al fondale, dotate ciascuna di n. 2 aerogeneratori, ciascuno con potenza nominale di 25 MW ciascuno, per un numero totale di 54 aerogeneratori e una potenza totale dell’impianto pari a 1.350 MW; cavidotti, cabine di trasformazione, collegamenti terrestri alla rete per una quarantina di chilometri da Alghero fino a Cabu Aspru, nel territorio comunale di Sassari.

Anche in questo caso il GrIG era già intervenuto con specifico atto di opposizione (24 agosto 2022), avverso il rilascio della richiesta concessione demaniale marittima trentennale in assenza di qualsiasi atto autorizzativo.

Il GrIG da un lato è favorevole alla produzione energetica da fonti rinnovabili, ma è assolutamente contrario a ogni ipotesi di speculazione energetica.

Qualche sintetica considerazione sulla speculazione energetica in corso in Italia è stata svolta autorevolmente dalla Soprintendenza speciale per il PNRR, che, dopo approfondite valutazioni, ha evidenziato in modo chiaro e netto: “… è in atto una complessiva azione per la realizzazione di nuovi impianti da fonte rinnovabile (fotovoltaica/agrivoltaica, eolico onshore ed offshore) … tanto da prefigurarsi la sostanziale sostituzione del patrimonio culturale e del paesaggio con impianti di taglia industriale per la produzione di energia elettrica oltre il fabbisogno … previsto … a livello nazionale, ove le richieste di connessione alla RTN per nuovi impianti da fonte rinnovabile ha raggiunto il complessivo valore di circa 328 GW rispetto all’obiettivo FF55 al 2030 di 70 GW” (nota Sopr. PNRR prot. n. 51551 del 18 marzo 2024)”, cioè 4,7 volte l’obiettivo previsto a livello europeo.

Qui siamo alla reale sostituzione paesaggistica e culturale, alla sostituzione economico-sociale, alla sostituzione identitaria.  

Il fenomeno della speculazione energetica, oltre che in Sardegna, è pesantemente presente in modo particolare nella Tuscia, in Puglia, nella Maremma, in Sicilia, sui crinali appennnici.

In tutto il territorio nazionale le istanze di connessione di nuovi impianti presentate a Terna s.p.a. (gestore della rete elettrica nazionale) al 31 dicembre 2024 risultano complessivamente ben 6.071, pari a 348,62 GW di potenza, suddivisi in 3.881 richieste di impianti di produzione energetica da fonte solare per 152,21 GW (43,66%), 2.057 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica a terra per 109,94 GW (31,53%) e 133 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica  a mare 86,48 GW (24,81%).

Un’overdose di energia potenziale che non potrebbe esser nemmeno esser consumata. Significa energia che dovrà esser pagata dal gestore unico della Rete (cioè soldi che usciranno dalle tasse dei contribuenti).

Gli unici che guadagneranno in ogni caso saranno le società energetiche, che – oltre ai certificati verdi e alla relativa commerciabilità, nonchè agli altri incentivi – beneficiano degli effetti economici diretti e indiretti del dispacciamento, il processo strategico fondamentale svolto da Terna s.p.a. per mantenere in equilibrio costante la quantità di energia prodotta e quella consumata in Italia: In particolare, riguardo gli impianti produttivi di energia da fonti rinnovabili, “se necessario, Ternainvia specificiordiniperridurreo aumentare l’energia immessa in rete alle unità di produzione”, ma l’energia viene pagata pur non utilizzata.

 I costi del dispacciamento sono scaricati sulle bollette degli Italiani.

Inoltre, la Commissione europea – su richiesta del Governo Italiano – ha recentemente approvato (4 giugno 2024) un regime di aiuti di Stato “volto a sostenere la produzione di un totale di 4 590 MW di nuova capacità di energia elettrica a partire da fonti rinnovabili”.   In particolare, “il regime sosterrà la costruzione di nuove centrali utilizzando tecnologie innovative e non ancora mature, quali l’energia geotermica, l’energia eolica offshore (galleggiante o fissa), l’energia solare termodinamica, l’energia solare galleggiante, le maree, il moto ondoso e altre energie marine oltre al biogas e alla biomassa. Si prevede che le centrali immetteranno nel sistema elettrico italiano un totale di 4 590 MW di capacità di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili. A seconda della tecnologia, il termine per l’entrata in funzione delle centrali varia da 31 a 60 mesi”.

Il costo del regime di aiuti in favore delle imprese energetiche sarà pari a 35,3 miliardi di euro e, tanto per cambiare, sarà finanziato “mediante un prelievo dalle bollette elettriche dei consumatori finali”.

Insomma, siamo all’overdose di energia producibile da impianti che servono soltanto agli speculatori energetici.

Il GrIG ha avanzato la proposta della verifica nazionale del quantitativo di energia elettrica realmente necessario e della successiva pianificazione statale in base ai reali fabbisogni energetici delle aree a mare e a terra dove installare gli impianti eolici e fotovoltaici e, dopo coinvolgimento di Regioni ed Enti locali e svolgimento delle procedure di valutazione ambientale strategica (V.A.S.), successivamente da assegnare mediante bandi pubblici al migliore offerente per realizzazione, gestione e rimozione al termine del ciclo vitale degli impianti di produzione energetica.

La prima cosa necessaria, a breve termine, sarebbe una moratoria nazionale (non regionale, già dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza Corte cost. n. 27/2023), una sospensione di qualsiasi autorizzazione per nuovi impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili.  Oltre l’individuazione normativa delle aree idonee e inidonee a breve termine, a medio termine, è certamente necessario completare il processo di pianificazione paesaggistica.

Il GrIG ha recentemente promosso in proposito la petizione popolare Si all’energia rinnovabile, no alla speculazione energetica!, che ha ormai superato le 21 mila adesioni, dove sono esposte chiaramente le ragioni perché si possano finalmente pianificare gli interventi di una vera e condivisa transizione energetica senza stravolgere superstiti aree agro-naturalistiche, eccellenze alimentari, campi, pascoli, boschi, coste, crinali, avifauna, siti archeologici, beni artistici e culturali, sentieri, cammini, ciclovie, itinerari turistici enogastronomici scampati ad un vorace consumo di suolo e ora gravemente minacciati da questa arrembante deriva affaristica mascherata di verde e senza rischio d’impresa perchè incentivata con le nostre bollette.

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