Ecologia, femminismo, fame
e povertà zero, cultura, altermondialismo, il credito e non il debito
dell'Africa. A 25 anni dall'assassinio di Thomas Sankara, la rivoluzione del
giovane presidente del Burkina Faso è ancora più che attuale «Lo supplicavo di
proteggersi la vita, gli dicevo che un eroe morto non serve a niente. Adesso
però penso che un eroe morto serva da riferimento». Così il giornalista
malgascio Sennen Andriamirado, nella biografia postuma Il s'appelait Sankara
sottolineava il lascito di quel Che Guevara africano diventato nel 1983
presidente rivoluzionario del poverissimo Alto Volta, rinominato Burkina Faso
ovvero «paese degli integri». Una vicenda luminosa e breve come un lampo.
Sankara fu ucciso a soli 38 anni in un colpo di stato cruento. Interessi
interni di risicati ceti privilegiati saldati a quelli di poteri regionali e
internazionali ebbero la meglio su un'esperienza scomoda e potenzialmente
contagiosa, ma al tempo stesso ancora solitaria, perciò debole. Era il 15
ottobre 1987: venti anni e una settimana dopo l'assassinio del Che. Come una
parola d'ordine Quattro anni sono troppo pochi perché una rivoluzione
sopravviva alla scomparsa violenta della sua guida, soprattutto se di tutta la
testa superiore agli altri politici. E tuttavia Sankara, eroe senza corona e
senza privilegi, rimane un mot de passe , una specie di parola d'ordine. Un
richiamo a ideale e pratiche locali e internazionali adatti al futuro. «Se ci
fosse ancora Sankara», si intitolò un convegno a Torino, nel 2007. Non c'è
angolo che la rivoluzione burkinabè al tempo di Sankara non abbia esplorato:
«Vogliamo essere gli eredi di tutte le rivoluzioni del mondo». Una sfida
enorme, in quel «concentrato di tutte le disgrazie del mondo» (aspettativa di
vita di 40 anni, 98% di analfabetismo, poca acqua, tanta fatica) nel quale però
«donne, bambini e uomini hanno deciso di prendere in mano il proprio destino«
(dal discorso all'Assemblea dell'Onu nel 1984, v. Thomas Sankara, i discorsi e
le idee , edizioni Sankara). Ma ecco un popolo, fatto al 90% di contadini e
donne oppresse, tentare la fuoriuscita dalla miseria, sulla via di uno sviluppo
autonomo, partecipato, egualitario, ecologico per necessità. Il paradigma
sociale e culturale della rivoluzione sankarista era proiettato nel futuro.
Cos'è infatti il buen vivir (o vivir bien ) ora rivendicato da diversi paesi
latinoamericani se non la ricerca di un semplice benessere per tutti, nel
rispetto della natura e dei beni comuni, da raggiungere con strumenti quali
democrazia diretta, economia popolare, risorse endogene? «La nostra rivoluzione
avrà valore solo se, guardando intorno a noi, potremo dire che i burkinabè sono
un po' più felici grazie ad essa», disse il presidente a Bobo Dioulasso il 2
ottobre 1987. Sovranità alimentare nel Sahel L'obiettivo era immenso e immane
in quel contesto. La prova del nove fu superata: risultati materiali inauditi
in poco tempo e quasi senza mezzi. Tutto all'insegna del motto di Sankara:
«Contare sulle proprie forze». Coltivare e irrigare con poche risorse per
garantire due pasti e dieci litri d'acqua al giorno a ognuno. La sovranità
alimentare: «Produrre e consumare burkinabè». «Operazioni commando di
alfabetizzazione» degli adulti. I progetti «un villaggio un bosco, un villaggio
un ambulatorio, un villaggio una scuola». Le «tre lotte contro il deserto» per
un commovente Burkina verde. Il faso dan fani , abito di cotone locale lavorato
artigianalmente. La «battaglia per la ferrovia». L'informazione partecipata con
la «radio entrate e parlate». I lavori comunitari anche per i funzionari (un
tentativo di redistribuzione della fatica). La cultura, inventare il Festival
del cinema africano, le proiezioni nei villaggi, lo sport di massa per la
salute... E i soggetti. La mobilitazione tentata a tutti i livelli nei comitati
rivoluzionari. Al centro di tutto, i contadini e le donne, anche contro i capi
villaggio e gli sfruttatori della tradizione. Presidente femminista, un otto
marzo dichiarò: «Se perdiamo la lotta per la liberazione della donna avremo
perso il diritto di sperare in una trasformazione positiva. (...) Una società
come la nostra deve lottare contro l'escissione e ridurre anche i lunghi
tragitti che la donna percorre per andare a cercare l'acqua, la legna . Non
possiamo parlare di liberazione della donna senza parlare del mulino per
macinare il grano, dell'orto, del potere economico» (da Thomas Sankara. I
discorsi e le idee , edizioni Sankara). Un presidente senza privilegi Per
investire tutto nei bisogni di base Sankara impose una spending review
all'osso: «Non possiamo essere i dirigenti ricchi di un paese povero». Senza
accettare imposizioni dal Fondo Monetario internazionale (che «va oltre il
controllo di bilancio e persegue un controllo politico»), l'austerità fu
autogestita: stipendi modestissimi a presidente e ministri, niente sprechi di
rappresentanza, vendute le auto blu, aboliti gli eventi di lusso, rimpicciolita
ogni spesa amministrativa. Ma non riuscì a Thomas Sankara la lotta contro la
corruzione, e contro gli abusi di potere nei Comitati rivoluzionari. L'impegno
antimperialista fra i non allineati e a fianco delle esperienze rivoluzionarie.
La lotta contro il debito estero e per il disarmo. Nel suo discorso di fronte
ai capi di stato africani, alla Conferenza dell'allora Organizzazione per
l'Unità Africana (Oua) ad Addis Abeba, 29 luglio 1987, Sankara ripeteva
l'invito fatto al Movimento dei paesi non allineati tre anni prima a New Delhi:
«Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non
possiamo rimborsare il debito perché non ne siamo responsabili. (...) Abbiamo
il dovere di creare il Fronte unito contro il debito». Ma al tempo stesso tutta
l'Africa doveva farla finita con la corruzione, i privilegi e le spese per le
armi. Le risorse liberate erano necessarie alla fuoriuscita dalla miseria e
all'integrazione regionale (sul modello dell'attuale Alleanza bolivariana Alba
in America Latina): «Facciamo sì che il mercato africano sia davvero il mercato
degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa e consumare in Africa
(...) È per noi il solo modo di vivere liberamente e degnamente».
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