mercoledì 31 luglio 2024

Perché l’alghicoltura - Vincent Doumeizel

 

Intervista di Agnese Codignola

In principio erano le alghe. Perché esistono sulla Terra da un miliardo di anni, perché sono le progenitrici di numerose piante terrestri, e perché sono state anche tra i primissimi alimenti degli esseri umani. Ancora oggi sono alla base della vita: forniscono almeno metà dell’ossigeno presente in atmosfera, oltre a essere ineludibili protagoniste degli ecosistemi marini. E pensare che, per diffondersi e prosperare, richiedono solo luce e mare: niente terreno, acqua dolce o fertilizzanti. Crescendo assorbono i gas climalteranti e trattengono il carbonio, l’azoto e il fosforo. In cambio forniscono enormi quantità di nutrienti e oligoelementi come lo iodio o le vitamine, e materie prime per una miriade di applicazioni diversissime, dall’edilizia alla farmaceutica, dall’industria tessile a quella cosmetica. Sono insomma creature versatili e sorprendenti, soprattutto per l’Occidente, dove da secoli vengono relegate a un ruolo di secondo piano.

Laddove le alternative sono meno efficienti, più costose e complesse, le alghe potrebbero presto riprendersi la scena, fornendo soluzioni ai problemi più gravi di un mondo messo a dura prova dal riscaldamento globale. Ci vorrà però del tempo prima che ciò accada perché, proprio per via dello scarso interesse maturato nei loro confronti, ne sappiamo ancora troppo poco, e non siamo pronti a usarle al meglio, a coltivarle e perfino a gestirle dal punto di vista normativo. Ma secondo chi le studia non ci sono dubbi: il mondo di fine secolo sarà plasmato dalle foreste del mare. Ad aprire le porte della ficologia – questo il nome della scienza che studia le alghe – è Vincent Doumeizel, consulente per le tematiche relative agli oceani presso il Global Compact delle Nazioni Unite e a capo della Global Seaweed Coalition, che da anni monitora la sicurezza e la sostenibilità della coltivazione delle alghe.

Ho incontrato Doumeizel in occasione della Ocean Week al Museo di Storia Naturale di Milano per parlare del suo nuovo libro, La rivoluzione delle alghe (Aboca, 2024), che oltre a fornire spunti, storie e informazioni sconosciute ai più, si chiude con una visione: quella di un mondo dove le alghe sono state finalmente prese in considerazione per tutto ciò che possono dare. Lo scenario è un cenone di Capodanno del 2050, nel quale tutto ciò che viene immaginato è plausibile nell’immediato futuro: da un punto di vista negativo per ciò che il riscaldamento del clima potrebbe causare, da quello positivo per le soluzioni che le alghe potrebbero offrire. Una visione per niente cupa, che mostra non solo un futuro possibile, ma anche cosa fare per metterlo in pratica. A cominciare proprio dalle foreste del mare, cui Doumeizel ci invita a tornare.

Le alghe sono creature versatili e sorprendenti, soprattutto per l’Occidente, dove da secoli vengono relegate a un ruolo di secondo piano.

Iniziamo dalle basi, dal momento che in Occidente ci siamo quasi dimenticati della loro esistenza, salvo ricordarcene quando c’è qualche evento negativo come una fioritura eccessiva e il loro arrivo, in massa, sulle spiagge: quante sono le alghe? Come sono fatte? E quanto siamo consapevoli del loro valore?

Le specie di alghe brune, rosse e verdi (parliamo di macroalghe, non di microalghe, che in realtà sono cianobatteri, organismi del tutto diversi) sono circa dodicimila, ma ne conosciamo bene solo poche decine. In genere non hanno radici, ma un rizoide che è solo un supporto meccanico: le tiene ancorate al suolo e non assorbe nutrimenti. Poi c’è lo stipite, simile allo stelo delle piante terrestri, che può crescere anche per diversi metri, e infine la fronda, l’equivalente della foglia, che è spesso la parte che si mangia. Si riproducono in modo sessuale oppure per talea, con una velocità di crescita formidabile, nell’ordine di settimane. E, mentre crescono, assorbono in proporzione più CO2 di qualunque pianta terrestre – CO2 che poi fissano, intrappolandola nel mare. Anche solo per questo varrebbe la pena coltivarle: da sole, potrebbero eliminare molta della CO2 in eccesso in atmosfera. Purtroppo però, siamo ancora indietro: la superficie potenzialmente coltivabile è di 48 milioni di chilometri quadrati, dei quali solamente 2.000 circa sono oggi adibiti a questo scopo. Qualcosa, comunque, sta cambiando: nel 1960, il raccolto globale di alghe non superava i 2,2 milioni di tonnellate. Oggi siamo a 35 milioni, un mercato che vale già 35 miliardi di euro e che arriva per il 98% dall’Asia, dove le alghe occupano da sempre un ruolo centrale nelle culture e nelle diete locali.

All’inizio del libro viene tratteggiata una vicenda affascinante, che ha riscritto la storia antica della presenza umana in Sud America. Ce la racconta? Cosa ci insegna sul nostro rapporto con le alghe?

Nel 1976, a Monte Verde, un luogo a 30 chilometri dalla costa del Cile, una spedizione archeologica trovò in una grotta le ossa di esseri umani risalenti a 14-18.000 anni fa: una datazione che spostava indietro di almeno mille anni l’arrivo dei primi umani nel continente sudamericano. Insieme alle ossa, gli archeologi trovarono i resti di 22 specie di alghe disseccate, sminuzzate e in qualche caso masticate, che quegli umani avevano utilizzato come cibo. Quella grotta era lontana dal mare, e quindi la domanda è: chi erano quegli umani? E perché avevano fatto tanta strada per procurarsi e portarsi dietro le alghe? Negli anni successivi si capì che quei Sapiens erano arrivati prima di 13.000 anni fa, e non dall’Eurasia ma dal Pacifico, spostandosi lungo tutto il continente, dall’estremo Nord fino alla Patagonia, seguendo una sorta di “autostrada delle alghe”. Quei primi umani si erano spostati nutrendosi di alghe, e nel frattempo avevano sviluppato il loro cervello, perché con le alghe assumevano grandi quantità di acidi grassi omega-3, vitamine e minerali preziosi. Le alghe potrebbero perciò aver favorito le grandi migrazioni umane, e lo sviluppo del cervello dei primi ominidi. In fondo, se oggi siamo quello che siamo lo dobbiamo anche, e non poco, alle alghe.

Alghe come cibo, quindi, almeno in origine. Lo sono ancora oggi, ma non dovunque. Solo alcune tradizioni orientali le hanno mantenute al centro dell’alimentazione, perché? Come ci siamo dimenticati delle loro qualità? E perché, invece, dovremmo mangiarle tutti?

I motivi sono storici e culturali, perché a un certo punto, soprattutto dopo lo scambio colombiano e l’arrivo nelle due sponde dell’atlantico di piante nuove e sorprendenti, abbiamo pensato che fosse meglio dedicarci all’agricoltura, piuttosto che alla raccolta in mare. Solo il Giappone, e in misura minore la Cina e alcuni altri paesi asiatici hanno mantenuto le alghe come elemento cruciale della dieta. Tuttavia, gli effetti sulla salute di diete che prevedono il consumo di alghe si vedono proprio in Giappone: tassi di obesità dimezzati rispetto all’Occidente, e vita media molto lunga. Le alghe hanno infatti un profilo nutrizionale ottimo, e questo spiega perché dovremmo tornare a mangiarne molte. Inoltre, anche se fossero solo equivalenti ad altre fonti alimentari, dovremmo comunque coltivarle e farle entrare nelle filiere alimentari, perché il nostro pianeta non dispone di ulteriori terre arabili, accessibili e non sfruttate dall’agricoltura: abbiamo bisogno di alternative più sostenibili. Secondo uno studio del 2015, coltivando solo il 2% degli oceani si potrebbe coprire il fabbisogno proteico dell’intero pianeta. Teniamo presente, tra l’altro, che nessuna alga è tossica, anche se qualcuna ha un sapore o una consistenza che per noi risulta sgradevole (“difetti” che in molti casi possono essere corretti con la giusta lavorazione). Le alghe sono un concentrato di ciò che occorre agli esseri umani per stare bene: alcune hanno fino al 40% di proteine in peso secco (quanto la soia), mentre in genere ne bastano 10 grammi per avere tutto il magnesio necessario in un giorno. Inoltre, contengono la vitamina B12 e lo iodio. E non è tutto: non necessitano del freddo per la conservazione, né della plastica, quando sono disidratate. Quasi tutte, infine, hanno il gusto umami (lo stesso del glutammato di sodio), molto gradito a noi umani. La risposta è tutta qui: sono bombe nutrizionali, e straordinarie fonti di proteine alternative alle carni, e infatti non bisogna esagerare.

Descritte così sembrano alimenti quasi ideali, e quindi la domanda è: che cosa ci impedisce di introdurle nelle nostre diete? In fondo la globalizzazione ci ha abituati a moltissimi alimenti un tempo sconosciuti, ma le alghe restano appannaggio della cucina giapponese. Perché?

I ritardi legati al passato e alle tradizioni culinarie hanno reso la situazione, in Occidente, molto complicata. Non esistono norme uniformi e chiare neppure per la commercializzazione, e coltivare le alghe è spesso difficilissimo, perché ottenere concessioni marine in alcuni paesi è quasi impossibile. Inoltre, proprio perché ci siamo dimenticati di loro, abbiamo trascurato anche gli studi, e ancora oggi ignoriamo molti aspetti della loro fisiologia, soprattutto per quanto riguarda la crescita. Prima di procedere in modo esteso con l’alghicoltura dobbiamo saperne di più, perché dobbiamo assolutamente evitare che una specie coltivata per uno scopo positivo diventi invasiva, generando problemi più grandi di quelli che è chiamata a risolvere. È successo per esempio in Marocco, Madagascar e Cile, e questo ci ha fatto capire che dobbiamo ancora studiare molto. Le alghe, forse perché hanno avuto miliardi di anni per affinare le tecniche di sopravvivenza, trovando il modo di resistere a condizioni che possono diventare proibitive, sono ancora un enigma, e in fondo sono creature anarchiche.

Questo è un aspetto affascinante, in un’epoca in cui gli strumenti a disposizione, per esempio per mappare il genoma, sono sempre più numerosi e potenti. In che senso le alghe sono anarchiche?

Si comportano talvolta in modi imprevedibili e non fanno ciò che ci si aspetta da loro, per esempio per ciò che riguarda la crescita. A volte, pur essendo in condizioni teoricamente ottimali, non crescono, oppure lo fanno quando non dovrebbero, e non sappiamo perché. Sono molto legate alle condizioni del mare, al punto che è difficile farle crescere in zone troppo diverse da quelle di origine, ma non capiamo fino in fondo questo rapporto così intimo: c’è qualcosa che ancora ci sfugge, e che dobbiamo decrittare. Anche il loro linguaggio è un mistero. Le alghe, come le altre piante, comunicano tra loro, lanciano allarmi, chiedono aiuto, ma noi non siamo in grado di comprendere che cosa realmente comunichino, e con quali ripercussioni.

Se riuscissimo a capirle meglio, probabilmente potremmo coltivarle non solo per mangiarle, ma anche per dare una mano al clima, perché la loro fisiologia prevede la fissazione del carbonio. Ma ne varrebbe la pena? Potrebbero fare la differenza?

Assolutamente sì. Senza esagerare, possiamo affermare (sono gli studi a dirlo) che con le alghe potremmo eliminare la CO2 che sta scaldando il clima: alcune specie sono molto più efficienti degli alberi. E non c’è solo la CO2: le alghe potrebbero assorbire molti degli inquinanti che arrivano dall’agricoltura industriale. Basti pensare che un ettaro di alghe può assorbire i composti azotati sparsi su 18 ettari di terra, così come il fosforo usato per fertilizzare 127 ettari di terreni agricoli. Già oggi, con coltivazioni minime, le alghe assorbono 75.000 tonnellate di nitrati e 9.500 di fosfati all’anno. Il ciclo sarebbe del tutto virtuoso: azoto e fosforo verrebbero utilizzati dalle alghe e non provocherebbero eutrofizzazione. Poi, sfruttando quelle stesse alghe, nitrati e fosfati potrebbero essere riciclati come fertilizzanti, o per altri scopi, evitando l’estrazione del fosforo dalle miniere. Per questi motivi non solo ne varrebbe la pena, ma la coltivazione andrebbe incentivata, per esempio istituendo crediti specifici, cioè finanziando la coltura delle alghe con il denaro delle aziende inquinanti. Ci vorrebbe, per questo come per molti altri aspetti, una sessione dedicata dell’ONU, che ancora inspiegabilmente manca, ma che potrebbe essere istituita nei prossimi anni, perché è sempre più evidente che il nostro futuro dipenderà anche dal mare.

Al di là del cibo e del clima, le alghe sono già oggi nella vita quotidiana di tutti noi, per esempio negli additivi alimentari e in materiali usati per gli scopi più diversi. In quali altri modi potrebbero aiutare a curare l’ambiente?

Uno dei grandi problemi del nostro pianeta è la plastica, ormai ubiquitaria e i cui effetti negativi sulla salute umana e sull’ambiente sono sempre più chiari. Non escludo che si arrivi, nei prossimi decenni, a un bando totale. Ma un materiale alternativo, totalmente biodegradabile ed economico ce l’abbiamo già: le alghe. Come dimostra il caso della Notpla, start-up che realizza packaging per alimenti e pellicole per liquidi totalmente biodegradabili, persino edibili: le sue bolle di liquidi sono una delle risposte che le alghe possono fornire al problema della platica, e altre start up e aziende stanno lavorando questo. Per capire quanto potrebbero essere utili, basta ricordare che lo 0,03% di tutte le laminarie (le alghe brune chiamate genericamente kelp) sarebbe sufficiente a rimpiazzare tutta la plastica derivante da idrocarburi.

E poi, da tempi antichissimi, forse proprio dall’epoca di Monte Verde, le alghe curano già gli esseri umani. Oggi che cosa sappiamo delle loro potenzialità terapeutiche?

Ricordiamo, innanzitutto, che alle alghe dobbiamo lo iodio, un minerale fondamentale, e assente in molte zone montuose della Terra. Per quanto possa sembrare assurdo, ancora oggi in 54 Paesi del mondo la popolazione non assume iodio a sufficienza, con gravi ripercussioni sulla salute. Per quelle popolazioni l’estratto secco di alghe potrebbe essere risolutivo. Oltre allo iodio e ad altri minerali come il magnesio, con ogni probabilità, nelle alghe si nascondono centinaia di molecole attive dal punto di vista farmacologico, di cui ne conosciamo solo una minima parte. Sappiamo che alcuni zuccheri complessi come la carragenina hanno proprietà antivirali (sono attivi contro l’HIV, gli herpesvirus e forse SARS-CoV-2), che alcune molecole sono efficaci nella fibrosi cistica, che altre interagiscono positivamente con il microbiota intestinale (sono prebiotici), e conosciamo la loro attività lassativa (le fave di fuca sono alghe), ma si tratta della punta di un iceberg. Moltissimo resta da scoprire, e infatti sono in studio per curare, per esempio, alcune patologie della vista, per i trapianti, per l’Alzheimer e per molto altro.

Le alghe possono avere ricadute anche sociali perché, come si racconta nel libro con diversi esempi, le coltivazioni hanno rappresentato e stanno rappresentando tuttora uno strumento di emancipazione femminile. In che modo?

In alcuni paesi come il Madagascar, in cui la società è ancora oggi fortemente patriarcale, la coltivazione e la raccolta di alghe permettono alle donne di avere un’autonomia anche economica. Teniamo presente che le piccole coltivazioni locali non necessitano quasi di nessuna struttura, a parte qualche corda, ed è dunque possibile avviarne una senza chiedere grandi finanziamenti. Le donne possono contribuire al bilancio familiare dedicandosi a un’attività che è relativamente accettata. Per questo stanno nascendo diversi progetti, in varie zone del mondo, finalizzate alla formazione e al sostegno, attraverso il microcredito. Tra l’altro, alcune delle protagoniste assolute degli studi sulle alghe sono donne: a una di loro, Kathleen Mary Drew Baker, di cui racconto nel libro, il Giappone ha dedicato un tempio, data l’importanza delle sue scoperte, anche se lei, in Giappone, non ci andò mai.

Dicevamo però che le alghe hanno anche un lato oscuro: nelle giuste condizioni crescono troppo, arrivando a far morire aree molto estese di mare, e anche per questo, forse, non sono capite e amate quanto dovrebbero. In quali condizioni diventano invasive? E come si fronteggiano nel modo corretto queste crisi?

Tutti abbiamo esperienza di spiagge ricoperte di alghe morte e maleodoranti, ma quando si verificano fioriture anomale, la causa è sempre da ricercare negli squilibri provocati dagli esseri umani. Prendiamo la Bretagna, una delle regioni con la più grande concentrazione al mondo di allevamenti di maiali: sono stati gli scarichi delle porcilaie a innescare un’esplosione di alghe, e lo stesso si vede anche in diverse zone delle coste baltiche, o alla foce del Rio delle Amazzoni o, nel caso più noto e preoccupante, nel Mar dei Sargassi, che ormai forma un’estesa corrente che va dai Caraibi all’Africa. L’aspetto paradossale è che le stesse alghe, coltivate con intelligenza e nelle giuste condizioni, possono rappresentare una soluzione all’inquinamento dei mari, perché sono imbattibili nel risanamento. In Australia e in altri paesi lo si sta facendo, per proteggere le barriere coralline e per contrastare l’erosione delle coste, ma anche per creare ambienti integrati, per esempio con le pale eoliche offshore. Dobbiamo restaurare il mare, cioè ripristinare degli ecosistemi grazie all’azione riparatrice delle alghe, e imparare a gestirle anche in quelle zone di mare che stanno cambiando profondamente come quelli nordici, sempre più caldi, per prevenire le crisi di eutrofizzazione. E, al tempo stesso, dobbiamo imparare a usare al meglio tutto ciò che possono offrire.

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martedì 30 luglio 2024

Chi sente il rumore del carcere che esplode? - Giuseppe Rizzo

  

Nel carcere di Regina Coeli a Roma, dove ci sono 1.100 detenuti per 628 posti, perfino le aule scolastiche sono state trasformate in celle. In quello di Pavia non ci sono abbastanza letti per far dormire i 684 detenuti, così la notte sono aperte delle brandine che al mattino sono richiuse. Dalla sezione femminile dell’istituto di Agrigento scrivono: “Siamo tre detenute in cella. Il bidet viene usato sia per lavarci che per pulire le stoviglie. Le docce sono in comune e ne funziona solo una su due. Siamo invase da blatte e formiche. Dal bidet fuoriescono i topi. I materassi sono pieni di muffa. Spesso e volentieri siamo senza acqua e luce. Non abbiamo mai accesso alla biblioteca. Non ci sono corsi da frequentare. Non c’è nessuna attività”.

L’associazione Antigone ha intitolato il suo nuovo rapporto di metà anno sulla situazione negli istituti penitenziari italiani Il carcere scoppia. Non ci vuole molto a capire perché. Oggi dietro le sbarre ci sono 61.480 persone, ma i posti disponibili sono 47mila. Non erano così tanti dal 2013 Nelle sezioni maschili di San Vittore, a Milano, il tasso di affollamento è del 227 per cento, a Taranto del 194. Nel paese la media è del 120 per cento. Solo 38 istituti su 190 non sono sovraffollati.

Sulla parola sovraffollamento bisogna intendersi. I posti in carcere sono calcolati sulla base di un decreto del ministero della sanità del 1975, secondo cui “la superficie delle celle singole non può essere minore di 9 metri quadrati e per le multiple sono previsti 5 metri quadrati aggiuntivi per ciascun detenuto”. In quasi un carcere su tre degli 88 visitati da Antigone c’erano celle in cui non erano garantiti neanche tre metri quadrati a testa: la soglia minima della dignità secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo. Per i maiali l’Unione europea prevede che lo spazio minimo negli allevamenti sia di 6 metri quadrati ad animale.

Ma non è solo questione di spazio. Nella settima sezione di Regina Coeli le finestre sono più piccole e fanno filtrare poca aria e luce. In altre aree dell’istituto manca l’acqua. A Carinola, in provincia di Caserta, non c’è allaccio alla rete idrica. Ad Avellino non c’è acqua corrente dalle dieci di sera alle sei del mattino. Le finestre della sezione femminile sono schermate con il plexiglass, impedendo all’aria di passare. In carcere anche l’aria aperta è chiusa.

In celle del genere, le persone possono trascorrere fino a 23 ore al giorno. Qualcuno però non ce la fa: e ingoia pile, si taglia le braccia con le lamette, si uccide. Quest’anno i detenuti che si sono suicidati sono 58. Nove solo nel mese di luglio. Otto erano in carcere da pochi giorni, 27 da neanche sei mesi. Undici invece stavano per uscire. A Novara e Pavia si sono ammazzati due ragazzi di appena vent’anni. Ad Augusta un uomo di 67 anni è morto dopo sei mesi di sciopero della fame. A loro bisogna aggiungere i cinque agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Conoscere i motivi dietro gesti così estremi è complicato: ma il degrado e la violenza in cui sono costretti a vivere carcerieri e carcerati mostra un pezzetto di questa complessità.

Queste condizioni e questa violenza colpiscono anche i minori. A metà giugno erano 555 le ragazze e i ragazzi negli istituti penali per minorenni. Nel 2023 erano 406. Bisogna risalire al 2009 per trovare un numero più alto dei cinquecento. Negli ultimi anni la media si era attestata sui trecento e anche i crimini commessi erano in calo. Quello che è successo è che nel 2023 il cosiddetto decreto Caivano del governo Meloni ha reso più facile prendere un ragazzo e chiuderlo in cella, anche per fatti di poco conto, invece di immaginare per lui percorsi alternativi nelle comunità.

Il sovraffollamento non è una calamità naturale, ma il risultato di politiche che alimentano insicurezza, creano emergenze e rispondono alla percezione di pericolo con leggi che riempiono le galere, punendo spesso i più deboli. Dal 2022 sono almeno sette i provvedimenti del governo che rispondono a queste logiche.

Il carcere, sempre innamorato di se stesso, e i carcerieri, sempre innamorati dei carceri degli altri, non riescono e non vogliono immaginare alternative, e perciò sognano nuove galere. Da anni Fratelli d’Italia punta ad aumentare il loro numero, e il ministro della giustizia Carlo Nordio ha da poco annunciato un commissario straordinario per capire come fare. Tuttavia, la verità è che piani del genere, oltre al fatto che impiegherebbero decenni per essere realizzati, finora hanno dato vita solo a inchieste per corruzione. In Italia, quando non si vogliono affrontare i problemi si nominano commissioni e commissari, e quando si cerca di fare i conti con i disastri delle galere si promette di costruirne di nuove.

Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) ha indicato un’alternativa più semplice ed efficace: permettere ai detenuti di lavorare. I dati dimostrano che la percentuale della recidiva tra chi ha un impiego, sia dentro sia fuori le mura di una prigione, scende dal 68,7 per cento al 2 per cento. Ma in Italia il lavoro all’esterno coinvolge meno del 5 per cento dei carcerati.

Il resto cerca di non finire inghiottito dalle sabbie mobili. In meno di un mese, dal 27 giugno a oggi, ci sono stati undici casi di proteste e rivolte: la maggior parte per il suicidio di un detenuto e contro le condizioni invivibili delle strutture.

D’altronde, sono gli stessi tribunali a riconoscere queste condizioni come inumane e degradanti, giudicandole in base all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Nel 2023 sono stati presentati circa diecimila ricorsi per condizioni di vita degradanti, dice Antigone, e più di quattromila sono stati accolti, concedendo sconti di pena oppure risarcimenti, calcolati in otto euro al giorno.

Significa che l’Italia ammette di far vivere i detenuti in condizioni disumane, ma stabilisce per legge che la dignità calpestata di una persona non valga che pochi spicci.

Il sistema carcerario sta esplodendo, ma chi sente il rumore di questa esplosione?

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lunedì 29 luglio 2024

Silenzi, sussurri e grida - Mauro Armanino

 

La percezione del mondo e quello che possiamo fare per cambiarlo dipendono molto dal luogo nel quale viviamo e dalla capacità di accogliere il punto di vista di coloro che sono in basso. Silenzi, sussurri e grida, ad esempio, sono assai diversi. In alcuni angoli del mondo, c’è il silenzio dei più poveri che nessuno si prende la briga di ascoltare. C’è anche la “cultura del silenzio”, quella che fa tacere per consuetudine ciò che dovrebbe essere invece raccontato. Ovunque c’è il sussurro della brezza del mattino. E il sussurro della paziente attesa della pace e della giustizia che tardano ad arrivare. Ci sono, poi, tante grida: quelle ad esempio di chi è gettato nel deserto o che il mare avvolge e copre per sempre, scrive Mauro Armanino dal Niger, ma ci sono anche le grida di un parto che fa nascere un mondo ancora tutto da creare.

 

C’è la “cultura del silenzio” che fa tacere per consuetudine ciò che dovrebbe essere invece raccontato. Il silenzio, unico e non riproducibile, dei cimiteri. Il silenzio dei più poveri che nessuno si prende la briga di ascoltare. Il silenzio dei padri, in genere incompreso e quello delle madri in attesa. Il silenzio dei complici di iniquità. Il silenzio di chi acconsente a ciò che la maggioranza ha deciso. Il silenzio di chi non vuole esporsi per evitare di incorrere in problemi, critiche o persecuzioni. Il silenzio dell’autocensura di chi dovrebbe scrivere e informare sugli abusi del potere.

Il silenzio dei profeti e dei veggenti cooptati dal regime della narrazione unica della verità. Il silenzio degli uomini di Dio che hanno smarrito l’origine e la sacralità della parola. Il silenzio che accoglie e custodisce il dolore della dignità ferita. Il silenzio di chi non ha più nulla da dire perché smarrito dall’abuso della violenza senza un volto. Il silenzio delle lacrime di chi ha visto tradite le speranze di un mondo nuovo.

C’è il sussurro della brezza del mattino che si avvolge attorno alle preghiere abbandonate nelle mani dei mendicanti. Il sussurro delle parole che tessono ogni giorno una realtà differente. Il sussurro della paziente attesa della pace e la giustizia che tardano ad arrivare. Il sussurro di chi non ha dimenticato di stupirsi della bellezza nel sorriso di un bimbo. Il sussurro della pioggia che feconda la terra e il seme sparso. Il sussurro del fiume che scorre verso il mare. Il sussurro del segreto di una vita vissuta in pienezza. Il sussurro del passato che suggerisce al futuro come inventare il presente. Il sussurro dei desideri mai formulati e di quelli dimenticati. Il sussurro dell’utopia che resiste alla tentazione di scomparire. Il sussurro dei cospiratori che non abbandonano la follia di un mondo ancora da scoprire. Il sussurro di un’amicizia sincera. Il sussurro del vento che inciampa tra gli i rami degli alberi. Il sussurro, lieve, di una verità liberata dalla paura.

Ci sono, infine, le grida. Le tre grida che risuonano come cori di canti lontani offerti a chi ha gli occhi e orecchie per ascoltare. Le grida di chi è stato forzato a scappare dalla propria terra e dalla propria patria che è la lingua. Le grida di che cerca un rifugio e si trova, di colpo, senza le radici che lo sostenevano per dare una direzione al suo cammino. Le grida di chi, cercando lontano ciò che non trovava accanto, ha smarrito l’orizzonte del suo destino. Le grida di coloro che sono minacciati, feriti, uccisi e abbandonati da chi dovrebbe proteggerli. Le grida di coloro che sono buttati nel deserto o che il mare avvolge e copre per sempre. Le grida dei naufraghi e quelle di coloro che le politiche e le ideologie dominanti hanno estromesso dalla storia.

Le prime grida sono di ribellione per una società che ha tradito quanto aveva loro promesso. Le seconde grida sono quelle della sofferenza generata dall’ingiustizia, la violenza e la menzogna. Le ultime grida, infine, sono quelle di un parto che fa nascere un mondo ancora tutto da creare.

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domenica 28 luglio 2024

Verso un paese di persone sole, mentre sempre più italiani se ne vanno all’estero - Giovanni Caprio

 

Le nuove previsioni ISTAT sul futuro demografico del paese, aggiornate al 2023, evidenziano tendenze la cui direzione parrebbe irreversibile, pur se in un contesto nel quale non mancano elementi di incertezza. La popolazione residente è in decrescita: da circa 59 milioni al 1° gennaio 2023 a 58,6 mln nel 2030, a 54,8 mln nel 2050 fino a 46,1 mln nel 2080. Il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2023 a circa uno a uno nel 2050. Con un’età media di 51,5 anni entro il 2050 (50,8 per l’Italia), nel Mezzogiorno ci sarà un processo di invecchiamento più rapido. Tra 20 anni ci sarà circa un milione di famiglie in più, ma saranno più frammentate. Meno coppie con figli, più coppie senza: entro il 2043 meno di una famiglia su quattro sarà composta da una coppia con figli, più di una su cinque non ne avrà. “L’aumento della speranza di vita e dell’instabilità coniugale, si legge nel Report dell’ISTAT, fanno sì che il numero di persone che vivono da sole, vere e proprie “micro-famiglie”, cresceranno nel complesso del 15%, facendo aumentare il loro ammontare da 9,3 milioni nel 2023 a 10,7 nel 2043. Tra l’altro, tale aumento, tanto assoluto quanto relativo, è quello che spiega in più larga misura la crescita globale del numero totale di famiglie.”

Fino a 64 anni di età la condizione di vita in solitudine, volontaria o meno che sia, coinvolge già oggi 4,9 milioni di individui, il 60,5% dei quali uomini. “Nei prossimi 10 anni, evidenzia l’ISTAT, questo segmento della popolazione è destinato a rimanere piuttosto stabile (4,8 milioni nel 2033). Nel decennio successivo, invece, in linea con il declino complessivo che caratterizzerà la popolazione in età adulta, anche le persone sole entro i 64 anni di età si avvieranno a subire una flessione che li porterà a 4,5 milioni entro il 2043.”

Qui il Report dell’ISTAT: https://www.ripartelitalia.it/wp-content/uploads/2024/07/Previsioni-popolazione-e-famiglie_Base-1_2023.pdf.  

Un paese che si rimpicciolisce anche a causa della partenza di tanti italiani: al 31 dicembre 2022 i cittadini italiani abitualmente dimoranti all’estero sono 5 milioni e 940mila. Circa 3 milioni e 246mila risiedono in Europa e 2 milioni e 384mila in America. Solo il 31,6% degli italiani residenti all’estero è nato in Italia (1 milione e 900mila), ma in Europa questa quota è pari al 41,8% mentre in America centro-meridionale è di gran lunga inferiore al 10%. Nel 2022 a Londra risiedono quasi 375mila connazionali. Al secondo posto Buenos Aires, con poco più di 322mila italiani e al terzo San Paolo con oltre 239mila italiani. Nel 2022 i nati degli italiani residenti all’estero sono 25mila (tasso complessivo pari a 4,3 nati per 1.000 residenti). I decessi, invece, ammontano a poco più di 8mila (1,4 per 1.000 italiani residenti all’estero). Nel corso del 2022 sono 100mila gli espatri e 75mila i rimpatri dei connazionali dall’estero, con un saldo migratorio pari a +25mila per la popolazione italiana all’estero. Ammontano a oltre 85mila le acquisizioni di cittadinanza italiana all’estero, nell’America centro-meridionale soprattutto per effetto dei riconoscimenti iure sanguinis.

Qui il Report dell’ISTAT: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2024/07/Italiani-residenti-allestero.pdf.

Dovrebbe iniziare a destare qualche preoccupazione questa fuga degli italiani dall’Italia, soprattutto se a voler girare i tacchi per andar via sono i più giovani, anche stranieri. Il 34% dei giovanissimi immagina infatti un futuro all’estero. Giovanissimi che rappresentano un capitale umano tendenzialmente in calo, quindi ancora più prezioso per il futuro del paese. Da questo punto di vista il loro trattenimento in Italia richiede l’offerta di adeguate opportunità di vita. Molti ragazzi che oggi vivono in Italia, vedono il proprio futuro all’estero. Oltre il 34% dei ragazzi tra gli 11 e i 19 anni da grande vorrebbe vivere in un altro Paese. La percentuale è ancora più alta per gli stranieri (38,4%). Da sottolineare che l’8% circa dei ragazzi stranieri da grande desidera vivere nel paese di origine (suo o dei genitori), mentre oltre il 30% si vede in un paese diverso dall’Italia e da quello di origine. Anche la quota di indecisi è leggermente più elevata per gli stranieri (23,7%) che per gli italiani (20,7%). La maggiore propensione alla mobilità dei ragazzi non italiani si spiega con il minore radicamento familiare e sociale in Italia; inoltre, chi ha vissuto una prima esperienza migratoria è più incline a intraprenderne altre. Come per altre intenzioni, è possibile evidenziare importanti differenze di genere. Tra le ragazze, sia italiane sia straniere, la quota di coloro che vogliono vivere all’estero da grandi è più elevata di quella riscontrata per i loro coetanei maschi: rispettivamente il 37,9% per le italiane (contro il 30,7% dei maschi) e il 42,7% per le straniere (contro il 34,6% dei ragazzi). La collettività che più di tutte vuole vivere in Italia è quella marocchina con una percentuale (45,1%) simile a quella degli italiani (45,6%) e al contempo superiore a quella del totale degli stranieri (37,9%). Pur nel quadro di un’ampia fetta di indecisi (47,5% a fronte di una media del 23,7%), i ragazzi cinesi mettono in evidenza una quota più contenuta di persone che da grandi desidera vivere in Italia (29%) e nel contempo un maggiore orientamento al voler vivere da grandi nel Paese di origine dei genitori (11,8%). Tra chi ha paura del futuro, la quota di chi vuole restare in Italia è più bassa rispetto al valore rilevato tra chi sente il fascino del futuro: 39,9% rispetto a 47,0%. Istat che ci dice che I ragazzi nel 2023 sognano ancora l’America: il 32% di coloro che da grandi si vedono all’estero vorrebbe vivere negli Stati Uniti, seguiti, ma a lunga distanza, dalla Spagna (12,4%) e dalla Gran Bretagna (11,5%): https://www.istat.it/wp-content/uploads/2024/05/Bambini-e-ragazzi-2023.pdf

Già il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta aveva posto l’accento sulla fuga dei giovani dal nostro paese, evidenziando come dal 2008 al 2022 circa 525 mila giovani italiani avessero lasciato l’Italia e solo un terzo di essi sia tornato in Italia. Un esodo, aveva sottolineato Panetta, che “indebolisce la dotazione di capitale umano del nostro paese.” Ma cosa spinge tanti giovani ad abbandonare l’Italia?

Nel rapporto sulla condizione giovanile in Italia “Giovani 2024: Bilancio di una Generazione” del Consiglio Nazionale dei Giovani e dell’Agenzia Italiana per la Gioventù redatto con il supporto di EURES (https://www.pressenza.com/it/2024/04/giovani-2024-il-bilancio-di-una-generazione/) si legge che: “la cosiddetta “fuga dei cervelli”, ovvero la scelta di molti giovani qualificati di lasciare l’Italia, non è dovuta alla ricerca di maggiori benefici personali e professionali (4,6%), quanto piuttosto alla scarsa attrattività e alla mancanza di prospettive in Italia (35,5%), alla scarsa attenzione delle istituzioni italiane al futuro dei giovani (34,3%), e alla scarsa valorizzazione di questi da parte delle imprese italiane (25,6%). Sono principalmente i giovani del Nord (37,4%) e del Centro (39,2%) a spiegare la “fuga di cervelli” come conseguenza della scarsa attrattività e della mancanza di prospettive dell’Italia, mentre i giovani del Sud enfatizzano maggiormente il riferimento alla scarsa attenzione delle Istituzioni (38,2%). Si segnala infine come il campione femminile attribuisca la responsabilità del fenomeno alla scarsa valorizzazione dei giovani da parte delle imprese italiane (27,6%) in misura maggiore dei coetanei maschi (23,1%) che, invece, leggono maggiormente la “fuga dei cervelli” come ricerca di valorizzazione delle competenze di un giovane (7,1% contro il 2,4% tra le ragazze).” 

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sabato 27 luglio 2024

Vivere circondati dai veleni e lottare per fermarli - Marina Forti

 

In un pomeriggio di metà giugno i primi bagnanti popolano la spiaggia di Fos-sur-Mer, non lontano da Marsiglia. Qualcuno gioca tra le onde, una bambina costruisce un castello di sabbia, gli amanti del surf approfittano del vento. Nessuno sembra fare caso agli altiforni della grande acciaieria in fondo alla spiaggia, né al groviglio d’installazioni industriali e depositi di carburante che incombe.

Siamo al centro della seconda più grande concentrazione industriale della Francia: il golfo di Fos, tra Marsiglia e le Bouches-du-Rhône, passando per la grande laguna di Berre, dove l’acqua di mare si mescola a quella dolce. L’intera zona include una trentina di centri urbani e quattrocentomila abitanti. Fos, com’è chiamata qui, ne conta 17mila: è una cittadina allo sbocco del canale che collega la laguna al mare, con graziose casette e aiuole fiorite di lavanda. Ma è assediata dagli impianti industriali, come si vede bene dalla piazza della chiesa che sovrasta il paese.

“Siamo circondati”, commenta Daniel Moutet, un signore dai capelli grigi che dedica tutte le sue energie a un’associazione di cittadini per la difesa della salute. Dal belvedere indica i depositi di carburante a poche decine di metri dalle ultime case, le acciaierie Arcelor Mittal in riva al mare, le fiammate delle raffinerie, gli stabilimenti petrolchimici. Poi ancora fabbriche chimiche, cementifici, l’inceneritore che serve la città di Marsiglia, e il porto di Marsiglia-Fos con altre raffinerie e imprese di logistica.

 

Solo tra Fos e la vicina Port-Saint-Louis-du-Rhône “ci sono tredici siti Seveso”, spiega Moutet: ovvero, aziende classificate a rischio secondo la direttiva europea per la sicurezza industriale. L’intera zona Fos-Berre (dipartimento delle Bouches-du-Rhône) ne conta 69, di cui 43 a “rischio alto”. Insieme formano il polo d’industria chimica e il deposito di idrocarburi più grandi d’Europa, e producono un quarto delle emissioni tossiche industriali di tutta la Francia. Si aggiungano una zona militare e una fabbrica di elicotteri Airbus nei pressi di Marignane, l’aeroporto di Marsiglia. Siderurgia, chimica, petrolchimica, cementifici producono una gran varietà di sostanze inquinanti diffuse nell’atmosfera, sui terreni e le piante: “Siamo costantemente esposti a un cocktail di sostanze tossiche”, dice Moutet.

Oggi il polo industriale di Fos è al centro di diverse azioni legali avviate da cittadini, tra cui quella che ha portato il tribunale penale di Marsiglia ad aprire un’istruttoria per reati ambientali. È stato teatro di un’indagine partecipativa su salute e ambiente che ha cambiato la percezione pubblica dell’inquinamento. Ma è anche al centro dei nuovi piani per reindustrializzare la Francia, e potrebbe presto ospitare un progetto italofrancese di “cattura e stoccaggio di anidride carbonica”, guidato dalla società Air Liquide con l’Eni e la Snam. Ecco perché vale la pena di guardare bene questo caso di gigantismo industriale tra le lagune e il mare.

Omertà

“Per anni ci hanno detto che andava tutto bene”, dice Moutet, nella casetta sul lungomare di Fos in cui ha sede la sua associazione (dal nome lunghissimo: Association de défence et protection du littoral du golfe de Fos”, Adplgf). I messaggi delle autorità sono sempre rassicuranti, ripetono che le emissioni industriali sono nella norma, spiega.

Del resto, per decenni queste aziende hanno dato lavoro a decine di migliaia di persone e generose compensazioni alle municipalità, che quindi possono offrire ottimi servizi, centri sportivi, infrastrutture. “Così tutti hanno preferito non vedere l’inquinamento”, commenta Patrick Courtin, medico. “Negli anni sessanta, quando è stato deciso di costruire questo polo industriale, si diceva che l’inquinamento non era un problema perché c’è il mistral”, il vento che scende con grandi raffiche dalla valle del Rodano, quindi da nordovest, verso il mare: “Però soffia per circa un terzo dell’anno”.

Courtin ricorda che quando dirigeva il reparto di rianimazione dell’ospedale di Martigues, comune confinante con Fos, vedeva un numero allarmante di casi di tumore: “Tra i medici però non si parlava di possibili nessi con l’esposizione alle emissioni tossiche industriali. Si diceva: non possiamo affermare, non sappiamo”. Medici, autorità pubbliche, gli stessi cittadini: secondo Courtin “c’è stata una sorta di omertà generale, perché riconoscere gli effetti dell’inquinamento voleva dire rimettere in causa l’intera politica industriale della regione”.

E poi c’è il mare: Bernard Huriaux ricorda che quando dalla Lorena si è trasferito qui nel 1972, per lavorare nell’acciaieria ancora in costruzione, il clima dolce del Mediterraneo l’ha conquistato. “E comunque allora si badava solo ai posti di lavoro”, dice Huriaux, che è stato rappresentante sindacale delegato alla sicurezza (oggi è in pensione). Ricorda le battaglie per far riconoscere le malattie professionali provocate dall’amianto. “Così ci siamo dovuti rendere conto delle emissioni tossiche”.

Intorno al 2005 Daniel Moutet, che allora lavorava nel porto di Marsiglia Fos, ha cominciato a girare con la macchina fotografica. “Avevo di fronte la ArcelorMittal e ogni giorno vedevo fumi rossi, neri, gialli, marrone, la chiamavo la sinfonia di colori”. Ha cominciato a fotografarli e a riconoscere da quali impianti provenivano. Filmava le fumate anomale (“Mi davano del matto”). Spiega che le aziende funzionano in “regime di autocontrollo”, cioè comunicano i propri dati su emissioni e misure di sicurezza all’ente pubblico di controllo (la Direction régionale de l’environment, de l’amenagement e du logement, Dreal).

Moutet ha cominciato a segnalare emissioni fuori norma. Accusa diverse aziende di abusare della “sgasatura”, quando si aprono le valvole di impianti sotto pressione eccessiva: “È una procedura di sicurezza ammessa entro certi limiti, invece ne approfittano per liberarsi dei reflui”. Poi ha cominciato a raccogliere dati sulla catena alimentare. Faceva analizzare campioni di carne di manzi e tori della Camargue negli allevamenti locali, scopriva diossine e furani nella carne o nelle uova di gallina. “Mi dicevano: ‘Allora ce l’hai con noi allevatori’. Ma no, erano le industrie ad avvelenare l’ambiente e i prodotti della zona”.

Fatto sta che l’impegno dei cittadini è cresciuto. Le malattie aumentavano, e anche le domande senza risposte. Nel 2007 migliaia di persone hanno firmato una petizione rivolta alle autorità sanitarie perché diffondessero dati precisi sulla salute degli abitanti.

“Ma c’è voluta l’iniziativa di una ricercatrice venuta da fuori per rompere l’omertà”, dice il medico Courtin. Si riferisce allo studio sullo stato di salute della popolazione di questo bacino industriale coordinato dalla sociologa statunitense Barbara Allen con un’équipe franco-americana di ricercatori, antropologi ed epidemiologi.

Chiamato Fos epseal, acronimo di Ėtude participative en santé environnement ancrée localment (Studio partecipativo su salute e ambiente ancorato localmente), è stato condotto tra il 2015 e il 2017, con ulteriori indagini, e ha avuto un effetto dirompente: ha mostrato che tra gli abitanti dell’area industriale Fos-Port-Saint-Louis l’incidenza di malattie come tumori, diabete e asma è abnorme. Soprattutto, ha coinvolto i cittadini e cambiato il tono del dibattito pubblico. “Ormai nessuno può negare i fatti”, sottolinea Courtin.

L’epidemiologia porta a porta

Il progetto Fos epseal è nato quasi per caso, dice Barbara Allen, sociologa all’università della Virginia, negli Stati Uniti. Nel settembre 2013 era arrivata a Marsiglia nell’ambito di una ricerca sulla partecipazione pubblica nella definizione delle politiche ambientali, in collaborazione con l’Institut d’études avancées di Aix-Marseille (Iméra). “Una delle zone coinvolte era la laguna di Berre”, spiega Allen in videochiamata.

La sociologa parlava con associazioni di cittadini, ambientalisti, amministratori locali, medici. “Mi aiutava come interprete l’antropologa Yolaine Ferrier, che è cresciuta nella zona. Un giorno mi ha proposto di intervistare suo zio, che aveva lavorato in una di quelle fabbriche fino alla pensione”. Lui ha indicato altri colleghi, da ogni intervista ne nascevano altre, “a palla di neve”. “Finché è stato chiaro che i cittadini non erano mai stati interpellati negli studi degli enti pubblici, anche se nella zona c’erano state diverse indagini sanitarie, nessuno aveva mai chiesto loro se avevano dei problemi. Molti ormai non si fidavano dei ricercatori”.

Così Allen, Ferrier e colleghi hanno formulato un progetto di ricerca partecipativa sulla salute dichiarata degli abitanti del distretto industriale, ottenendo un finanziamento dall’Agence nationale de sécurité sanitaire de l’alimentation (Anses, l’ente statale per la sicurezza alimentare) e il sostegno di diverse istituzioni scientifiche. Uno studio che combina l’epidemiologia (che studia frequenza e distribuzione delle malattie) con l’antropologia e la sociologia: l’obiettivo principale “era coinvolgere i cittadini interessati in tutte le fasi dell’indagine scientifica”, si legge nell’introduzione.

La prima fase della ricerca era incentrata su interviste porta a porta con i cittadini, condotte tra il 2015 e 2016. “Abbiamo preparato un questionario sulla ‘salute dichiarata’: e perché fosse inattaccabile ci siamo rifatti alla formulazione già usata in analoghe indagini pubblicate su riviste scientifiche sottoposte a peer review”, spiega Allen. I ricercatori hanno bussato a una porta su cinque di Fos-sur-Mer e Port-Saint-Louis-du-Rhône, e raccolto le interviste in forma anonima: “La prima domanda era sempre la stessa: ‘Le è stata diagnosticata qualche malattia?’. Poi domande su problemi sanitari di tutta la famiglia, abitudini alimentari, fumo, alcol, lavoro, quelli che chiamiamo fattori di stress, e così via”. Hanno registrato le malattie diagnosticate e i malesseri dichiarati dai singoli intervistati, disturbi cronici, difficoltà a respirare, e così via. “Quasi metà delle persone che ci aprivano hanno accettato di rispondere, è un’ottima percentuale. Così abbiamo creato un campione casuale (random) di abitanti”.

Allora è cominciata una serie di forum aperti per discutere i risultati delle interviste con le parti in causa, cittadini, medici, ricercatori, associazioni, sindacati. “I primi che abbiamo interpellato sono stati i medici del servizio sanitario pubblico e altri ‘informatori chiave’, i quali spesso trovavano nei nostri dati la conferma di quanto avevano osservato sul campo”, continua Allen.

Poi la “restituzione” alla cittadinanza. “Siamo andati dal sindaco di Fos-sur-Mer, che all’inizio non ci aveva permesso di usare spazi della municipalità per svolgere la ricerca. Ha voluto conoscere prima i nostri risultati. Ci ha ascoltato senza dire una parola, e infine ci ha concesso la sala comunale per un’assemblea pubblica”. Era il gennaio 2017. “Quella sera c’era il pienone, le persone da noi intervistate e molti altri: ormai in città tutti avevano sentito parlare della nostra ricerca”.

Barbara Allen ricorda quando, finito l’intervento dei ricercatori, il primo ad alzarsi è stato proprio il sindaco: “Si è voltato verso i suoi concittadini e ha detto: ‘Ecco lo studio che stavamo aspettando’. È stato un momento importante. Da allora è stato uno dei nostri grandi sostenitori”.

Lo studio mostrava che due terzi degli abitanti di Fos e Port-Saint-Louis dichiarano almeno una malattia cronica, tra cui asma e altre malattie respiratorie, disturbi cronici della pelle, o irritazioni degli occhi e mal di testa; attesta inoltre un’incidenza abnorme di casi di tumore (più elevata tra le donne), di asma negli adulti e di diabete di tipo 1. “Per molti è stato uno choc, anche se in qualche modo era atteso perché tutti avevano qualcuno ammalato tra i parenti o i vicini”, ricorda Allen.

È stato uno choc anche scoprire che sul “fronte industriale” del golfo di Fos non c’erano differenze significative nella salute di chi lavorava in fabbrica e chi no, cioè chi è esposto in modo concentrato a determinate sostanze tossiche per motivi professionali, e i residenti che si presumono esposti in modo diluito. Molti hanno testimoniato anche di stress e pressioni sul lavoro. Tutti convivono con la malattia e la morte. È ciò che lo studio definisce “violenza ordinaria”: invisibile, non immediatamente percepita, “lenta”, ma inesorabile.

Lo studio partecipativo per la verità è stato molto criticato, dopo quella prima uscita pubblica. “Molti hanno accusato la sociologa americana di aver usato un metodo non scientifico; dicevano che aveva raccolto impressioni, non fatti”, ricorda Daniel Moutet. Una critica più circostanziata è arrivata dalla Santé publique France, l’agenzia nazionale per la sanità, e riguardava il metodo.

In effetti allo studio mancava ancora una parte essenziale per un’indagine epidemiologica: ripetere la ricerca in una zona paragonabile della stessa regione non esposta alle emissioni industriali (il gruppo di controllo). Così la ricerca è stata ripetuta a Saint-Martin-de-Crau, cittadina a trenta chilometri da Fos, distante dalla concentrazione industriale. In questa fase al team di ricerca si sono aggiunti altri epidemiologi. Il rapporto finale è stato pubblicato nel 2022 con il nome Fos crau epseal.

“Se c’è stato un errore non era scientifico ma di comunicazione: aver diffuso i primi risultati, nella discussione con i cittadini, prima di terminare la ricerca”, dice Maxime Jeanjean, epidemiologo, che ha coordinato questa seconda parte dell’indagine. “Lo studio Epseal documenta lo stato generale della salute, le patologie e i disturbi cronici, e anche la percezione di chi è esposto a polveri, fumi, emissioni industriali. Emerge senza dubbio uno stato di salute reso molto fragile”. A studio concluso, anche la Santé publique France ne ha riconosciuto la validità, spiega Jeanjean: “La metodologia della ricerca partecipativa è ormai convalidata”.

Lo studio Fos epseal ha avuto un effetto dirompente, osserva Philippe Chamaret, direttore dell’Institut écocitoyen, istituto di ricerca ambientale indipendente ma finanziato quasi per intero da istituzioni pubbliche. Lo incontro nella sede dell’istituto, palazzine basse nascoste tra i pini anche se siamo in piena zona industriale di Fos. Fondato nel 2010 per studiare il rischio ambientale e l’impatto dell’inquinamento sulla salute, l’istituto ha una équipe multidisciplinare (ingegneri ambientali, epidemiologi, ricercatori in scienze sociali) e collabora con università, Consiglio nazionale della ricerca scientifica e altre istituzioni.

“La nostra ricerca parte dalle richieste del territorio”, spiega Chamaret: enti locali, prefettura, aziende, sindacati, associazioni di cittadini. Il coinvolgimento degli abitanti è sollecitato, ad esempio in un Osservatorio cittadino sull’ambiente che raccoglie dati forniti da una rete di volontari a cui l’istituto dà formazione e protocolli precisi. “È importante perché oltre al dato scientifico abbiamo accesso alle segnalazioni, alle impressioni e anche alla rabbia di chi vive in un territorio interessato da così tante attività industriali”.

Discusso, criticato, lodato, lo studio Fos epseal ha suscitato grande attenzione pubblica. È stato invocato da chi si opponeva a un nuovo inceneritore per i rifiuti solidi urbani di Marsiglia (che infine è stato bocciato). È diventato uno strumento di battaglia.

Nel novembre 2018 l’associazione diretta da Daniel Moutet ha contattato a Marsiglia l’avvocata Julie Andreu, specializzata in cause su salute, ambiente e lavoro. Con la sua assistenza, un gruppo di cittadini di Fos ha depositato al tribunale di Marsiglia una denuncia contro ignoti per aver “messo deliberatamente in pericolo la vita altrui”. La documentazione era solida, tanto da spingere la giudice d’istruzione Nathalie Roche ad avviare un’istruttoria. “La giudice ha ritenuto di prendere in considerazione le cinque o sei maggiori aziende sul territorio”, spiega l’avvocata Andreu nel suo ufficio in centro a Marsiglia. “Ma ha deciso di considerarle una per volta: così ha cominciato con la ArcelorMittal”, primo inquinatore della zona.

L’istruttoria dura ormai da quattro anni “ed è stata molto seria e approfondita: speriamo che ci saranno presto novità”. Se ci sarà un rinvio a giudizio, la ArcelorMittal potrebbe dover rispondere di diversi reati e irregolarità. Sarebbe la prima volta in questa zona.

Poi c’è la causa civile promossa nel 2021 da quattordici cittadini di Fos contro tre aziende accusate di “disturbo anomalo del vicinato” (la ArcelorMittal, la Esso, la Dépôts pétroliers de Fos-Dpf). La querela è stata respinta in primo grado (il tribunale l’ha giudicata non ricevibile). Ora però la corte d’appello “ha emesso una decisione favorevole”, spiega Andreu: con sentenza del 13 giugno ha stabilito che i cittadini hanno motivo di perseguire le aziende, perché non potevano immaginare che le loro emissioni superavano i limiti ammessi, come dimostrato dai numerosi incidenti, sgasature, fiammate. Un nuovo giudizio dovrà definire il danno subìto dalle persone. A sostegno i querelanti citano ancora una volta lo studio Fos epseal.

Infine si prepara una nuova causa civile, in cui un centinaio di cittadini e associazioni ambientaliste vogliono citare a livello nazionale e locale le istituzioni responsabili del controllo del rischio per la salute dei cittadini. “Questa sarà la causa più difficile”, ammette l’avvocata. “Ma aver avviato le azioni legali ha già suscitato grande attenzione pubblica. È la nostra prima vittoria”.

A Fos-sur-Mer, Daniel Moutet dice che le azioni legali sono solo uno strumento di battaglia. “Non cerchiamo risarcimenti. L’obiettivo è che si riconosca che le soglie d’inquinamento sono state superate, che queste fabbriche hanno diffuso reflui tossici in modo consapevole e sistematico. E che hanno messo in pericolo la nostra salute”. In fondo, aggiunge, “non chiediamo che chiudano. Ma vogliamo che rispettino le regole e smettano d’inquinare”.

Una zona sacrificata?

“Ormai nessuno può fare a meno di citare lo studio Fos epseal”, osserva Philippe Chamaret sotto il portico dell’Institut ecocitoyen: “Tutti devono almeno far vedere che prestano ascolto ai cittadini”. Perfino la locale prefettura ha invocato lo studio partecipativo, quando ha istituito un laboratorio territoriale sulla reindustrializzazione.

Già, perché nonostante il gran numero di aziende presenti, nel bacino industriale di Fos si parla di circa novecento ettari di terreno da destinare a nuovi impianti, con investimenti progettati per 15 miliardi di euro: in nome della decarbonizzazione si parla di idrogeno, nuovi materiali, energie rinnovabili. Anche il progetto franco-italiano di cattura e stoccaggio di anidride carbonica denominato Callisto si svilupperà qui: nessun dettaglio è stato ancora diffuso, ma lo scorso dicembre la Commissione europea l’ha incluso tra i progetti di interesse comune.

Secondo il progetto, a Fos-sur-Mer dunque dovrebbe sorgere un nuovo impianto per liquefare l’anidride carbonica catturata dalle emissioni industriali del distretto. Eppure restano molti dubbi. Non è chiaro per esempio come questa CO2 verrebbe poi trasferita fino a Ravenna per essere immagazzinata nei pozzi di gas esauriti del mare Adriatico, e a quali costi. Le aziende interessate, la Air Liquide, la Snam e l’Eni, non rivelano dettagli. “Il sospetto è che sia soprattutto un modo per raccogliere fondi pubblici, incentivi e sgravi fiscali destinati alla decarbonizzazione”, dice Elena Gerebizza, ricercatrice dell’associazione ReCommon, che ha dedicato un ampio dossier alle “false promesse” della cattura e stoccaggio di carbonio, tra cui il progetto Callisto.

Comunque sia, nel laboratorio territoriale del golfo di Fos sono rappresentate amministrazioni locali, parti sociali, aziende, sindacati e istituti di ricerca, incluso l’Institut ecocitoyen. Un modo per indorare la pillola, per far accettare nuove espansioni industriali? Molti qui ne sono convinti. “Se almeno servisse a non ripetere gli errori degli anni sessanta”, commenta Chamaret. “Allora il polo industriale fu costruito in uno schiocco di dita, in pochi anni, senza la minima attenzione all’impatto ambientale o alla salute dei cittadini. Questa volta non ci sono scuse. Noi terremo gli occhi aperti”.

Intanto sulla strada di accesso alla spiaggia di Fos, un grande cartello avverte che siamo in una zona di rischio industriale, con le istruzioni in caso di evacuazione d’emergenza. Accanto, un’anziana coppia pesca nel canale che costeggia la zona industriale. Patrick Courtin, che da quando ha lasciato l’ospedale collabora con l’Institut écocitoyen, teme che il golfo di Fos sia ormai una “zona sacrificata”: così compromessa dall’inquinamento che tanto vale mettere qui nuove fabbriche.

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venerdì 26 luglio 2024

Sono sfratti e sgomberi a essere illegali, non le occupazioni - Stefano Portelli

 

Prima che il dibattito pubblico slitti via verso qualche nuovo scandalo estivo, forse è importante mettere agli atti una precisazione. Si parla di diritto alla casa e occupazioni di immobili disabitati, a partire da un’affermazione di Ilaria Salis su un canale social. Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia (la corporazione dei proprietari immobiliari), ha risposto naturalmente che quella di Salis è una “rivendicazione orgogliosa di una serie di reati”, definendo poi “eversiva” la proposta di depenalizzare le occupazioni. Simone Tulumello, geografo siciliano attivo a Lisbona, sul Manifesto ha spiegato che siccome da quarant’anni in Italia non si costruiscono case popolari, le occupazioni oggi sono l’unica politica per la casa esistente. Marco Travaglio ha risposto pubblicando l’indirizzo del giornale, per dire “andate a occupargli la sede” (come quando fai notare che il governo viola il diritto di asilo, e qualcuno ti risponde “ospitali a casa tua”). Una giurista su Domani ha ribadito che le occupazioni abitative sono sempre illegali e illegittime; su Repubblica Concita De Gregorio ha recuperato la politica delle “case minime” del sindaco democristiano di Firenze nel dopoguerra, e Luigi Manconi ha menzionato delle sentenze della Corte Costituzionale che tutelano il diritto alla casa. Un buon resoconto del dibattito lo ha fatto Isaia Invernizzi sul Post, concludendo con la domanda: occupare è “accettabile”?

Ma questi dibattiti mediatici spesso finiscono per confondere ancora i termini della questione. Ricordiamo che ad aprile 2020, quando migliaia di persone non potevano pagare l’affitto e rischiavano di finire per strada, Confedilizia tirò fuori una campagna per far ripartire gli sfratti, basata sull’immagine di un povero proprietario che si era inciso sul braccio a sangue le parole “non sulla mia pelle”. Nel 2022 la stessa organizzazione propose al governo di legalizzare gli sfratti extragiudiziali, cioè di permettere ai proprietari di cacciare inquilini o occupanti con le proprie mani, senza passare per i tribunali. Subito dopo la proposta di Confedilizia, un padrone di casa di Castel Gandolfo aveva rapito e torturato il suo inquilino moroso, insieme a due sgherri. Permettere ai proprietari di farsi giustizia da soli non è ben più eversivo che lasciare in pace chi si è adattato ad abitare in un’immobile abbandonato? Non è una “rivendicazione orgogliosa di una serie di reati”, molto più problematica che legalizzare chi ha trasformato in casa un immobile abbandonato? Spaziani Testa mi minacciò di querela per aver accostato la loro proposta al caso di Castel Gandolfo. Ma non è che uno dei continui tentativi di affossare il dibattito sulla catastrofe degli sfratti e degli sgomberi, per portarlo al “problema delle occupazioni”.

Il problema non sono le occupazioni, bensì sfratti e sgomberi. Non solo perché, come scrive Tulumello, in molti paesi occupare le case non è affatto un reato (in altri lo è diventato di recente; e quasi ovunque chi occupa una casa abbandonata ha dei diritti); ci sono anche decine di risoluzioni internazionali, trattati Onu, delibere delle commissioni sui diritti umani, che autorizzano esplicitamente le occupazioni di immobili abbandonati, condannando invece sfratti e sgomberi ingiustificati. L’Italia si sta discostando sempre di più dalla legalità internazionale, che considera gli sgomberi una violazione dei diritti umani; non l’occupazione. Le associazioni che difendono gli interessi della grande proprietà, e delle banche che si stanno accaparrando migliaia di immobili, sanno bene che il diritto alla proprietà è limitato dal suo valore sociale, e che la speculazione immobiliare sta distruggendo le vite di decine di migliaia di persone. Per questo costruiscono il panico su immaginari “racket” o “mafie delle occupazioni”, connettendo eventi disparati o inventandoli di sana pianta per presentarsi come vittime di occupanti violenti, inquilini morosi o “associazioni a delinquere finalizzate all’occupazione di immobili” (come nella sentenza contro gli attivisti per la casa del Comitato Giambellino-Lorenteggio di Milano).

L’obiettivo è creare l’allarme sociale verso questo “problema”, perché diventi impossibile discutere del problema vero, cioè la mancanza di case. Sanno bene che molti esperti di questioni urbane considerano depenalizzare l’occupazione come uno dei modi con cui affrontare la crisi. Decriminalizzare l’occupazione degli immobili abbandonati (ovviamente non di quelli abitati!) da una parte aiuterebbe a mitigare la penuria di alloggi, impedendo ai proprietari di tenere case vuote in zone ad alta pressione immobiliare: lo ha spiegato in un podcast il geografo Manuel Aalbers, il principale esperto europeo di finanziarizzazione dell’abitare; dall’altra, contribuirebbe alla decrescita urbana, cioè alla riduzione del cemento, dei consumi e della spesa pubblica, come ha scritto Claudio Cattaneo in un libro pubblicato da Routledge, Housing for Degrowth. L’occupazione, scrive, può “offrire alloggi dignitosi a costo zero, fermare la speculazione immobiliare, e, come conseguenza, redistribuire i diritti di proprietà, ottenendo la decrescita in termini monetari e materiali”. Ma la grande proprietà vuole proprio alimentare la crescita urbana, liberalizzare ancora il consumo di suolo e di cemento, rafforzare la distribuzione ingiusta della proprietà, renderci la vita impossibile, insomma, per monopolizzare la necessità vitale di avere una casa. Per questo devono rendere più impraticabile l’occupazione, e più facili gli sgomberi.

Una risoluzione del Parlamento europeo del 21 gennaio 2021 ha chiesto a tutti gli stati dell’Unione di porre rimedi all’accaparramento di case da parte di banche, gruppi finanziari, speculatori, che sta facendo crescere il numero dei senzatetto in tutta Europa. Il parlamento Ue ha chiesto espressamente ai governi di garantire che tutte le persone abbiano una casa dignitosa, di evitare in ogni modo possibile che le persone rimangano senza casa, di combattere i padroni di casa che chiedono affitti troppo alti, o che affittano case in pessimo stato, di fare in modo che entro il 2030 non ci sia più nessuno senza casa, e soprattutto, di riconoscere sfratti e sgomberi come “palesi violazioni dei diritti umani”. L’Ue chiede di vietare “in ogni circostanza” gli sgomberi in cui chi viene cacciato di casa non ottiene un appartamento alternativo (comma 29 della risoluzione). Sta parlando di chi non riesce a pagare l’affitto, o ha smesso di pagare il mutuo, o non ha alcun titolo di proprietà, o ha occupato le case. La risposta del governo italiano? Un Decreto sicurezza che punisce l’occupazione degli immobili con pene fino a sette anni di carcere, considerando occupanti anche gli inquilini che non se ne vanno di casa quando arriva l’ufficiale giudiziario. Eppure ce lo chiedeva l’Europa.

A febbraio 2024, inoltre, la Commissione Onu per i diritti economici, sociali e culturali ha pubblicato la prima risoluzione definitiva su un caso di occupazione a Roma (qui la traduzione in italiano). Alla fine degli anni Novanta cinque famiglie nordafricane avevano occupato e ristrutturato un vecchio immobile del demanio, sui binari tra stazione Prenestina e stazione Tiburtina. Abbandonato dopo la guerra, il manufatto era diventato una crackhouse; gli “occupanti” riempirono secchi e secchi di siringhe prima di iniziare i lavori per ricavarne cinque case dignitose. Ci abitarono fino a ventiquattro persone, con una decina di bambini; gli agenti della polizia locale si complimentarono con loro perché li avevano aiutati a risolvere un problema del quartiere. Verso il 2009 arrivò la notizia che Ferrovie dello Stato era entrata in possesso dell’immobile (non è chiaro come) e ne esigeva lo sgombero. Il tribunale stabilì che gli “occupanti” avevano più diritto di abitare nell’immobile che Ferrovie di accamparne il possesso, poiché i primi avevano speso una gran quantità di soldi ed energie per rimetterlo a nuovo. Più avanti un nuovo processo diede ragione alla proprietà, che intanto era diventata Ferrovie dello Stato Real Estate. Per quei giudici i profitti del real estate contavano più del diritto a usare le case per la ragione per cui erano state costruite, cioè per abitare.Per tutto il 2021, 2022 e 2023, il Movimento per il diritto all’abitare, l’Assemblea di autodifesa dagli sfratti, il sindacato Asia-Usb, organizzarono manifestazioni e picchetti davanti alle cinque case, per ribadire il diritto degli occupanti a rimanere lì, almeno fino a quando non avessero avuto un’alternativa dignitosa.

Con l’Assemblea di autodifesa dagli sfratti aiutammo due delle cinque famiglie a inoltrare una comunicazione all’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, affermando che uno sgombero senza alternative sarebbe stata una violazione del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Le due famiglie furono tra le prime a usare questo strumento, che a partire dal 2021 impiegarono decine di altri inquilini e occupanti sotto sfratto in tutta Italia. Avevano ragione: la Commissione dichiarò immediatamente che quegli sgomberi si dovevano fermare e che gli autori delle comunicazioni dovevano avere una casa. I tribunali fermarono il procedimento per poco più di un anno; poi decisero di riprenderlo, violando la protezione internazionale accordata dall’Onu alle famiglie e le loro case. Solo i picchetti antisfratto continuarono a garantire il rispetto della legalità, impedendo l’esecuzione di uno sgombero potenzialmente illegale. A febbraio 2024 è arrivata la risoluzione definitiva: le famiglie non solo hanno diritto ad avere una casa dignitosa, se proprio devono essere sgomberate; lo stato italiano deve anche compensarle economicamente, vista la precarietà in cui le ha costrette a vivere per così tanto tempo.

La risoluzione definitiva dell’Alto commissariato non dà alcuna importanza al fatto che queste famiglie siano “occupanti illegali”; è lo sgombero, invece, a essere illegale. La Commissione considera che uno Stato “commette una violazione del diritto all’alloggio, se prevede che una persona che occupa un immobile senza titolo legale debba essere sfrattata immediatamente, indipendentemente dalle circostanze” (par. 8.3). È vero, riconosce l’Onu, che queste famiglie “non avevano alcun titolo legale”. Ma quello che importa per la legge non è se o quanto punirle per questa mancanza, bensì se il loro sfratto sia “necessario e proporzionato all’obiettivo perseguito, e se lo Stato abbia tenuto conto delle conseguenze dello sfratto” (par. 10.1). La Commissione prende in considerazione diversi elementi: che le famiglie hanno chiesto la casa popolare per oltre dieci anni, senza nessun risultato; che hanno dei bambini; che hanno fatto tutto il possibile per regolarizzare la loro situazione; e anche, sorprendentemente, che lo sfratto non è “il risultato di una richiesta di un individuo che aveva bisogno dell’alloggio come abitazione o reddito vitale”, ma di una compagnia finanziaria che non ha nessuna necessità vitale a quell’immobile. Come ogni altra cosa, sfratti e sgomberi non si valutano sulla base di concetti astratti di legalità e illegalità, ma soppesando attentamente le necessità e gli interessi di tutte le parti. La conclusione è che lo sfratto di questi “occupanti” è una violazione del “diritto a un alloggio adeguato” (par. 11.1).

Per la legge internazionale, non è importante con quale titolo, o se c’è un titolo, per garantire il diritto universale ad avere una casa. Quello che importa è che nessuno rimanga senza casa. Illegali, inaccettabili, abusivi, illegittimi, sono i procedimenti di sgombero che non tutelano questa necessità fondamentale, che non forniscono soluzioni, e che condannano le persone a vivere senza un tetto. Nel film Il tetto, di Vittorio De Sica, una famiglia senza terra e senza soldi si costruisce una casa di notte, sapendo che se all’arrivo della polizia la casa ha già un tetto costruito, non potrà cacciarli. Il dibattito attuale sulle cosiddette “occupazioni illegali” sta cercando di minare questo diritto consuetudinario che accompagna tutta la storia degli insediamenti umani: ricchi e potenti possono appropriarsi delle terre, possono recintare i pascoli e le foreste, ma chi non ha altra scelta che trasformare in casa un pezzo di terra disabitato, deve avere il diritto di considerarlo casa propria, indipendentemente dalla volontà del padrone, almeno fino a quando non viene offerta un’alternativa.

Colin Ward ha ricostruito la “storia nascosta” di questo diritto in Cotters and Squatters, un libro del 2002. Le occupazioni di oggi, spiega, sono eredi dirette dei cottage inglesi, costruiti “abusivamente” ma legalmente, su terreni altrui, e che lo Stato non poteva abbattere, perché erano a tutti gli effetti delle case abitate, anche se senza titolo. In questo diritto hanno vissuto le baraccopoli del dopoguerra a Roma e Milano del film di De Sica, gli asentamientos espontáneos in America Latina, i karien in Marocco, gli ashwayat in Egitto, e i gecekondu in Turchia, un termine che vuol dire proprio “costruiti di notte”. È una consuetudine vitale, che precede le normative urbanistiche, precede gli stati nazionali, precede le recinzioni delle terre; queste istituzioni hanno il dovere di riconoscere la precedenza, e di rispettarla.

Il “diritto di restare” che hanno gli occupanti dei palazzi e delle case abbandonate, ha molti secoli di storia, e ha permesso a milioni di persone in tutto il mondo di sopravvivere nonostante l’assenza di politiche abitative statali. È il prodotto di un diritto consuetudinario, la pratica di “abitare di notte” terreni e immobili abbandonati, grazie al duro lavoro di trasformazione di spazi che nessuno usa in case. È vero che chi entra in una casa popolare abbandonata deve farlo di notte, di nascosto, come la coppietta di De Sica. È comprensibile anche che questa azione possa destare preoccupazione o sconcerto per chi ha la fortuna di non dovervi ricorrere. Ma quelle ormai sono case. Non possono essere sgomberate, per legge, a meno che non venga offerta un’alternativa. Eversivo è chi tenta di criminalizzare questo diritto per aumentare i propri profitti.

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