poi piano piano diventa, per i miei gusti, meno interessante, ma vale certamente la pena leggerlo.
si scopriranno molte cose interessanti, davvero utili e importanti - francesco
Che cosa mangiamo, e perché? Sono domande che
ci poniamo ogni giorno, convinti che per rispondere basti sfogliare la rubrica
di un giornale, o ascoltare per qualche minuto l'ultimo imbonitore
nutrizionista ospitato in tv. Ma se quelle domande le si guarda un po' più da
vicino, come fa Michael Pollan in questo suo documentato saggio, forse il primo
sull'argomento a non prendere alcun partito, se non quello dell'ironia e del
buon senso, le risposte appaiono meno scontate. Che legga insieme a noi le
strepitose biografie del defunto pollo "biologico" riportate sulla
confezione di petti del medesimo, o attraversi le lande grigie e fangose del
Midwest, dove milioni di bovini nutriti a mais e antibiotici vivono la loro
breve esistenza fra immensi stagni di liquame, Pollan arriva immancabilmente a
conclusioni di volta in volta raccapriccianti o paradossali.
Se ci sono voluti quasi sei mesi per recensire questo libro di Michael Pollan, non lo si deve soltanto alla nostra inveterata pigrizia. Il fatto è che risulta davvero difficile decidere da che parte iniziare a descrivere, o anche soltanto a classificare, un’opera tanto ricca di spunti di riflessione, dibattito e analisi che toccano in profondità l’oggetto del nostro lavoro e della nostra passione: il cibo.
“Il dilemma dell’onnivoro” è, prima di tutto, una lucida e obiettiva inchiesta sui processi produttivi del cibo nella nostra epoca, ma è anche un saggio critico che non si astiene da giudizi, proposte, speranze e utopie per il futuro della nostra alimentazione; è una leggera ma acuta riflessione filosofica sullo strettissimo rapporto (materiale e immateriale) che ci lega alle sostanze di cui ci nutriamo; è, per finire, una concreta esposizione, non viziata dai consueti toni apocalittici e da prese di posizione aprioristiche, delle ragioni per le quali il modello di sviluppo praticato nel mondo occidentale non è, alla lettera, “sostenibile” dalla nostra civiltà. Sotto quest’ultimo aspetto, il libro si sarebbe potuto intitolare senza scandalo “L’uomo è una locusta”, vista la pertinenza con cui affronta la tematica dell’insensato dispendio (e spreco) di risorse che caratterizza l’agricoltura e l’allevamento, ma non solo, nell’epoca contemporanea...
Se ci sono voluti quasi sei mesi per recensire questo libro di Michael Pollan, non lo si deve soltanto alla nostra inveterata pigrizia. Il fatto è che risulta davvero difficile decidere da che parte iniziare a descrivere, o anche soltanto a classificare, un’opera tanto ricca di spunti di riflessione, dibattito e analisi che toccano in profondità l’oggetto del nostro lavoro e della nostra passione: il cibo.
“Il dilemma dell’onnivoro” è, prima di tutto, una lucida e obiettiva inchiesta sui processi produttivi del cibo nella nostra epoca, ma è anche un saggio critico che non si astiene da giudizi, proposte, speranze e utopie per il futuro della nostra alimentazione; è una leggera ma acuta riflessione filosofica sullo strettissimo rapporto (materiale e immateriale) che ci lega alle sostanze di cui ci nutriamo; è, per finire, una concreta esposizione, non viziata dai consueti toni apocalittici e da prese di posizione aprioristiche, delle ragioni per le quali il modello di sviluppo praticato nel mondo occidentale non è, alla lettera, “sostenibile” dalla nostra civiltà. Sotto quest’ultimo aspetto, il libro si sarebbe potuto intitolare senza scandalo “L’uomo è una locusta”, vista la pertinenza con cui affronta la tematica dell’insensato dispendio (e spreco) di risorse che caratterizza l’agricoltura e l’allevamento, ma non solo, nell’epoca contemporanea...
…Il manuale subisce poi un picco di
indecenza nel momento in cui, da “manuale dell’onnivoro” qual è, comincia a
diventare un “manuale del vegetariano”.
Dopo aver visto macellare mucche, dopo
aver ucciso lui stesso del polli e dopo aver mangiato di tutto e di più,
improvvisamente Pollan dice “quasi quasi divento vegetariano”.
Questo pensiero dura circa un
secondo.
Già alla pagina successiva, infatti, Pollan
ci spiega perché diventare vegetariani non abbia senso (per lui) e si vanta
persino di essere riuscito e convertire molti vegetariani a mangiare carne (ma
complimenti!).
In un vergognoso capitolo chiamato
“Una buona morte”, Pollan ci racconta di come sia giusto macellare le
mucche perché esse non provano dolore come noi.
O meglio, provano esattamente lo stesso
tipo di dolore che proviamo noi (e proviamo a immaginare se noi venissimo
fucilati, appesi a testa in giù per un gancio, lasciati dissanguare e poi
squartati), ma siccome non hanno consapevolezza della morte e non provano paura
subito prima di morire, allora tutto ciò è giustificato!
Le mucche, infatti, non avendo coscienza
di cosa succede all’interno dei padiglioni adibiti alla macellazione, salgono
senza paura sulle rampe che le porteranno alla morte. E tutto ciò è
giustificato perché è la loro incoscienza può essere concepita come un tacito
assenso alla morte.
Ma che bel ragionamento!
Quindi gli ebrei che venivano scortati
all’interno delle camere a gas meritavano di morire perché, pensando che
fossero docce, acconsentivano ad entrarvi?
È un libro scritto con garbo
e ironia, e più avvincente di un romanzo, ma che fa emergere abissi nei quali
la maggior parte di noi non vuole ficcare lo sguardo. Chi infatti, quando
compra una confezione di uova al supermercato, si chiede come vivano le galline
ovaiole che le hanno prodotte e di quali mangimi siano state nutrite?
Preferisce ignorarlo, fidandosi dei controlli sanitari (che in Italia sarebbero
i migliori del mondo civile - mentre in tutto il resto saremmo al di sotto: un
vero paradosso), e respingendo ogni domanda inopportuna (ad esempio circa il
rispetto dei pretesi “diritti degli animali”). Pollan segue il percorso di una
gallina e di un vitello, e ci fa vedere in che modo prendano forma i prodotti
alimentari industriali che si consumano in un fast food, indaga poi su quello
che chiama il biologico industriale, quindi si immerge nella operosa vita
quotidiana della fattoria Polyface, dove l’intelligenza di Joel Salatin riesce
a sfruttare la terra senza impoverirla, anzi arricchendola con un mirabile
ciclo produttivo in cui piante e animali interagiscono, seppur governati
dall’umano, secondo la propria natura. E infine si fa cacciatore e
raccoglitore, con una immersione nel passato della nostra specie che gli fa
riscoprire quale sia il sapore di un pranzo totalmente creato dalle sue mani.
Il testo di Pollan è ricchissimo di spunti su cui riflettere. Anzitutto sui limiti entro i quali la natura delle singole specie animali e vegetali può essere forzata senza ripercussioni a catena dalla portata catastrofica. Impressionanti, in questo senso, le pagine sul mais, che più della soia è diventato il vero signore e padrone della nostra catena alimentare. La sua sovrapproduzione ha effetti a cascata. I suoi derivati sono onnipresenti, anzitutto nei mangimi per animali. Ma mentre un pollo può benissimo essere allevato a mais, un bovino ne soffre. Il suo organismo è stato selezionato dalla natura per nutrirsi di erba, e il mais lo fa ingrassare rapidamente, ma male, soprattutto per il suo fegato. Quindi farmaci a gogò (peraltro diffusi in tutti gli allevamenti intensivi anche da noi), e alleanza tra il mais e la chimica, che fornisce anche i concimi necessari alla monocultura di massa.
Il testo di Pollan è ricchissimo di spunti su cui riflettere. Anzitutto sui limiti entro i quali la natura delle singole specie animali e vegetali può essere forzata senza ripercussioni a catena dalla portata catastrofica. Impressionanti, in questo senso, le pagine sul mais, che più della soia è diventato il vero signore e padrone della nostra catena alimentare. La sua sovrapproduzione ha effetti a cascata. I suoi derivati sono onnipresenti, anzitutto nei mangimi per animali. Ma mentre un pollo può benissimo essere allevato a mais, un bovino ne soffre. Il suo organismo è stato selezionato dalla natura per nutrirsi di erba, e il mais lo fa ingrassare rapidamente, ma male, soprattutto per il suo fegato. Quindi farmaci a gogò (peraltro diffusi in tutti gli allevamenti intensivi anche da noi), e alleanza tra il mais e la chimica, che fornisce anche i concimi necessari alla monocultura di massa.
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