Il
dominio dei SUV è una questione culturale e di mercato, oltre che tecnica, ed è
un problema ecologico e di sicurezza per le nostre città.
El g’ha el Süv, lü l’è el baüscia milanes”, recitava –
più di dieci anni fa – il ritornello della canzone di una pubblicità. Sfotteva
i SUV che intasavano già le città, e i baüscia alla guida che li compravano per
status, sbruffoni di taglia imprenditoriale diretti a Courmayeur. “Inquina?
Fatti tuoi!”. Quella pubblicità vendeva però a sua volta un SUV, certo più
compatto ed economico degli altri, e costruito dalla Skoda, ma era pur sempre
una sorta di SUV. Il campo delle alternative si era già ristretto.
Che nelle strade delle città europee circolassero
automobili sempre più massicce ce n’eravamo accorti da tempo. La canzone
sollevava, a modo suo, la questione ecologica o di un rapporto più complicato
con lo spazio dei centri urbani. Stereotipizzava anche l’aggressività dei suoi
conducenti, un’arma di cui però si riappropriarono presto le pubblicità dei SUV
“canonici”: la BMW, nel 2019, lanciò il suo lussuoso X6, descrivendolo come un
capobranco con “attributi
da maschio dominante”.
Negli anni la categoria del SUV (Sport Utility
Vehicle, in italiano Veicolo di Utilità Sportiva) ha spopolato e si è
allargata in gamme diverse, finché ogni casa automobilistica non ha avuto una
sua berlina suvizzata. In questa corsa nessuno si è sottratto: persino
la Ferrari, marchio a cui non è mai importato di fare né
un’utilitaria né una berlina di lusso. Queste auto più alte, più massicce e
spesso dal design dinamico o aggressivo, si sono imposte in un mercato
automobilistico in crisi
profonda. Oggi la forma SUV costituisce quasi la metà delle
nuove auto vendute in Europa. Com’è stato possibile?
Oggi la forma SUV costituisce quasi la metà delle
nuove auto vendute in Europa. Com’è stato possibile?
La necessità di ridurre le emissioni avrebbe lasciato
infatti immaginare auto più leggere oppure più aerodinamiche. “D’altra parte, è
anche vero che i dispositivi di sicurezza chiedevano spazio a bordo e
altrettanto faceva l’elettronica”, spiega Sophian Fanen, giornalista francese
autore dell’inchiesta SUV qui
peut. “Poi la transizione verso l’auto elettrica, con le
sue grosse batterie montate al di sotto, ha imposto auto più alte. Ma tutto ciò
non basta per spiegare questo ingigantimento”. Tra il crescente bisogno di
sicurezza degli automobilisti e la necessità di incassare dei produttori, la
suvizzazione dell’auto è diventata un complesso fatto culturale ed economico,
estetico, che negli ultimi vent’anni ha plasmato le forme dell’auto.
Il ventennio suvista
I fuoristrada che potevano muoversi anche su strade
normali esistevano già, ed erano già popolari: la Land Rover della
regina Elisabetta, per esempio, la Ford Bronco di
O.J. Simpson o la Lada Niva prodotta nella città di Togliatti, URSS. Nel 1994
però compare in Europa la Toyota RAV4: è una novità perché è un 4×4 più
compatto, costruito sulla piattaforma rinforzata di una berlina, ma pur sempre
dalle forme di una jeep. Negli anni seguono la Mercedes e poi BMW. Ancora
tuttavia i SUV sono un acquisto di nicchia. Diventano però un lemma da
dizionario, tanto che l’Enciclopedia dell’Auto di Quattroruote del 2003 alla
voce SUV spiega che “si tratta di veicoli per il tempo libero
che si stanno diffondendo anche in Europa” e che negli Usa già superano le
vendite “delle automobili”.
Da lì a poco il mercato europeo si orienterà verso
queste nuove forme. Ne racconta un esempio il designer Patrick Le Quément,
designer già a capo del design Renault dal 1987 al 2009: “nel 2006 il nuovo
presidente della Renault, Carlos Ghosn fece un discorso davanti al personale
design, con la sua perentorietà abituale. Disse: smetteremo di fare queste
auto, faremo il più gran numero di SUV”. Ghosn era stato a capo di Nissan con
cui Renault aveva già un’alleanza industriale. “Questa piccola storia è
interessante perché Nissan faceva il grosso delle sue vendite negli Stati Uniti.
Tutto lì era cominciato con i pick-up e altri veicoli abbastanza mostruosi,
estremamente pesanti ma non per forza spaziosi”, commenta Le Quément. In
effetti circolavano da tempo jeep da strada e i costruttori che cercavano di
conquistarsi un posto nel mercato statunitense facevano vetture più massicce,
con grossi motori. “E consumi terribili”, aggiunge Le Quément. “Erano
all’opposto dei criteri del design europeo, in particolare di Francia e Italia
dove c’è sempre stato l’elogio della leggerezza. Ma poco per volta i produttori
hanno cominciato a lanciare queste auto sul mercato europeo”. Alla fine di quel
2006 proprio Nissan lancia Qashqai: è il primo SUV di mezza taglia del tutto
votato alle strade delle città europee, non somiglia più a una jeep e lo chiamiamo crossover (anche
se non ci sono definizioni chiare del termine).
“All’epoca”, aggiunge Fanen, “il mercato europeo
dell’auto era diviso tra piccole auto, berline, diciamo classiche o di lusso, e
soprattutto monovolume: era l’epoca dell’auto di famiglia. Dopo la scintilla di
RAV4 e Qashqai, le persone sembravano sempre più interessate a questi 4×4 da
città. La maggior parte delle persone in effetti vive in città o nei dintorni e
non prende un’auto per andare nella foresta. Eppure ha funzionato”.
All’inizio i SUV erano all’opposto dei criteri
del design europeo: in particolare di Francia e Italia c’è sempre stato
l’elogio della leggerezza. Poi hanno preso piede ovunque.
Negli anni la categoria SUV si è diversificata e la
sua forma si è imposta anche nelle taglie medie o piccole, così anche da
un’utilitaria o una berlina nascevano versioni più muscolose. Non da meno i
marchi di lusso: ecco i grandi SUV di Rolls Royce, Bentley e delle sportive
Lamborghini e Ferrari. La forma SUV si adatta bene anche come auto di potere, e
difatti Macron nel 2017 ha
scelto un SUV come nuova auto presidenziale. A ridosso della
rielezione di Mattarella si
vagheggiava lo stesso per il Quirinale.
Nel tempo, dunque, un’esplosione: secondo
Jato Dynamics, agenzia che raccoglie dati del settore, nel 2007 i
SUV costituivano l’8% del mercato auto europeo, dieci anni dopo il 29%, il 33%
nel 2018, il 40,3% nel 2020. L’anno scorso il
45,5%. Vicino al 52,3% degli Stati Uniti.
L’ultima sigaretta
E però al tempo stesso il mercato dell’auto è in
profonda crisi, anche a causa della pandemia e della “crisi del potere di
acquisto della popolazione”, come scrive Andrea Coccia, giornalista e autore
di Contro
l’automobile, in un articolo su Slow
News. In Francia nel 2020 “sono state immatricolate
1.650.188 automobili private (…) il peggior dato dal 1975”, aggiunge Coccia. Il
crollo è generale: tra i dati raccolti da Coccia leggiamo che in Germania le
auto immatricolate nel 2020 sono diminuite del 19,1% rispetto all’anno
precedente e in Italia del 27,9%. Di mezzo, c’è stata la crisi dei chip per le
componenti elettroniche, la pandemia e la saturazione di un mercato già affollato:
la crisi sembra epocale.
Serve un “piano storico” come quello annunciato in una
solenne conferenza da Macron nel maggio del 2020, dentro gli stabilimenti
dell’industria di componenti auto Valeo a Étaples. Otto miliardi di aiuti per
la filiera produttiva francese e per il sostegno all’acquisto. Uno degli
obiettivi è che i francesi acquistino più automobili e in particolare più
automobili pulite; dice Macron: “non tra due, cinque o dieci anni: ora”. In
questo piano, 600 milioni sono stanziati per costituire un fondo d’investimento
condiviso tra stato e produttori. Si tratta insomma di “tenere in vita”, scrive
ancora Coccia, “l’industria automobilistica, rilanciando il modello classico,
quello delle sovvenzioni statali, continuando a incentivare l’utilizzo dell’automobile
e la sua produzione”.
Nel frattempo, 2021, secondo
l’ACEA (Associazione dei costruttori europei di
automobili) le vendite di nuove auto sono scese ulteriormente, meno 2,4%. Così,
anche se il mercato italiano nell’ultimo anno è cresciuto, il governo ha
stanziato con decreto quasi 8
miliardi di aiuti.
I SUV che ruolo hanno in questo processo di
Restaurazione? Nel mercato europeo e globale costituiscono quasi la metà delle
nuove vendite, secondo
l’International Energy Agency. Certo, nel 2021 i
SUV sono meno di quelli venduti pre-crisi nel 2019, ma comunque sono già più
venduti rispetto al 2020. Ma non è solo il successo a trainare il mercato.
Produrre SUV costruiti a partire da berline è per
l’industria un modo di massimizzare i ricavi, in attesa della transizione verso
i veicoli elettrici che sarà lenta e costosa.
I SUV sono infatti costruiti a partire da piattaforme di
berline. Perciò i costi di produzione sono ridotti e però, sottolinea Fanen,
“sono considerati di più alta gamma rispetto alle berline. Dunque, i gruppi
automobilistici fanno una berlina, ne fanno una versione più muscolosa e la
vendono a migliaia di euro in più”. Secondo
le stime, nel 2020 in Europa il prezzo di un SUV era superiore
mediamente del 59% rispetto a quello di una berlina. “Per l’industria è un
modo di incassare il massimo dei soldi perché si sa bene che la transizione
verso i veicoli elettrici sarà lenta e costosa. Insomma, il SUV è l’ultima
sigaretta prima della morte del mercato dell’auto per come lo conosciamo e
della morte di un secolo a benzina”.
Dal lato dei produttori si tratta insomma di cavalcare
l’onda del successo dei SUV per fare upselling, come mi conferma lo
stesso Andrea Coccia, cioè vendere agli automobilisti auto di fascia superiore
e incassare. Ma, ancora, questo successo è l’esito anche di altre ragioni e di
fenomeni non solo economici. “Nel mondo delle auto ci si batte per tentare di
salvare qualche punto di vendita e quello dei SUV è un approccio calcolato, una
strategia di marketing”, secondo Le Quément, che aggiunge: “come spesso accade,
i fattori che intervengono nella questione sono anche altri e numerosi”.
L’ideologia sociale del SUV
Negli Stati Uniti nel 2021 sul podio delle tre auto
più vendute ci sono tre pick-up, quasi due milioni di vendite. Tutti e tre
superano i cinque metri e due dei tre sfiorano i sei; se pesati assieme
superano le sei tonnellate. “L’origine del fenomeno SUV”, scherza Le Quèment,
“è proprio questa relazione tra certi mezzi mastodontici e i cowboys americani,
che se ne vanno in giro con le pistole in tasca”. Certo, le auto europee nel
tempo si erano già ingrandite per ragioni importanti come la sicurezza
stradale, evoluzione che si osserva di generazione in generazione. “Ma qui
siamo in un contesto di aggressività e queste macchine sono divenute sempre più
aggressive, non solo nella loro taglia, ma soprattutto attraverso la loro
espressione stilistica. L’evoluzione è dunque fisica ma anche culturale”.
L’automobile è sempre stata simbolo
dell’individualità. Così scriveva André Gorz, filosofo, sulla rivista Le
Sauvage nel 1973:
L’automobilismo di massa materializza il trionfo
dell’ideologia borghese al livello della pratica quotidiana: instilla e fa
crescere in ognuno di noi la convinzione illusoria che ogni individuo può
prevalere e avvantaggiarsi alle spese di tutti. È l’egoismo aggressivo e
crudele del guidatore che ogni minuto assassina simbolicamente “gli altri”, che
non li percepisce più se non come fastidi materiali e ostacoli alla propria
velocità.
Gorz la chiama l’ideologia
sociale della macchina. Sono passati
cinquant’anni eppure oggi ci stupiamo lo stesso fronte all’inasprimento
visibile della potenza individuale, muscolare, di queste nuove auto. Forse
perché negli anni Novanta la diffusione di grandi macchine significava
monovolume vendute come veicoli per famiglie e non corazze individuali. Però
nella prospettiva di Gorz i SUV, cinquant’anni dopo, non sarebbero altro che
l’ennesima materializzazione di quella rivalsa e di quell’egoismo, portato alle
sue estreme conseguenze estetiche. “La maggior parte di questi veicoli cercano
potenza, ma anche, direi, violenza”, commenta Le Quément. “Quando guardiamo
alla nuova
concept car di lusso della BMW siamo di fronte a
una degenerazione di questa espressione dell’aggressività verso gli altri
utilizzatori della strada”.
Si tratta anche di un arrocco: le dimensioni del SUV
danno a chi lo guida un’evidente percezione di sicurezza e di maggior
controllo, di “sentirsi protetti dentro. Anche se non è esattamente vero perché
in Europa un SUV non è tecnologicamente più protetto, ma ha le stesse norme di
una piccola vettura”, precisa Sophian Fanen. “Solo è più grande e ha dunque più
probabilità di fare danni agli altri”. La ricerca di protezione nasconde dei
risvolti più profondi. Il ventennio dei SUV in Occidente è coinciso con una
stagione di inquietudine, segnata simbolicamente dagli attentati a New York, e
dunque un periodo di ossessione per la sicurezza. Il sociologo Yoann Demoli
in Sociologie de l’automobile nota come dopo la guerra del
Golfo negli Stati Uniti si fosse diffusa la moda dell’hummer, veicolo di
origine marziale. “Pensiamo anche ai militari nelle stazioni”, aggiunge Sophian
Fanen. “Questo mondo è percepito come una minaccia e il SUV mi pare che in un
certo senso materializzi questa paura. Non è ovviamente qualcosa a cui pensa
chi compra, anche se c’è un immediato senso di protezione stradale”. Tuttavia
esistono elementi estetici che possono essere chiavi simboliche per leggere
questa ricerca di sicurezza. Uno di questi è la linea di cintura: puntate il
dito alla parte bassa dei finestrini e scorretelo in orizzontale, è la linea
che delimita la carrozzeria. “Nel design dell’auto è un elemento chiave. Più
questa linea si alza”, prosegue Fanen, “più i finestrini si riducono e abbiamo
un senso di chiusura, come una gabbia contro gli squali, ma al tempo stesso
diventiamo minacciosi per l’esterno”.
Il SUV è l’ultima sigaretta prima della morte del
mercato dell’auto per come lo conosciamo, e della morte di un secolo a benzina.
“In questo contesto ansiogeno anche i finestrini
diventano neri”, aggiunge Le Quément. “Alcune di queste auto somigliano così a
dei blindati, dei tank in grado di resistere. Dunque, la nozione di protezione
è un elemento chiave per comprendere questa storia. Ma penso esista un
ulteriore legame con un altro fenomeno. Siamo in un’epoca di dismisura e lo
constatiamo dalla concentrazione delle ricchezze”. La necessità di manifestare
ricchezza e potere attraverso i mezzi di trasporto è storia secolare, e la
storia stessa dell’auto lo dimostra. “Quando l’automobile è stata inventata,
essa doveva concedere a pochi ricchi borghesi un privilegio completamente
nuovo: quello di spostarsi più velocemente rispetto a tutti gli altri”, scrive
André Gorz, nell’Ideologia sociale della macchina. Nonostante la
successiva massificazione con la Ford T in America e il boom economico in
Europa, l’auto, secondo Gorz, resta nella sua essenza qualcosa di simile a un
castello o una villa costiera, un lusso inventato “per il piacere esclusivo di
una minoranza di ricchissimi”. Dunque nella vendita delle auto è da sempre
implicata una volontà di ostentazione della ricchezza e del potere, veri o
pretesi.
Patrick Le Quément, che dopo aver segnato il design
automobilistico si dedica oggi al design navale, sposta per un momento questo
discorso su un’altra manifestazione di ricchezza. “Pensiamo agli yacht. Stanno
costruendo lo yacht di Jeff Bezos in Olanda, il più grande a vela. Forse ne
conoscete la storia: il comune di Rotterdam inizialmente sembrava aver ipotizzato
di smontare parte di un ponte perché questo yacht è così
smisurato che non ci passa. Al suo confronto lo storico yacht dei reali
inglesi, il Britannia, è piccolo”. Per fare un paragone lo yacht di
Bezos è grande il doppio del vascello Victory con cui Lord
Nelson e l’equipaggio di 850 soldati combatterono Napoleone nella battaglia di
Trafalgar. “Negli anni anche le imbarcazioni dei grandi ricchi sono raddoppiate
nelle dimensioni. Credo che l’automobile segua dal punto di vista culturale
questa evoluzione della società: la postura è mostrare quanto sono potente,
anche attraverso queste forme di dismisura”.
Come fare un design aggressivo
Roland Barthes nel 1957 dedicava una
parte di Miti d’oggi alla déesse,
la dea: così si pronunciava il nome della Citroën DS 19. L’indiscutibile design
carismatico per Barthes faceva della DS “un oggetto perfettamente magico”,
caduto dal cielo, aggiungerà in un’intervista in
TV. Per il critico possedeva un “gusto della leggerezza, dal senso magico”, che
prendeva forma nel suo aerodinamismo, nell’esaltazione del vetro e dell’aria,
nella superficie liscia come attributo di perfezione, trasmutando da un “mondo
di elementi saldati a un mondo di elementi giustapposti”. Barthes scrive anche
che in questo nuovo e già mitico Nautilus “la velocità si esprime in segni meno
aggressivi, meno sportivi, come se passasse da una forma eroica a una forma
classica” per poi notare che fin lì invece “le automobili superlative erano
appartenute piuttosto al bestiario della potenza”.
Sembra l’opposto di quanto vediamo oggi. Patrick Le
Quément si chiede in un
recente articolo se esistano ancora
automobili capaci di attrarre lo sguardo di qualcuno come Barthes. Val la pena
però di capire l’aggressività e la ricerca di protezione siano espresse nelle
forme. “Nel design dell’auto c’è sempre stata una parte di aggressività, basta
guardare una Lamborghini”, spiega Le Quément. “È il cosiddetto wedged
design, per cui la linea di cintura cade in avanti. Quando le guardiamo,
auto di questa forma danno l’impressione di essere in pieno movimento, come un
ghepardo”. Con l’avvento dei SUV coupé questo design ha conquistato anche
quella categoria. “Tagliare il retro fa sì che la silhouette diventi
propulsiva. Un altro dettaglio sono le calandre sono sovradimensionate. Ora, se
sparisce il motore sulle auto elettriche, le calandre diventano inutili, ma per
preservare questo aspetto minaccioso certi costruttori mettono elementi, come
prese d’aria finte, le cui linee hanno l’espressione arrabbiata di certi
cartoni animati giapponesi”.
La suvizzazione dell’auto non riguarda soltanto i SUV:
anche le altre auto tendono a ingrandire le proprie forme.
Ma accentuare queste forme è diventato anche una
necessità. Le auto infatti si somigliano sempre di più per dimensioni. Se un
primissimo e banale limite è la larghezza della strada, un’auto grande può solo
allungarsi, ma un auto piccola può invece anche allargarsi. “Ciò che è
interessante”, spiega il designer, “è che le auto piccole, medie e grandi si
stanno avvicinando in termini di larghezza, rispetto a 30 anni fa. E i
costruttori si stanno tirando una palla sul piede perché la massa delle auto di
categoria diversa è molto vicina, quasi identica, e le auto si somigliano nella
loro silhouette. Dunque per distinguere l’auto più costosa ne si accentua
l’espressione, sempre più forte man mano che si sale di gamma”.
La suvizzazione dell’auto non riguarda soltanto i SUV:
anche le altre auto tendono a queste forme. Esattamente come c’era stata
un’affermazione del monovolume non solo tra le ampie auto familiari, ragione
per cui è esistita anche la piccola Twingo, oggi osserviamo un generale
tendenza verso questo design. Conclude Le Quément: “Credo sia una volontà di
iscriversi in una moda. Conta il marketing e le persone del marketing sono
degli inseguitori. Credo non esista più l’eleganza dell’automobile, non è più
il soggetto della ricerca: si tratta di impressionare sulla strada. Con l’idea
dell’auto che arriva e si impone e noi lasciamo il passo”.
Il paesaggio pubblicitario
Nella costruzione di questo immaginario, la pubblicità
è un punto chiave e lo è anche nel stimolare le vendite. Perciò, in quanto
cardinale, è dispendioso: Andrea Coccia nel suo Contro l’automobile ha
esaminato la quantità di soldi che i produttori investono nella pubblicità
dell’automobile. Nel 2017, per esempio, al mondo quaranta miliardi sono stati
usati per la pubblicità delle auto, dieci solo in Europa.
All’inizio dell’articolo si citava una pubblicità di
un SUV BMW (2019) che parlava di attributi da maschio dominante. Non è l’unico
riferimento a questa virilità. Un’altra
pubblicità dello stesso marchio dichiara con le stesse
parole quanto ha descritto poco sopra Le Quément. Si dice infatti che la nuova
colorazione speciale del SUV, ispirata alla velenosissima rana
freccia: “segnala subito a chi la guarda: attenzione! Pretendo rispetto!”. E
ancora: “non vi avvicinate troppo!” Il racconto ondeggia tra la descrizione
naturalistica e i dettagli automobilistici, mostrando come si fa a “dominare:
sulla strada e nel mondo animale”.
Di certo, non tutte le pubblicità sono così esplicite.
Altrove si proclama: “tu sei il capitano”, l’auto allora prende velocità,
eccitata, in un sentiero selvaggio, un canyon, viene sfidata in corsa da un
elicottero o da un cavallo, attraversa una foresta, la Foresta Nera, un cervo,
si inerpica su un crinale di montagna, mentre volteggiano dei paracadutisti, i
gabbiani, siamo arrivati al mare, un fiordo e lì possiamo parcheggiare sugli
scogli. L’invito è a vivere in un altro modo. “È sorprendente: vendiamo le auto
su un’idea di grandi spazi e traversate. Uscire di strada: in molte pubblicità
vediamo le auto che lasciano la strada e si avventurano”, aggiunge Sophian
Fanen che ne ha fatto un intero catalogo in uno degli
episodi della sua inchiesta sui SUV.
Dunque, rispetto allo spot della Fiat Punto del 1999,
dove l’auto si destreggiava in una giungla urbana affollata di animali, la
maggior parte di queste pubblicità oggi raccontano di fughe dalla vita
cittadina. Lo spot della Ford Ecosport (2019) comincia con una domanda fatidica
in una pausa caffé, al lavoro: “Bel weekend?” “Pieno”, risponde l’altro, “super
pieno” e si susseguono immagini divertenti e vitali, accompagnate dall’auto
fedele, perché “la vita è là fuori”.
I SUV di oggi inquinano di più delle auto, perché
sono più pesanti e spesso meno aerodinamici, e resteranno in circolazione
nel mercato dell’usato per vent’anni.
L’auto rappresentata è un’auto che torna alla sua
virtualità assoluta, al polo opposto di quella imposta dall’autostrada per come
la descrive Alessandro Mantovani in un suo
articolo sul Tascabile. Se infatti
“l’autostrada è di per sé un’anti-strada, è l’unica a non condurre mai
realmente a nessun edificio, nessuna sede”, i sentieri intrapresi in queste
pubblicità sono potenzialmente tutti e conducono esattamente a ciò che
desideri, perché è l’automobile stessa che ti permette di assecondare la tua
propria strada.
Patrick Le Quément ci riporta quindi a uno sguardo più
ampio sull’intera storia dell’auto: “si è sempre giocato sul fatto che
l’automobile fosse un mezzo per fare quello che chiamiamo porta-a-porta.
Dunque la pubblicità ha sempre rappresentato forme di fuga e di grande libertà,
anche nelle pubblicità degli anni Cinquanta e Sessanta degli Stati Uniti, dove
vediamo le auto col bagagliaio aperto e il sacco da golf pronto. Idealmente
quando saliamo in auto entriamo in un mondo fatto a sé, siamo i soli padroni a
bordo e ce ne andiamo dai problemi della vita e gioiamo di questa
libertà”.
Tuttavia, come si è detto, il mondo che produce
quest’immaginario è un mondo in crisi. “L’auto è minacciata”, chiosa Fanen,
“eppure c’è un punto da tenere a mente, almeno in Francia: chi compra un’auto
nuova ha più di 60 anni. I pubblicitari vendono quindi auto a persone che non
vogliono che il mondo sia meno fatto per le auto. Ci trovo anche un’ansia
climatica. Siamo dentro una sorta di negazione, queste sono pubblicità
ultraconservatrici che vendono il rifiuto di un mondo che cambia”.
Ecosistemi e città
Intanto, i SUV inquinano di più delle auto a loro contemporanee, perché sono
più pesanti e spesso meno aerodinamici. In uno studio della Agenzia
europea per il clima nel 2018 la maggioranza dei nuovi SUV circolavano
a benzina ed emettevano “in media 13 g di CO2 per km in più delle emissioni
medie delle altre auto nuove a benzina”. Inoltre secondo
i dati di Jato Dynamics, quando l’espansione dei SUV in
Europa ha raggiunto una massa critica ha invertito la rotta delle emissioni
medie di CO2, che calavano di anno in anno. Tra il 2018 e il 2019 le emissioni
medie sono cresciute, per attestarsi attorno ai 131,5 g per chilometro
percorso. E il tetto fissato dall’Ue è 95 g/km, oltre cui scattano le sanzioni.
Dunque il successo dei SUV è contraddittorio anche per gli stessi produttori:
“nel sistema europeo di crediti di CO2 la FIAT, per esempio” spiega Fanen “è
costretta a comprare i crediti a Tesla. Tesla non emette CO2 dunque acquista
crediti che rivende ai costruttori più inquinanti. Questo di fatto diventa un
lasciapassare abbastanza goffo e se fossimo rimasti alle berline avremmo
risparmiato tonnellate di CO2 nell’aria.”
Tuttavia nel 2021 le immatricolazioni di auto
elettriche e ibride in Europa hanno raggiunto il 10%. Nell’elettrificazione i
SUV di grossa taglia hanno due vantaggi: tecnicamente sono già pronti per
alloggiare le grosse batterie, e sono più costosi dunque è più facile spalmare
il costo extra dell’elettrificazione. Ma resiste un altro problema, come fa
notare Fanen, e cioè che la diffusione dei SUV è “una bomba a orologeria”. Perché
queste auto possono restare in circolazione nel mercato dell’usato per
vent’anni: “vedremo SUV acquistati da un single o da una giovane coppia che non
ne hanno del tutto bisogno, semplicemente perché è la sola auto che trovano di
seconda mano”. Per arginare il fenomeno dei tentativi legislativi in Francia
sono stati fatti, ancora senza successo.
Ci troviamo all’incrocio di fenomeni di mercato e
culturali che riguardano anche l’ecologia e lo spazio del nostro vivere.
Insomma ci troviamo all’incrocio di fenomeni di
mercato e culturali che riguardano anche l’ecologia e lo spazio del nostro
vivere. Se per 50 anni abbiamo costruito mondi per l’auto di massa e plasmato
quartieri e banlieue, come racconta Coccia, oggi vogliamo meno auto in città.
Ma, contraddittoriamente, ci circolano auto più grosse. “È un modo di dire agli
altri o a sé stessi: non voglio sottomettermi alla città, non voglio che il
mondo cambi”, secondo Fanen. Forse in questo mondo, conclude il designer Le
Quément “il picco dell’auto è passato da tempo e l’automobile ha in verità
abbandonato anche il mondo dei sogni”.
La contraddittoria presenza di un SUV, immobile in
città con la sua massa sproporzionata, ci interroga. Parcheggiato, le sue
fattezze di notte sembrano incoerenti. Prima che la transizione elettrica sia
reale e prima che detti davvero nuove forme di design – o prima che
finalmente si scelgano nuove forme di mobilità collettiva–, se il SUV è davvero
l’ultima sigaretta, sembra però piuttosto la famosa ultima sigaretta di Zeno,
il personaggio di Italo Svevo: ogni volta l’ultima, così che le giornate
“finirono con l’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più”.
da qui