venerdì 31 maggio 2024

I ragazzi hanno mangiato la foglia - Enrico Euli

C’è un modo migliore per togliere ai ragazzi il peso della scuola: dichiarare bancarotta e chiuderla. Inutile e ridicolo proseguire a rendergliela più appetibile, ciurlando nel manico o occhieggiando ai loro presunti bisogni (di meno compiti a casa, di poter usare lo smart phone in classe, di linguaggi più moderni e alla moda, etc etc).

La confusissima ministra che propone la riduzione sperimentale delle ore di scuola media inferiore e superiore e la fine dei compiti a casa per la primaria è la stessa che straparla dell’ennesimo innalzamento dell’obbligo scolastico a diciotto anni. Ministro, lascia perdere, lascia stare. Non ne sai e non ne capisci. La formazione dei giovani ormai passa solo casualmente nelle aule, e solo per obbligo. Se fosse volontario andare a scuola, non ci andrebbero neppure gli insegnanti. Si fanno gli amiconi sulla pelle dei ragazzi, educandoli all’accondiscendenza e alla facilità di poter ottenere tutto quel che vogliono, mentre si accrescono le richieste di competizione, le lotte e la spinta alle gerarchie, e ritorna l’autoritarismo in politica.

Si confonde la democrazia e la libertà con la facilitazione e la riduzione dei conflitti di superficie, mentre si accentuano quelli di classe e tra generazioni, nella loro più terribile e bieca sostanzialità. Mai generazioni intere di giovani sono state tanto traviate e prese per il culo dagli adulti quanto quella attuale. Generazioni che si trovano nel nulla e si troveranno nella guerra, e che non capiranno neppure dove e come ci sono finite, protette dal silenzio e dalla collusione di genitori e insegnanti che proseguono a fare gli struzzi, ad assecondarli nel loro isolarsi tecno-indotto e fottersene di tutto e tutti, per poter fare lo stesso con loro.

Ma non servirà a nulla. I ragazzi hanno mangiato la foglia e sono colmi di cinismo e disincantopermeato soltanto da una melassa sentimentaloide. Sanno di dipendere totalmente dalla famiglia, la parassitano sinché ce ne sarà, e sperano che qualcuno gli dia prima o poi successo e denaro, e non certo per meriti scolastici. Hanno capito che il resto è solo retorica. Che la scuola e l’università se ne fregano degli studenti e non esistono per loro. Anche le riforme che si stanno facendo da tempo servono solo alle aziende, al mercato del lavoro e della finanza, ai calcoli statistici sulla disoccupazione presunta o reale, a quelli che fanno i calcoli sulla pelle dei popoli.

Gli studenti, così come i clienti nel mondo del consumo, sono l’ultima ruota del carro. Devono limitarsi a obbedire e, se possono pagare, a comprare la merda che gli viene propinata per istupidirli sempre di più. D’altra parte, i bisogni sono stati ben costruiti, e i conflitti messi in cantina. La trappola è perfetta e ben studiata, e i dispositivi (in primo luogo proprio gli smart-phone) fanno il loro sporco lavoro.

L’unica scuola sensata sarebbe una scuola tutta centrata sulle relazioni, e sui corpi, una scuola che resiste all’omologazione e alla riduzione della vita a tecnica. E di quanto ne avrebbero bisogno giovani e grandi… E invece la mistificazione continua: ora anche le Università si mettono a parlare di flip lessons (e plof e plaf) per potenziare gli smart skills e compagnia cantante. Il tutto servirà soltanto a svuotare ulteriormente le lezioni e a renderle funzionali all’e-learning: si risparmierà, non ci si incontrerà più, si lavorerà a casa, in gruppi virtuali e in rete, e si andrà a dare l’esame, magari solo con dei test di verifica, e neppure in presenza.

Dietro tutto questo gran parlare di cooperazione e comunicazione, vi è soltanto il fine di far fare all’istruzione l’ulteriore passo verso la sua definitiva trasformazione in un mero assemblaggio di tecnologie didattiche miranti all’efficienza produttiva e alla competizione tra centri di studio e ricerca sempre più specializzati, razionalizzati e post-umani. Mentre cerchiamo di umanizzare i robot (con risultati relativamente scarsi) ci impegniamo per robotizzare il vivente (con esiti davvero rapidi e ragguardevoli).

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giovedì 30 maggio 2024

Internet sta scomparendo, colpa del decadimento digitale – Marco Andreoli


Secondo un’analisi del centro statunitense Pew Research Center, circa il 38% delle pagine web che esistevano nel 2013 oggi non è più accessibile, mentre l’8% di quelle esistenti l’anno scorso non risulta più disponibile. La colpa è da attribuire al fenomeno del decadimento digitale che di fatto sta facendo scomparire una parte di internet. Non sono solo le pagine e i siti web ad essere colpiti da questo fenomeno, ma anche i social.

Lo studio sul decadimento digitale

Nemmeno internet dura per sempre. Centinaia di migliaia di contenuti vengono cancellati, spostati o scompaiono ogni giorno (il famosissimo “error 404” segnala proprio che il contenuto da noi cercato non è disponibile) facendo in modo che internet cambi in continuazione, ma anche facendone scomparire delle parti.

Questo è il cosiddetto fenomeno del “decadimento digitale” cioè quando notizie e contenuti, più o meno importanti che siano, vengono resi inaccessibili dalla rete perché cancellati o rimossi. Un fenomeno pressoché inarrestabile che cancellerà pian piano le notizie più “datate”.

È proprio questo ciò che ha portato alla luce l’analisi del centro di studi statunitense Pew Research Centre. Raccogliendo campioni di quasi un milione di pagine web da Common Crawl, servizio che archivia parti di internetdal 2013 al 2023, si è scoperto che in dieci anni è scomparso circa il 38% delle pagine, compreso circa l’8% di quelle esistenti l’anno scorso. Parliamo di milioni di informazioni che spariscono nel nulla, che mai si potranno vedere di nuovo.

Dunque non sono solo le informazioni più vecchie ad essere cancellate ma anche quelle più recenti. Il decadimento digitale causerà quasi certamente, anche se è impossibile ad ora dire con quale velocità, una scomparsa del web come siamo abituati a conoscerlo.

Un problema trasversale

Gli effetti del decadimento digitale riguardano tutta la rete, dai siti istituzionali a Wikipedia, dai siti di notizie ai social. La perdita di informazioni riguarda tutti.

Quasi un quarto di tutti gli articoli di notizie sul web, il 23%, contiene almeno un collegamento morto (che quindi non rimanda a nulla) anche sui siti più trafficati. Nel caso dei siti governativi statunitensi, il 21% delle pagine ha almeno un link scaduto. Il 54% delle pagine di Wikipedia include nei propri riferimenti un collegamento che non esiste più. Quasi un quinto di tutti i post su X (un tempo Twitter) erano inaccessibili pochi mesi dopo la loro pubblicazione. Nel 60% dei casi, il profilo che ha pubblicato il post è diventato privato, sospeso o cancellato del tutto dalla piattaforma.

Il fenomeno poi è più o meno importante anche a seconda della lingua e del paese, forse a causa della censura: per esempio, oltre il 40% dei tweet scritti in turco o arabo non sono più visibili a tre mesi dalla pubblicazione (ma la censura è presente, sotto forme diverse, anche nei paesi occidentali).

Proprio a causa di questa sempre maggior estensione, il decadimento digitale viene osservato con preoccupazione, ma anche curiosità per i suoi effetti, dagli studiosi. L’esperto di tecnologia Vincenzo Cosenza si è espresso così ai microfoni dell’Ansa in merito a questo fenomeno: ” Nel passaggio dall’era del web statico all’era dei social media, i contenuti vengono creati sempre più per fotografare un momento e poi scomparire, si pensi ai video brevi e alle storie di cui non abbiamo link permanenti. Stiamo costruendo un web del presente di cui non resterà traccia nel futuro. Un web che è come un mandala che si distrugge dopo averlo creato”.

La direzione presa dal web sembra allora essere chiara. Un internet più effimero e meno focalizzato sulla trasmissione della conoscenza, che punta soprattutto alla condivisione del presente. Un internet diverso. Vedremo allora quanto tempo occorrerà per veder compiersi in pieno l’opera del decadimento digitale.

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mercoledì 29 maggio 2024

Da grande farò lo spazzino - Alessandro Ghebreigziabiher

  

Immaginiamo un gruppo di bambini. Qualora prestassimo orecchio, banalmente sentiremmo parlare di speranze e sogni. Che il più delle volte, a causa del peso dell’età, concorderemmo nel ritenerli al meglio ingenui. Soprattutto per quanto riguarda le singole aspirazioni. Tra le più gettonate, io sarò un astronauta e io diventerò una scrittriceio presidente della Repubblica e io un’affermata stella del rock, io solo famoso e io, con simile praticità, tanto riccaDi certo, farebbe rumore se uno di loro esclamasse a gran voce: “Da grande farò lo spazzino”.

Si dà il caso invece che è proprio ciò che Mateo De La Rocha disse da piccolo ai suoi familiari in Bolivia e il motivo era semplice: ai suoi occhi, tutt’altro che ingenui, lo spazzino era l’unico che vedeva fare qualcosa contro l’inquinamento. In seguito, Mateo e la sua famiglia si sono trasferiti negli Stati Uniti, precisamente nella città di Cary, nella Carolina del Nord e oggi, giunto all’ultimo anno delle superiori, ha deciso di dare concretezza alla presunte ingenuità di allora. Dopo aver coinvolto nell’impresa due suoi compagni di studi, Lila Gisondi e Sebastian Ng, si è dedicato a un’iniziativa a dir poco lodevole, se non urgente: chiudere un pozzo petrolifero abbandonato in Ohio, arrivando a raccogliere ben 10.000 dollari.
Secondo l’Environmental Protection Agency, negli Stati Uniti sono 3,9 milioni i pozzi di petrolio e gas abbandonati e invecchiati. Molti di essi perdono metano, un gas serra che è quasi 30 volte più potente dell’anidride carbonica nell’intrappolare il calore nell’atmosfera per un periodo di cento anni, e ancora più potente su periodi di tempo più brevi. Un problema mondiale, non solo degli Usa.

Secondo un rapporto Reuters nel mondo i pozzi definiti orfani e quindi estremamente dannosi e pericolosi sono circa 29 milioni. Solo sotto la superficie dell’acqua del Golfo del Messico se ne calcolano almeno 27.000. Otre alle emissioni gas che incidono sull’effetto serra, c’è anche il grave aspetto dell’inquinamento, con il rilascio di sostanze cancerogene nelle falde acquifere.

Che dire allora dell’Italia? Ebbene, dati risalenti al 2022 ci dicono che su 1.298 pozzi che raggiungono in profondità giacimenti di gas o petrolio sono più della metà quelli chiusi, ovvero 752. Le ragioni sono molteplici, magari perché il giacimento è esaurito, o perché il possibile guadagno non pareggiava i costi, perché la produzione richiedeva ulteriori investimenti che l’azienda incaricata non era in grado di coprire, oppure perché erano state violate le norme per lo sfruttamento.

In ogni caso le conseguenze e i rischi sono particolarmente elevati, fino a parlare di una vera e propria calamità naturale, come nel caso dello smaltimento delle acque di produzione in un pozzo dismesso nel 1988 in Molise.

Ovviamente, invece di preoccuparsi dell’effetto serra e dell’inquinamento, ci si sofferma di più su come guadagnarci ulteriormente da questi enormi buchi nel cuore del pianeta che ci ospita.

Così, per quanto riguarda il nostro Paese, non posso fare a meno di tornare a immaginare. A chiudere gli occhi e a figurarmi di nuovo un gruppo di bambini, sperando non solo che alcuni di essi si augurino di fare gli spazzini da grandi e rimedino ai danni compiuti dalle sciagurate generazioni che li hanno preceduti. Perché se proprio devo sognare anch’io, mi piacerebbe che nessuno di loro fosse costretto a farlo, ecco.

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martedì 28 maggio 2024

La Terapia del Viaggio: fornire sollievo alle sofferenze dei malati di Alzheimer - Lucrezia Ciotti

 

La Terapia del Viaggio è una delle terapie non farmacologiche adottate per favorire il benessere dei malati affetti da vari tipi di demenza. Prendere un autobus o un treno per ritornare a casa è, spesso, il desiderio che maggiormente viene espresso dai pazienti affetti della sindrome di Alzheimer. A tal proposito, con la Terapia del Viaggio, viene ricreata l’ambientazione di un treno, all’interno di una Residenza Sanitaria Assistenziale, nella quale vivere virtualmente questa esperienza. Attraverso questa esperienza, il paziente riduce il suo stato d’ansia ed è rassicurato di essere nel posto giusto per poter tornare a casa.

Ivo Cilesi e le terapie non farmacologiche

L’iniziativa è nata dopo un’attenta analisi e riflessione su cosa potesse aiutare i malati di Alzheimer, portando loro conforto e aiutoIvo Cilesi, esperto di terapie non farmacologiche, ma anche pedagogista e musicoterapeuta, ha passato tutta la sua vita a cercare di lenire le sofferenze dei pazienti affetti da demenza e Alzheimer attraverso nuovi progetti: la Terapia del Viaggio e la cosiddetta Doll Therapy, in grado di gestire le difficoltà comportamentali e stimolare l’area cognitiva dei degenti.

Ivo Cilesi è venuto a mancare, all’ospedale di Parma, nel marzo 2020, in seguito ad una crisi respiratoria dopo il ricovero per la positività al Covid. Tuttavia, lo si ricorda, appunto, per la sua vita professionale caratterizzata da una forte attenzione per i problemi clinici delle persone affette da demenza: credendo ai risultati delle terapie non farmacologiche, metodi innovativi ed alternativi.

La Terapia del Viaggio: un trattamento alternativo per i malati di Alzheimer

La Terapia del Viaggio o trenoterapia, ideata nel 2009 come trattamento alternativo alle tradizionali terapie farmacologiche, si è dimostrata efficace nel fornire sollievo alle sofferenze dei malati di Alzheimer e di altre forme di demenza senile. Oltre a mantenere vive le capacità cognitive, non ancora compromesse dalla malattia, l’approccio si è rivelato utile nel contrastare sintomi tipici come: stati di agitazioneaggressività e comportamenti come il wandering, cioè la tendenza a vagare senza meta.

La Terapia del Viaggio, Cilesi, la descriveva così:

«Per i pazienti che si distaccano dalla realtà, essere proiettati in un viaggio ideale significa entrare nel presente e dimenticare il proprio malessere. Vivendo un rituale, fatto di preparativi e attese, ci si immedesima nella tensione verso una nuova meta. Abbiamo osservato comportamenti meno ansiosi, meno agitazione, in genere, e più presenza».

Attraverso questa terapia viene simulata l’esperienza del viaggio in treno che fa da contenitore affettivo e relazionale, permettendo di raggiungere la parte emotiva della persona in un luogo strutturato e sicuro.

Nel viaggio la persona si rilassa, attiva i ricordi, le relazioni e i contatti, oltre che sperimentare la fuga, il viaggio verso casa o verso un luogo desiderato. Per giunta, tale situazione può essere utilizzata anche dal professionista come strumento per stimolare le funzioni cognitive. Per tali motivi, non è importante né il punto di partenza né quello di arrivo, ma è il viaggio stesso ad avere una fondamentale azione terapeutica.

L’organizzazione della Terapia del Viaggio per i pazienti affetti da Alzheimer

Dentro le aree della quotidianità di una Residenza Sanitaria Assistenziale, in uno spazio dedicato, si realizza su misura uno scompartimento e viene organizzato il programma del viaggio. È fondamentale l’organizzazione dell’ambiente collegata ad una precisa metodologia: ci sono disturbi comportamentali difficilmente gestibili entro uno spazio; spesso è proprio lo spazio chiuso e contenitivo a rafforzare i disturbi psico-comportamentali, man mano che aumentano le difficoltà di riconoscimento della realtà vissuta.

Dalla partenza, con la timbratura dei biglietti, i pazienti vengono poi fatti accomodare nei posti all’interno del vagone, tenendo in considerazione che è essenziale realizzare una corrispondenza veritiera nell’allestimento del contenitore poiché, è bene ricordare che, per il paziente si tratta di un viaggio reale. A tal proposito, è fondamentale la fase preparatoria del viaggio, che comprende i colloqui preliminari con la famiglia di ogni degente al fine di raccogliere informazioni sugli eventi vissuti dal malato nel passato.

In questo modo, il treno potrà percorrere i luoghi della sua infanzia, attraverso il suo paese d’origine, ma anche semplicemente accanto a paesaggi a lui cari. Ogni minimo particolare deve essere scelto e correttamente posizionato, per essere evocativo ad una vera stazione ferroviaria: sala d’attesa, biglietteria, indicazioni segnaletiche, tabellone partenze e sedili; solo a questo punto è possibile dare inizio al percorso con alla guida del mezzo un operatore esperto.

Inoltre, il tipo di viaggio viene scelto partendo dal vissuto dell’ospite: viaggi a tema mare, montagna, città, campagna o altre tipologie, in base ad altre valutazioni che gli operatori considerano prioritarie. L’ambiente rievoca ogni dettaglio: i suoni del convoglio che viaggia sulle rotaie e le immagini dei luoghi proiettate sul finestrino laterale, rappresentato da un televisore e occultato come fosse proprio il finestrino del treno.

Dunque, l’esperienza della Terapia del Viaggio serve per stimolare nei pazienti il dialogo, la capacità di attenzione, oltre che risvegliare le emozioni positive connesse ai momenti del passato, facilitandone il rilassamento e i ricordi, che emergono durante il viaggio, sono poi impiegati a livello medico per la stimolazione cognitiva.

È bene ribadire, in conclusione, che la Terapia del Viaggio non ha lo scopo di sostituire le cure farmacologiche, ma si va ad aggiungere ad esse per favorire un miglioramento dell’umore stimolando l’attivazione di emozioni positive, utile, quindi, a diminuire la quantità di farmaci da assumere.

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lunedì 27 maggio 2024

L’economia è reale: così vince la Cina - Piergiorgio Ardeni e Francesco Sylos Labini

 

IL DOPPIO ERRORE DELL’EUROPA – Affidarsi al credo neo-liberista con l’idea che le avrebbe assicurato primato e benessere duraturi, e rinunciare al ruolo di ponte tra l’alleato Usa e il mondo emergente


Nel loro recente viaggio a Pechino, tanto il premier tedesco Scholz quanto la segretaria al Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen hanno rimproverato Xi Jinping perché la Cina avrebbe sovra-investito in alcuni settori, come i veicoli elettrici, i pannelli solari e le batterie, ben oltre le possibilità di assorbimento del suo mercato interno, per poter così inondare i mercati globali con beni più competitivi. Entrambi hanno affermato che non accetteranno che le loro industrie vengano messe all’angolo solo perché i prodotti cinesi possono godere di più bassi costi di produzione.

Secondo i cinesi, tali affermazioni sono prive di fondamento, aggiungendo che l’ascesa della Cina in questi settori è stata guidata, tra l’altro, dall’innovazione e da catene di forniture che hanno reso il sistema di produzione cinese più competitivo. La guerra commerciale tra i Paesi occidentali e la Cina sembra diventare ogni giorno più “calda”, ponendo le basi per un confronto militare, in linea col noto detto di Von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi.

Le radici strutturali di questa situazione affondano negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e sono alla radice della “globalizzazione”. I Paesi occidentali ne hanno tratto grande beneficio: il capitale ha potuto svincolarsi dai confini nazionali, eludendo ogni tassazione, i sistemi di produzione si sono fatti globali ed è il costo del lavoro che più ha subito la concorrenza “al ribasso” data dalla spinta competitiva. L’economia finanziaria è cresciuta a dismisura, grazie a investimenti che fino al 2008 almeno, hanno avuto ritorni più alti di quelli nell’economia reale. Con la globalizzazione, le industrie dei Paesi occidentali hanno delocalizzato nei Paesi a più basso costo del lavoro. La Cina ha guidato il processo, guardando bene che ciò avvenisse acquisendo tecnologia e un aumentando il proprio capitale umano, un processo che, accompagnato da un investimento crescente in ricerca, sviluppo e istruzione, le ha permesso di fare un salto qualitativo guadagnandosi una posizione dominante in tutti i macrosettori ad alto valore aggiunto: se alla fine degli anni Novanta i beni cinesi inondavano i mercatini della domenica ora la Cina domina i mercati dell’informatica, delle auto elettriche e di molti altri settori ad alto contenuto tecnologico.

La storia di Stati Uniti ed Europa è speculare: per anni hanno delocalizzato una parte rilevante della loro struttura produttiva perdendo capacità ingegneristiche tecniche e manifatturiere che richiedono decenni per essere costruite. Le scelte compiute secondo il credo neoliberista del “va dove ti porta il mercato” si sono così sono rivelate fallimentari e oggi la Cina, che ha investito nella produzione reale e molto meno in finanza, ha un grande vantaggio competitivo: può vantare il superamento degli Stati Uniti come leader mondiale nella domanda di brevetti e nel numero di pubblicazioni scientifiche, indicatori di una economia in salute e in pieno sviluppo. Un aspetto fondamentale dell’economia americana è oggi la concentrazione del capitale finanziario in poche mani. Grazie alla loro posizione centrale nella finanzia globale, i tre più grandi fondi di investimento Usa gestiscono da soli quattro volte il Pil della Germania, controllano 4 azioni su 10 delle principali società statunitensi e possono condizionare ogni tipo di attività: produzione, distribuzione di beni e servizi, trasporti, cure mediche, ricerca, etc.

La differenza tra l’economia finanziarizzata, guidata da finanzieri, avvocati e lobbisti, e quella reale, in cui servono ingegneri, competenze e risorse naturali, si è resa palese ed è la causa degli squilibri in atto.

Anche l’errore di valutazione sulla resilienza russa alle sanzioni economiche – e la direzione dei flussi commerciali – ha qui le sue radici.

Come afferma Emmanuel Todd, la guerra in Ucraina è una questione secondaria in una storia molto più grande: quella della battaglia in corso tra una potenza egemonica globale in declino, gli Stati Uniti e con loro i Paesi occidentali, e una in ascesa, la Cina e con essa l’India e gli altri emergenti. La guerra ucraina doveva ridimensionare la Russia, consolidando il blocco “atlantico” attorno agli Stati Uniti, necessario per sostenere la potenza americana contro la Cina, tagliando anche legami commerciali fondamentali per l’Europa. Strategicamente, però, la guerra ha avvicinato la Russia alla Cina, che è il vero concorrente per l’egemonia. C’è però da dubitare che la Cina voglia davvero prendere il ruolo oggi degli Usa. La Cina sta ottenendo l’egemonia globale sul piano economico, ben più solido ed esteso di quello militare, mentre l’Europa ha sbagliato due volte: affidarsi al credo neo-liberista, pensando che le avrebbe assicurato il primato sul mondo e un benessere duraturo, e rinunciare a un ruolo di ponte tra l’alleato americano e il mondo emergente oltre le sue frontiere. Sarà su questo che si giocheranno i prossimi confronti che dovranno tenere conto del nuovo assetto economico mondiale in cui l’Occidente, e l’Europa in particolare, dovrà necessariamente ridimensionare il suo ruolo.

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domenica 26 maggio 2024

C’era una volta la sanità pubblica - Michele Bocci

 

Anche dopo anni di discussioni su maxi ambulatori con dotazioni tecnologiche, su servizi a domicilio, su centri di riabilitazione o di chirurgia senza ricovero, il luogo simbolo della cura del malato resta sempre lo stesso: il letto ospedaliero. È il centro di gravità permanente attorno a cui ruota l’assistenza ma in Italia è sempre più raro. I dati degli ultimi vent’anni raccontano di una riduzione del 22% dei posti nelle strutture pubbliche e di una maggiore tenuta delle private convenzionate, che nello stesso periodo hanno visto un calo del 12%. E se si osservano solo gli ultimi 12 anni, i letti delle cliniche private sono praticamente stabili. I tagli non le hanno toccate.

In assoluto, dal 2002 al 2022 gli ospedali hanno perso oltre 50 mila letti. Tra l’altro il calo dei posti è destinato a salire perché nell’ultima rilevazione risentiva ancora degli effetti del Covid, quando sono state aperte molte degenze che le Regioni stanno chiudendo. E infatti tra il 2020 e il 2022, certificano i numeri del ministero alla Salute, c’è stato un primo calo importante. Se la tendenza dovesse proseguire a fine 2024 si arriverà a 80 mila letti in meno rispetto a vent’anni prima.

La situazione nelle Regioni

Il taglio dei posti, perseguito negli anni anche attraverso provvedimenti legislativi, non rappresenta di per sé una cosa negativa. Si tratta di un fenomeno complesso e per valutarlo bisogna tenere conto di più fattori. Il presupposto è che con il progresso della medicina si sono ridotti i tempi di degenza per alcune patologie, ad esempio ci sono interventi chirurgici che richiedono un ricovero molto più breve di un tempo. Poi bisogna calarsi nella realtà italiana, dove la qualità dell’assistenza varia tra le Regioni. Ad esempio, in Piemonte e in Basilicata ci sono 3,7 letti per mille abitanti, in Calabria 2,2 e in Sicilia e Campania 2,6 (ma gli ospedali convenzionati sono numerosi). Eventuali interventi dovrebbero tenere conto di queste differenze. Non solo, i tagli hanno prodotto effetti diversi nelle varie specialità e il risultato è che ci sono più carenze in certi settori, come la medicina interna e la geriatria.

Il resto del mondo

Per valutare la situazione italiana vale la pena anche osservare cosa succede nel resto del mondo, tenendo conto che, in base a statistiche internazionali, la nostra sanità pubblica resta comunque tra quelle che, non senza problemi, raggiungono buoni punteggi in molti degli indicatori sullo stato di salute dei cittadini. Secondo l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, da noi nel 2021 c’erano 3,1 letti pubblici per mille abitanti, meno che in Giappone (12,6), Germania (7,8), Ungheria (6,8), Francia (5,7), Grecia (4,3) e Portogallo (3,5). Ma un numero inferiore di posti li hanno Spagna e Olanda (3), Usa (2,8), Regno Unito (2,4) e Svezia (2).

“Ci vorrebbero 35 mila letti in più”

Secondo Piero Di Silverio, che guida il sindacato dei medici ospedalieri Anaao, ci vorrebbero 35 mila posti in più, ovviamente tenendo conto dei settori più in crisi. “Quello che succede nei pronto soccorso, dove spesso restano a lungo pazienti che non trovano spazio nei reparti, fa comprendere che il problema c’è”. Appare invece enorme, e quindi sovrastimato, il dato diffuso dal Forum delle società scientifiche, secondo il quale mancherebbero, a detta del suo presidente Francesco Cognetti, addirittura 100 mila letti.

Le difficoltà delle medicine interne

“Il sistema doveva un po’ dimagrire ma non così tanto”. A parlare è Nicola Montano, presidente della Simi, la Società italiana di medicina interna: “Ci vogliono un po’ più di letti ospedalieri e bisogna ripristinare tanti di quelli di bassa intensità, anche di lungodegenza, che un tempo esistevano”. Secondo il medico va però valutata la situazione settore per settore. “Noi abbiamo problemi, come evidenzia un nostro studio fatto con la Fadoi, la federazione degli internisti ospedalieri, dove si dimostra che nelle medicine abbiamo tra i ricoverati il 20-25% di “bed blockers”, cioè persone che tengono occupato un posto ma potrebbero essere dimesse. Succede perché non ci sono abbastanza strutture a bassa intensità e a casa non possono tornare”. Servirebbero più letti, dunque, ma aprirli non è facile. “Sarebbe difficile farli funzionare per la carenza dei medici, e soprattutto degli infermieri, in certe specialità”, dice Montano.

I chirurghi: “Siamo pochi”

Uno dei settori dove iniziano a scarseggiare i professionisti è la chirurgia. Per Vincenzo Bottino, presidente Acoi, l’associazione dei chirurghi ospedalieri, “quello degli organici oggi è il nostro problema principale. Ben il 56% delle borse di studio di specializzazione in chirurgia quest’anno è andato perso. Rischiamo una desertificazione delle sale operatorie”. Secondo Bottino, riguardo al numero di letti “ci riferiamo a un piano nazionale ospedaliero vecchio, che non tiene conto delle nuove esigenze e patologie. Andrebbe fatta una rimodulazione dei posti letto. Non ce ne vorrebbero tanti di più, bisognerebbe però organizzare meglio il sistema”.

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sabato 25 maggio 2024

La mortalità indotta dall’uomo per i grandi uccelli migratori

È di recente pubblicazione sul n. 293 della rivista scientifica Biological Conservation la ricerca “Tracking data highlight the importance of human-induced mortality for large migratory birds at a flyway scale”.

L’indagine – condotta da uno staff di 162 fra ricercatori di università e istituti pubblici ed esperti di organizzazioni ambientaliste provenienti dall’Europa, dall’Africa, dal Medio Oriente, e dalle Americhe – ha analizzato il destino di 4.097 uccelli migratori (rapaci, avvoltoi, cicogne, gru) sulla rotta africano-eurasiatica nel periodo 2003/2021.
Si tratta di uccelli dotati di trasmettitori perché già seguiti da studi di monitoraggio, appartenenti a 45 specie, fra cui molte protette, a rischio e vulnerabili, come il Grifone, il Gipeto, il Capovaccaio, l’Aquila Fasciata, l’Aquila Imperiale Orientale, e tante altre presenti nella red list delle specie minacciate dell’International Union for Conservation of Nature.

Fra gli uccelli monitorati i ricercatori hanno identificato 1704 eventi di mortalità, di cui 1030 avevano una causa nota, in 637 casi indotta dall’uomo. Per quest’ultima categoria, quasi la metà delle cause di morte è attribuibile alla folgorazione/collisione con infrastrutture energetiche.
La maggior parte degli eventi mortali avvengono in Europa: il 65% dei decessi per tutte le cause, il 70% di quelli causati dall’uomo.
Per quanto il numero degli uccelli considerati sia limitato in termini assoluti, a fronte delle centinaia di migliaia di migratori che attraversano ogni anno i continenti, il dato sulla tipologia prevalente di morte è importante per riportare l’attenzione sull’impatto delle nostre infrastrutture energetiche sulla fauna selvatica, già ampiamente decimata dalla distruzione degli habitat e della catena alimentare, dalla caccia (legale e illegale che sia), e da varie forme di inquinamento e avvelenamento.

Nel discorso pubblico sul nostro presente e futuro energetico, il contributo delle infrastrutture all’estinzione di intere specie non è in nessun modo all’ordine del giorno.
Non è all’ordine del giorno la modifica degli elettrodotti presenti e futuri per la messa in sicurezza dei migratori dal rischio di folgorazione, non è all’ordine del giorno l’imposizione di un divieto reale di installare parchi eolici ed elettrodotti sulle loro rotte.
E non rappresentano certo un deterrente normative blande e mai applicate veramente, sempre a rischio di revisione al ribasso. Per quanto riguarda il Belpaese, si stanno moltiplicando le domande di installazione di nuovi parchi eolici, con pale alte oltre 200 metri, sui crinali appenninici o sulle isole (per la Sardegna in particolare si prefigura un vero stato d’assedio), e dei relativi elettrodotti a servizio.

Spuntano progetti in luoghi sensibili per l’avifauna migratoria, la cui valutazione di impatto ambientale è fatta col copia incolla di documenti redatti esplicitamente per altri territori, giusto per farne capire l’accuratezza. Al contempo, in tempi di passaggio forzato al mercato libero dell’energia, sbocciano offerte “green” i cui etici gestori si permettono pure di ridicolizzare il problema (*).

Proponiamo oggi la traduzione di alcune parti della ricerca pubblicata da Biological Conservation (qui la versione integrale in inglese, liberamente scaricabile e con licenza Creative Common), sperando di non ritrovarci un giorno a dover spargere lacrime di coccodrillo davanti alle immagini delle specie sacrificate sull’altare di questo modello di sviluppo. (Ecor.Network)...

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venerdì 24 maggio 2024

Atacama Fashion Week: quando la moda sfila in discarica - Marina Savarese

 

Nessuna passerella scintillante, niente luci e nessun tipo di sfarzo. Solo la poca terra del deserto che ancora rimane scoperta e la grande quantità di vestiti abbandonati in quel che un tempo era un luogo scenografico famoso per la sua naturale bellezza. Adesso, a fare da scenografia alla Atacama Fashion Week non ci sono più le dune, ma montagne di vestiti gettati al suolo, che hanno consacrato questo luogo trasformandolo in una gigantesca discarica a cielo aperto, visibile anche dallo spazio. Ed è in questa cornice spaventosa e surreale, ma purtroppo iper-realistica, che è andata in scena la sfilata organizzata dall’ONG Desierto Vestido in collaborazione con Fashion Revolution Brazil e Artplan, dove modelle e modelli hanno calpestato una passerella circondata di monnezza.

Un modo per portare luce sul problema, mostrando l’impatto devastante del sistema moda sia sull’ambiente sia sulle comunità locali; utilizzando il sito stesso come cornice insolita ed i rifiuti come parte della possibile soluzione. Gli abiti in passerella, disegnati dalla stilista Maya Ramos, sono stati creati partendo proprio dai materiali recuperati dalle discariche, che vengono reintegrati nel mondo della moda grazie alla creatività di designer illuminati. La collezione, infatti, si ispira ai quattro elementi (terra, aria, acqua e fuoco): un omaggio a quel Pianeta che stiamo consumando e inquinando, e nello stesso tempo una forma di denuncia a quel sistema di moda veloce che, invece di portare bellezza, sta devastando e depredando. L’ Atacama Fashion Week ha come l’obiettivo quello di sensibilizzare l’opinione pubblica, ma anche di raccontare nuove vie possibili, quelle dove i rifiuti possono diventare una forma d’arte, un mezzo di denuncia e nuovi abiti da inserire nell’armadio.

Il problema di Acatama (e del colonialismo)

Ogni anno, in Cile, arrivano circa 60.000 tonnellate di abiti usati, dei quali più della metà finiscono illegalmente in discariche a cielo aperto (se ne contano circa 160). I rifiuti tessili, spesso vengono bruciati illegalmente, immettendo nell’atmosfera fumi tossici che hanno pesanti conseguenze sia sulla salute delle persone che vivono nelle aree circostanti sia sulla salute del suolo. Un rilascio a getto continuo, dove a poco sono servite le sanzioni introdotte dalle autorità locali. E ancora a meno è servita la famosa “responsabilità estesa del produttore” che, in territorio cileno, non include la gestione del tessile, lasciando quest’ultima in preda alla più totale illegalità.

Non a caso, nel 2022, è stata avviata una causa dall’avvocato Paulin Silva presso il Primo Tribunale Ambientale, per indagare sulle responsabilità locali e statali delle discariche in questione. L’accusa al Tesoro dello Stato e al Comune di Alto Hospicio è quella di non aver tenuto sotto controllo in maniera adeguata le zone periferiche dove si sono andate ammassando, nel corso degli ultimi 20 anni, tonnellate su tonnellate di vestiti usati. Il gioco dello scarico delle responsabilità è iniziato subito, dove il comune sostiene che il problema è ormai troppo grande per poter risolverlo da solo, reclamando l’aiuto dello Stato che, a sua volta, ha rimbalzato la responsabilità sul Comune. Una gara all’ultimo rimpallo, dove, in ultimo luogo, entrano in ballo anche le aziende mondiali che dovrebbero occuparsi dei loro rifiuti proprio grazie alla famosa EPR.

Il problema della gestione, dunque, non è solo locale, ma globale, dato che il sud del mondo viene usato come cestino della spazzatura da un Occidente sempre meno attento agli altri e sempre più orientato ai propri interessi. Una forma di razzismo ambientale e di colonialismo in piena regola, dove i Paesi ricchi si sentono in diritto di devastare a cuor leggero le comunità meno forti dall’altra parte dell’emisfero. E dove, a cuor leggero, si comprano e si buttano (ancora) centinaia di migliaia di vestiti ogni anno.

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giovedì 23 maggio 2024

Le sostanze anti-cancro di frutta e verdura

 






Dieta anti-cancro: il cibo incide per il 40% sui tumori, l'alcol su quelli al seno. Cosa non dobbiamo mangiare

Alessandra Longhi, oncologa dell'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna: "No a zuccheri, proteine animali e alcol, sì a vegetali"

 

Ormai è da anni che si sa. I tumori si nutrono di zuccheri e grassi animali, limitarne il consumo ci aiuta a prevenire il cancro. La dieta infatti incide su circa il 40% dei tumori e l'alimentazione in relazione al cancro è un argomento sempre più sentito, infatti oggi più del 50% dei pazienti, dopo la diagnosi di tumore, chiede cosa può fare per favorire la guarigione, specie in relazione alla dieta.

Il parere dell'esperta

Alessandra Longhi, oncologa dell'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna in occasione di un incontro su "Alimentazione e tumori", presso la Casa della cultura di Calderara di Reno, organizzato da "Incontri di scienza e di vita a Calderara". Centrale per la prevenzione del cancro, nonché anche per ridurre il rischio di recidive dopo un primo tumore, è mantenere un peso corporeo sano e fare esercizio. Per quanto riguarda la dieta è importante prediligere i cereali integrali, le verdure, la frutta, evitando i cibi ipercalorici, le bevande zuccherate, i cibi ricchi di sale, gli insaccati, le bevande alcoliche che incidono ad esempio sul tumore al seno.

Zuccheri e grassi

La dieta, inoltre, deve essere ricca di fibre e povera di grassi e proteine di origine animale, povera di zuccheri e cibi che aumentano la glicemia. Gli zuccheri, spiega Longhi, favoriscono la presenza di un fattore di crescita - il fattore insulino-simile, che stimola la crescita tumorale; inoltre i tumori consumano tantissimo zucchero, quindi una dieta ricca di zuccheri ne aiuta la crescita. Uno studio ha dimostrato che più la glicemia è bassa, minore è il rischio di cancro al seno. Anche il rischio di recidive è più alto per chi beve bibite zuccherate. Il diabete, quindi, è a sua volta un fattore di rischio per il cancro. Il fattore di crescita insulino-simile può essere ridotto mangiando meno, mentre la sua concentrazione aumenta nelle diete ricche di proteine di origine animale.

Latte sconsigliato

Il latte è sconsigliato nei pazienti oncologici. Non a caso il consumo di latte aumenta il rischio di tumore della prostata e dell'endometrio. Anche carni rosse ricche di grassi saturi sono collegate al rischio di cancro di prostata e seno, in quanto esercitano una azione pro-cancerogena. Infatti, sottolinea l'oncologa, vegani e vegetariani sono meno a rischio tumori. Il 40% dei tumori, inoltre, è in relazione all'obesità.

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mercoledì 22 maggio 2024

La scintilla che dà fuoco alla prateria. Intifada studentesca negli USA e nel mondo - Antonio Minaldi

 

La solidarietà nei confronti della Palestina si diffonde in tutti gli atenei del mondo, ma continua ad avere il suo cuore pulsante nelle università americane, dove in realtà ha anche avuto origine.

Per chi, come il sottoscritto, può vantare, come ha detto qualcuno, “il triste privilegio dell’età”, il pensiero non può non tornare agli anni Sessanta e al ruolo fondamentale che gli studenti americani ebbero nel denunciare la protervia imperialista della guerra del Vietnam, dando un contributo essenziale alle rivolte globali che caratterizzarono quegli anni lontani. Speriamo che la storia possa ripetersi.

Oggi, come allora, negli USA, l’anima dei movimenti di protesta non affonda le proprie radici nella tradizione socialista e marxista, come generalmente avviene in Europa, quanto piuttosto in una interpretazione radicale dei valori della cosiddetta “sinistra liberal”.

In verità, nel corso di questi ultimi tristi decenni in cui si è affermato, in modo sempre più invasivo e vincente, il modello neoliberista, il pensiero e il movimento liberal sono stati costretti a subire arretramenti e sconfitte, ma non sono stati mai del tutto cancellati, neppure nelle loro espressioni di maggiore opposizione al sistema.

Al centro dell’interesse si sono poste soprattutto le tematiche legate alla lotta per la difesa dei diritti e a fianco delle minoranze oppresse ed escluse. Innanzitutto le battaglie contro il razzismo nei confronti dei neri e degli immigrati ispanici, quelle delle comunità LGBTQIA+, e di recente la difesa del diritto di aborto, pesantemente messo in discussione. Ed ancora e più in generale le questioni ambientali e del cambiamento climatico come temi centrali legati alla stessa sopravvivenza di lungo periodo del genere umano.

Quello che tuttavia ha costituito, in questi anni recenti, un intrinseco elemento di debolezza dei movimenti d’oltre oceano è stata la mancanza di una prospettiva globale di sostegno alle lotte contro il dominio dell’Occidente. Una mancanza grave che ha impedito ai movimenti di protesta nati negli USA (ma in genere in tutto l’Occidente) di potere dialogare con le iniziative di lotta sviluppatesi nel resto del mondo, cercando in tal modo di avere una prospettiva ed un respiro globali.

D’altra parte va anche sottolineato come, anche a causa della crisi generalizzata della sinistra marxista, l’opposizione allo strapotere USA in ambito geopolitico ha molto spesso assunto il carattere dello scontro tra entità statali e tra interessi capitalistici più che quello della liberazione dei popoli. Una situazione che ha reso obiettivamente difficile uno schieramento dei fronti in una prospettiva internazionalista che fosse in grado di andare oltre il contesto specifico.

La vicenda della Palestina ha sparigliato le carte, ed è un dato veramente positivo potere constatare che i giovani universitari americani hanno saputo cogliere l’occasione per fare rivivere (speriamo non in modo effimero) il passato più radicale. Quello che animava di spirito internazionalista le lotte dei loro padri (o forse dei loro nonni) nella opposizione alla guerra del Vietnam.

Ma c’è ancora un altro aspetto delle attuali mobilitazioni nelle università americane che va sottolineato con forza. Si tratta della presenza massiccia dei giovani della comunità ebraica. Qualcosa che, per la verità, non dovrebbe apparire poi così sorprendente se si considera la storia della presenza ebraica nel mondo a stelle e strisce.

La comunità ebraica ha sempre rappresentato una componente fondamentale della sinistra liberal americana, anche di quella più radicale. Basterà citare, a puro titolo d’esempio, come negli anni Venti e Trenta del secolo passato, gli ebrei, in particolare (ma non solo) quelli di origine russa, venivano guardati con sospetto perché considerati dei simpatizzanti del bolscevismo e della rivoluzione d’ottobre. La situazione si è poi fortemente complicata con la nascita dello Stato di Israele, che originariamente veniva visto da molti, seppure in modo confuso, come una possibile conquista di libertà.

La brutale aggressione perpetrata oggi dallo Stato ebraico nei confronti di Gaza e della Palestina, con i suoi terribili caratteri di genocidio e di pulizia etnica, hanno prodotto nella comunità ebraica statunitense una profonda frattura, con ogni probabilità insanabile, e che era comunque ormai da tempo strisciante, tra “ebrei liberal” ed “ebrei sionisti”.

La nascita di un movimento ebraico con un chiaro posizionamento antisionista è un fatto della massima importanza perché permette di smascherare la narrazione perpetrata da Israele che pretende di classificare come antisemita ogni espressione critica nei confronti delle sue scelte e delle sue politiche. Non è un caso che i governanti dello Stato ebraico, senza alcun timore di cadere nel ridicolo, abbiano tentato di screditare le occupazioni dei campus universitari statunitensi paragonandole alle manifestazioni antisemite delle università tedesche all’epoca del nazismo.

È sempre molto difficile capire la portata storica degli avvenimenti mentre sono in corso. Non ci resta che sperare che quella che è stata definita l’intifada studentesca (degli USA e del resto del mondo) divenga, come si sarebbe detto una volta, la scintilla che dà fuoco alla prateria.

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