Circa 150
mila abitanti, meno del Municipio I di
Roma Capitale.
Cagliari,
veduta da Castello in direzione di S. Elia
Qualità
della vita molto buona, fra mare, spiagge, zone umide, promontori e
Maestrale.
Nonostante
chi l’amministri da tempo, almeno questa è l’impressione di un gran
numero di cagliaritani.
Però, forse,
i cagliaritani sbagliano.
Gli
intendimenti del sindaco Paolo Truzzu e del suo assessore al
blocco del traffico Alessio Mereu devono esser invece nobilissimi,
costringere ecologicamente i cagliaritani e le migliaia di
sardi e turisti che giungono quotidianamente in città ad abbandonare l’auto (ma
anche i mezzi pubblici) insieme a ogni speranza di decenza e, soprattutto, dare
nuovo impulso all’economia creando pollai.
Tanti pollai,
pronti ad accogliere i polli che avranno il coraggio di
votarli nuovamente.
Nel veronese la siccità ha provocato una grave crisi che ha costretto la
metà dei comuni a razionare le risorse idriche. Invece lo stabilimento della
multinazionale non ha rallentato la sua produzione.
La mattina di sabato 9 luglio alcune
centinaia di attivisti della rete ecologista Rise up 4 climate justice,
arrivati alla stazione di Nogara da tutto il Veneto, si sono incamminati verso
la zona industriale del paese. Erano diretti allo stabilimento della Coca-Cola
per protestare contro le sue politiche “estrattiviste”, basate cioè
sull’accaparramento di risorse ai danni della comunità locale. Nel veronese la
siccità ha provocato una grave crisi idrica che ha costretto metà dei comuni a
limitare l’utilizzo d’acqua. La Coca-Cola invece, per la quale l’acqua è la
materia prima principale, non ha rallentato la produzione. Un decreto regionale
del 31 luglio del 2020 le consente anzi di aumentare del 37 per cento la
“portata media” dell’acqua prelevata dalla falda sotterranea e, poiché la domanda
della bibita è in continuo aumento, le linee produttive funzionano a pieno
regime. Il tutto a un prezzo irrisorio: un centesimo ogni mille litri d’acqua
presi dai pozzi che si trovano all’interno dello stabilimento.
Nei bar lungo il tragitto verso la fabbrica,
le bottigliette di Coca-Cola da 400 millilitri “prodotte a Nogara”, che la
gente del posto distingue dalle “sottomarche” provenienti da altre regioni,
sono in vendita a 3,40 euro. L’azienda ha ridotto le dimensioni delle bottiglie
da mezzo litro, ma non il prezzo, un trucchetto che serve a mascherare gli
effetti dell’inflazione e a scaricarla sui clienti. Arrivati davanti ai
cancelli della fabbrica, gli attivisti climatici hanno bloccato la strada,
mostrando cartelli che denunciavano la “speculazione” e urlando slogan contro
la multinazionale statunitense. “Si parla di razionamento idrico nelle case e
poi ci sono aziende che hanno accesso diretto all’acqua e la usano per prodotti
di cui non abbiamo bisogno”, ha detto ai microfoni di Rainews24 una giovane
ecologista, Fabrizia Toninello. Un gruppo di militanti dei centri sociali del
nordest, riconoscibili dalle tute bianche, ha provato a superare il cancello
d’ingresso, ma è stato respinto dalla polizia in tenuta antisommossa. Ci sono
stati spintoni, urla ed è volata pure qualche manganellata. “Vogliamo attirare
l’attenzione sul fatto che i razionamenti dell’acqua valgono per i privati
cittadini e non per la Coca-Cola”, spiega Sergio Zulian, arrivato da Treviso
per partecipare alla manifestazione.
Estrattivismo
Il comune di Nogara è l’unico in tutta la
provincia di Verona che non ha un acquedotto. Ha una rete di tubature costruita
all’inizio degli anni ottanta, ma non è mai entrata in funzione. Quando la
società pubblica che gestisce le risorse idriche, Acque Veronesi, ha provato a
recuperarla si è resa conto che molti tubi erano rivestiti di amianto ed è
riuscita ad allacciare alla rete idrica solo alcune abitazioni del centro
cittadino. Due terzi delle 3.500 abitazioni private e perfino l’ospedale prendono
l’acqua da pozzi di loro proprietà. Poiché quasi nessuno ha i contatori,
l’azienda idrica stima il consumo in 64 metri cubi all’anno, in maniera
forfettaria.
La Coca-Cola preleva da sola la sua acqua.
Ha ottenuto dalla regione Veneto una “concessione alla derivazione di acque
sotterranee tramite pozzo” per “uso industriale, potabile, igienico e
sanitario, e assimilati”. In questo modo la multinazionale, pur sfruttando
l’acqua a fini commerciali come le aziende che imbottigliano acque minerali, la
paga molto meno. In più, è esonerata dai costi di depurazione e di smaltimento,
che il resto della popolazione invece paga in bolletta. “È un esempio di come
le istituzioni locali siano asservite alla multinazionale”, afferma l’ex
sindaco Paolo Andreoli, di Sinistra italiana. “Lo stabilimento di Nogara è uno
dei più limpidi esempi di estrattivismo nel nostro paese”, hanno scritto in un
comunicato stampa gli organizzatori della protesta. La Coca-Cola, da queste
parti, è intoccabile. Quando i lavoratori della logistica organizzati dal
sindacato di base Adl Cobas, nel 2017, hanno scioperato per quaranta giorni di
fila protestando contro le condizioni di lavoro, le guardie private inviate dai
datori di lavoro hanno usato le pistole taser contro i manifestanti e per la prima
volta la fabbrica ha sospeso la produzione. L’ambasciata statunitense a Roma ha
chiesto all’allora presidente del consiglio Paolo Gentiloni di intervenire per
fermare le proteste.
Non è chiaro neppure quanti pozzi
gestisca. “Ce ne sono almeno cinque”, dice Roberto Malesani di Adl Cobas. “Sono
sette, tutti all’interno della fabbrica”, aggiunge con sicurezza Andreoli.
Nelle autorizzazioni ne sono menzionati tre, ognuno dei quali è collegato a una
vasca di accumulo da 1.400 metri cubi, dalla quale “si dipartono le tre diverse
linee di distribuzione dedicate alle rispettive utilizzazioni”. Tutti pompano
acqua al ritmo di 173,80 metri cubi all’ora, 24 ore al giorno per 365 giorni
all’anno, per un totale di un miliardo e mezzo di litri all’anno in media, il triplo
dei consumi dell’intera popolazione di Nogara. La bolletta finale è di circa
14mila euro all’anno. “Una sproporzione inaudita rispetto ai consumi, molto
meno di quanto pagano i privati cittadini”, afferma Andreoli. Per dimostrarlo,
tira fuori una bolletta da 39,74 euro per un consumo di 23 metri cubi di acqua.
Sono 1,72 euro ogni mille litri, quasi il doppio di quanto paga la Coca-Cola.
“Un’abitazione privata consuma tra i 60 e i 70 metri cubi all’anno, mentre lo
stabilimento arriva anche a un milione e 700mila metri cubi, l’equivalente di
un comune di 25mila abitanti”, calcola.
Rallentare un po’
All’indomani della manifestazione,
Sinistra italiana ha lanciato un allarme. “C’è il rischio che non ci sia più
acqua e ciò danneggerebbe l’intera popolazione di Nogara, tra cui gli stessi
lavoratori di Coca-Cola”, ha scritto in un comunicato stampa nel quale chiede
la sospensione della produzione. “Non dico che dovrebbero fermarsi del tutto,
magari basterebbe rallentare un po’”, dice Andreoli, per il quale “i manager
dovrebbero capire che, se l’acqua finisce, lo stabilimento chiude davvero”.
Una casa consuma 70 metri cubi d’acqua
all’anno, lo stabilimento arriva a un milione e 700mila metri cubi
Venti chilometri più a sud il Po è in
secca, le falde acquifere sotterranee sono prosciugate dalla siccità, il loro
livello si è abbassato e il presidente di Acque Veronesi, Roberto Mantovanelli,
già alla metà di giugno è stato costretto a scrivere a tutti i sindaci della
provincia, chiedendo di adottare delle misure per limitare i consumi. Il primo
a intervenire è stato proprio il sindaco di Nogara, che il 21 giugno ha vietato
“l’utilizzo di acqua potabile per fini diversi da quelli domestici e
igienico-sanitari”. Il primo luglio, appena eletto, il sindaco di
centrosinistra a Verona, l’ex calciatore Damiano Tommasi, ha prorogato
un’ordinanza simile del suo predecessore Federico Sboarina, di Fratelli
d’Italia, e ha raccomandato ai cittadini “un uso consapevole dell’acqua anche
nelle attività quotidiane in casa, riducendone gli sprechi”. Il suo collega del
vicino comune di Villafranca, Roberto Luca Dall’Oca, anche lui di centrodestra,
ha proibito di riempire piscine, annaffiare l’orto e lavare l’auto per tutta
l’estate. Secondo i dati forniti da Acque Veronesi, 40 dei 77 comuni serviti
dalla società idrica hanno adottato ordinanze simili, consentendo l’utilizzo
dell’acqua solo per “usi igienico-sanitari” e prevedendo multe fino a 500 euro
per chi non rispetta le prescrizioni.
La Coca-Cola non ha subìto invece alcuna
limitazione. Nello stabilimento di Nogara le dieci linee produttive e quella ad
alta velocità, costata 15 milioni di euro e inaugurata nel 2020, non hanno mai
smesso di funzionare a pieno regime. Nei magazzini “i bancali sono pieni fino
al soffitto”, dice un lavoratore della logistica. “Siamo in una fase di
sovrapproduzione”. Dopo una contrazione nelle vendite durante la pandemia, la
multinazionale ha ripreso a guadagnare più di prima. In tutto il mondo, nel
2021 sono stati venduti 13,7 miliardi di litri di Coca-Cola nelle sue diverse
versioni – originale, Zero e light – il 13 per cento in più del 2020, e l’utile
netto ha raggiunto i 547 milioni, il 32 per cento in più dell’anno precedente.
In Italia è la bevanda più bevuta. Fattura 870 milioni di euro, occupa 22mila
persone tra posti di lavoro diretti e l’indotto, e contribuisce per lo 0,05 per
cento al prodotto interno lordo. Cifre da capogiro che fanno risaltare ancora
di più il centesimo pagato allo stato per ogni mille litri di acqua consumata.
Lavoro e indotto
Tra gli 8.300 abitanti di Nogara, in pochi
osano mettere in discussione il trattamento di favore nei confronti della
multinazionale. “Dobbiamo tenere conto che questa è un’azienda che offre lavoro
e indotto”, dice il sindaco Flavio Pasini, della Lega. Il colosso di Atlanta è
arrivato qui nel 1975 e negli ultimi dieci anni ha investito cento milioni di
euro nei 146mila metri quadrati dello stabilimento veneto, il più grande del
sud dell’Europa. Ci lavorano 427 persone assunte dalla Coca-Cola, soprattutto impiegati,
mentre la maggior parte degli operai dipende dalle aziende e cooperative in
appalto. I lavoratori sono in totale 2.244, ai quali se ne aggiungono altri
5.200 dell’indotto. Se dovesse chiudere, si stima che in Veneto la
disoccupazione aumenterebbe dell’1,7 per cento.
Secondo uno studio della School of
management dell’università Bocconi di Milano, la multinazionale ogni anno
distribuisce in Veneto stipendi per 22,5 milioni di euro, appalti alle imprese
fornitrici o collegate per 77,8 milioni e paga 400 milioni di tasse, in buona
sostanza i contributi versati per i lavoratori dipendenti, visto che quando si
acquista una bottiglietta “prodotta a Nogara” i proventi prendono la strada dei
paradisi fiscali in cui il gruppo ha le sue sedi: da quella principale nel
Delaware, alle Isole Cayman, all’Irlanda, al Lussemburgo, ai Paesi Bassi e a
Singapore.
La Coca-Cola Italia Hbc finanzia le
giornate ecologiche e la cura dei parchi nel paese del veronese. Ha
sponsorizzato il premio letterario Campiello a Venezia, ha finanziato un
progetto della Fondazione Arena di Verona per ricostruire 67 colonne della
cinta muraria esterna crollate nel 1117 e ha sostenuto iniziative come “Learn
your job” dei Giovani imprenditori di Confindustria, con corsi negli ultimi tre
anni nelle scuole superiori per dare consigli agli studenti nel passaggio dalla
scuola al mondo del lavoro. “Grazie allo stabilimento di Nogara e al lavoro
quotidiano degli oltre 400 colleghi responsabili di garantire qualità alla
Coca-Cola made in Veneto, abbiamo costruito un solido legame con la regione”,
ha detto alle agenzie di stampa il direttore della comunicazione di Coca-Cola
Italia Hbc Giangiacomo Pierini.
La multinazionale si mostra molto attenta
pure agli aspetti ambientali. Ha investito sei milioni di euro per sostituire
gli imballaggi di plastica con altrettanti di carta e produce bottiglie con
tappi di plastica che non si staccano, per evitare che finiscano dispersi e non
siano riciclati. Gli attivisti climatici sostengono che si tratta solo di greenwashing
per mascherare lo sfruttamento a costo zero dei beni comuni e il trattamento di
favore da parte delle istituzioni locali. La mattina del 9 luglio, mentre
provavano a forzare lo sbarramento di polizia davanti ai cancelli dello
stabilimento di Nogara, sulle loro teste un pannello elettronico segnava la
quantità di CO2 risparmiata dalla fabbrica dall’inizio dell’anno: 1.196
tonnellate “grazie ai pannelli fotovoltaici” installati nella fabbrica e altre
9.222 tonnellate “grazie all’impianto di cogenerazione”.
La fabbrica produce il 100 per cento
dell’anidride carbonica che utilizza nei 735 milioni di litri di bevande
gassate imbottigliate ogni anno nell’impianto, dalla Coca-Cola alla Fanta, alla
Sprite. Per questo non è stata toccata dalla riduzione delle forniture causata
dagli aumenti del prezzo del metano dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che ha
reso l’anidride carbonica “introvabile”, come hanno denunciato alcuni
produttori di bibite. L’Acqua Sant’Anna di Vinadio, in provincia di Cuneo, è
stata costretta a fermare le proprie linee produttive. Invece la Coca-Cola,
oltre che sull’acqua, risparmia anche sulle bollicine.
Territori occupati, quell’apartheid che distrugge l’ambiente -Violetta
Silvestri
Nel frastuono mediatico che ha accompagnato la
Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) di Glasgow,
nel novembre scorso, l’intervento del primo ministro
dell’Autorità nazionale palestinese non verrà forse ricordato dalla cronaca.
Eppure, nel breve discorso di appena qualche minuto di Mohammad Shtayyeh, si sono palesati dettagli tutt’altro
che trascurabili sull’azione israeliana nei territori occupati
di Cisgiordania e Gaza e che riguardano la distruzione ambientale.
Le parole del premier palestinese sono state dure, a
testimonianza di una pace assai difficile per quello che è uno dei conflitti
più lunghi, complessi e drammatici della storia. Gli occupanti israeliani
rappresentano, a suo dire, “la minaccia più critica a lungo
termine per l’ambiente palestinese.” Basta osservare una mappa
della Palestina moderna, secondo Shtayyeh, per rendersi conto di come “l’ambiente viene sistematicamente distrutto. Dal 1967,
Israele ha sradicato circa 2,5 milioni di alberi, inclusi 800.000 ulivi“.
Un esempio che, in realtà, apre una riflessione molto
più ampia sulle conseguenze che la strategia israeliana degli insediamenti e
del controllo sui territori palestinesi sta provocando in termini di sostenibilità
ambientale, accesso alle risorse, inquinamento, distruzione dell’ecosistema.
Nel 2015 le Nazioni Unite avevano
lanciato un allarme: la Striscia di Gaza potrebbe diventare “inabitabile” entro
il 2020. Tra le cause veniva menzionata la grave crisi dell’accesso
all’acqua, con falde acquifere per lo più non potabili e in esaurimento.
All’inizio del 2022, quello della mancanza della risorsa idrica resta una delle
emergenze non risolte, legata soprattutto agli effetti della politica
israeliana sull’ambiente e sull’accaparramento delle risorse che spetterebbero
alla popolazione palestinese.
La questione ha radici profonde. Dal 1967, Israele
controlla di fatto tutti gli accessi alle fonti d’acqua nella Cisgiordania
occupata e la firma degli accordi di Oslo II nel 1995 ha riaffermato lo status
quo dell’epoca. Ventisei anni dopo, la situazione sul campo per molti villaggi
è peggiorata. Attualmente, circa l’87% dell’acqua di falda della Cisgiordania
viene assegnata agli israeliani e il 13% ai palestinesi. Inoltre, Tel Aviv proibisce agli abitanti arabi di accedere al fiume
Giordano per usufruire della risorsa idrica necessaria alla vita quotidiana.
Non solo, qualsiasi proposta di costruire infrastrutture idriche o pozzi deve
essere approvata dalle autorità israeliane, che raramente danno il via libera
ai progetti palestinesi.
Le denunce
di Amnesty International sono state esplicite su questo tema e hanno
sottolineato come la compagnia idrica statale
israeliana Mekorot abbia sistematicamente scavato pozzi e
sfruttato sorgenti nella Cisgiordania occupata per rifornire di acqua la sua
popolazione, compresi i cittadini che vivono in insediamenti
illegali, per scopi domestici, agricoli e industriali. Inoltre, le autorità
israeliane negano o limitano l’accesso all’acqua della Cisgiordania in quei
territori da loro stessi denominati “aree militari chiuse”. I palestinesi non
possono entrarvi, perché sono vicine agli insediamenti e alle strade utilizzate
dai coloni e dai militari israeliani.
Nella Striscia di Gaza sta avvenendo una crisi
idrico-ambientale ancora peggiore. Secondo l’ONU e gli standard
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 97% dell’acqua nel
territorio “non è adatta al consumo umano”, perché inquinata e
non trattata come dovrebbe con impianti di desalinizzazione. In più,
i danni causati dalle operazioni militari israeliane pesano sulla scarsità
della risorsa pulita. Nel maggio 2021, per esempio, le aggressioni
dell’esercito di Tel Aviv a Gaza hanno distrutto o reso inutilizzabili le infrastrutture idriche e i
tubi che servono almeno 800.000 persone.
Il tutto sta avvenendo in un’area del mondo arida e a
rischio elevato per l’effetto dei cambiamenti climatici. Il Programma delle
Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha dichiarato,
in un suo documento
ufficiale del maggio 2020, che il l territorio palestinese occupato si trova
all’interno di una regione generalmente calda, arida e
povera d’acqua che ha registrato un aumento delle temperature negli ultimi
cinquant’anni. Le proiezioni climatiche indicano che entro la metà
del secolo ci saranno tra 1,2° e 2,6°C in più.
Questo cambiamento modifica il ciclo dell’acqua,
alterando i modelli e le stagioni delle precipitazioni: le piogge medie mensili
potrebbero diminuire di 8-10 mm entro la fine del secolo, portando a una
maggiore aridità. Si prevede che i rischi legati al clima, come
ondate di calore, siccità, inondazioni, cicloni e tempeste di sabbia e polvere,
diventeranno più frequenti e gravi.
La falda acquifera costiera, la principale fonte di
acqua dolce sotterranea di Gaza, è sempre più a rischio a causa
dell’innalzamento del livello del mare. Molto prima che l’acqua salata
raggiunga la terraferma, perforerà la lente d’acqua dolce e la renderà
salmastra e dunque non potabile. La mancanza di accesso a un’elettricità
affidabile rende la desalinizzazione un processo costoso e ad alta intensità
energetica, quasi impossibile.
Il rapporto
2019 del Relatore Speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nei
territori palestinesi occupati ha evidenziato che la crisi idrica sta creando un grave pericolo per la salute
pubblica degli abitanti. La mancanza di un’alimentazione elettrica sicura
– a causa di una centrale danneggiata dalla guerra e una cronica mancanza di
carburante per far funzionare ciò che rimane dell’impianto – ha fatto sì che il sistema di trattamento dei rifiuti di Gaza funzioni male,
quando riesce a essere attivato. Ciò si traduce nello scarico giornaliero nel
Mar Mediterraneo di 110.000 metri cubi di rifiuti parzialmente o interamente
non trattati. I liquami grezzi vengono raccolti in lagune
instabili e pozze di rifiuti, che spesso si riversano nel sottosuolo e nella falda
acquifera. Tutto ciò ha portato a livelli molto elevati di nitrati, sostanze
chimiche e cloro nelle acque di Gaza, che contribuiscono alla minaccia di
malattie trasmesse dall’acqua.
Tale disperata situazione è spesso legata anche
al blocco di merci in entrata e in uscita nella Striscia imposto da
Tel Aviv e da Il Cairo. Come affermato da B’tselem, centro
di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, questo
impedimento del commercio verso Gaza ha fortemente limitato la reperibilità di
materiali da costruzione che servono per i sistemi idrici, sanitari e di
trattamento dei rifiuti.
Ad aggravare il problema ci sono anche i frequenti attacchi aerei e i bombardamenti su Gaza da parte di
Israele, che diffondono inquinanti nocivi nell’ambiente, come uranio impoverito, fosforo
bianco, tungsteno e mercurio, ponendo gravi rischi per la salute della
popolazione.
Negli ultimi anni, inoltre, sono state documentate
altre pratiche di aggressione ambientale e umanitaria. Israele ha spruzzato erbicidi dannosi sui raccolti palestinesi vicino al confine
di Gaza, con il
ministero della Difesa che ha giustificato l’azione per “ragioni di sicurezza”. Non si è trattato di singoli
episodi, ma di una pratica strategica per allontanare i palestinesi da quei
terreni.
Nel 2019, Forensic Architecture ha
pubblicato un’indagine intitolataHerbicidal
Warfare in Gaza, mostrando che dal 2014 lo sgombero e
l’abbattimento di terreni agricoli e residenziali da parte dell’esercito
israeliano vicino al confine orientale di Gaza è stato integrato
dall’irrorazione aerea di erbicidi che uccidono le colture. La combinazione letale
spesso era formata da Glifosato, Oxyfluorfen (Oxygal) e Diuron (Diurex),
componenti chimici classificati dall’Agenzia per la ricerca sul cancro dell’OMS
come probabilmente cancerogeni per l’uomo.
Come denunciato dal primo ministro dell’Autorità
nazionale palestinese nella cornice della COP26, inoltre, non è raro che i
coloni israeliani, generalmente sostenuti dalle forze di difesa della loro nazione,
sradichino, brucino e distruggano migliaia di uliveti coltivati da
agricoltori palestinesi.
Si dice che Israele dal 1967 abbia forzatamente
strappato dal terreno più di 800.000 ulivi in Cisgiordania, molti dei
quali antichi. Tra il
2010 e il 2020, circa 101.988 ulivi sono stati distrutti, secondo Nazeh Fkhaida, direttore del
dipartimento di documentazione dei danni agricoli palestinesi. La stessa ONU ha
denunciato lo sgombero selvaggio di terreni da parte di Israele per costruire
basi militari, zone cuscinetto, strade di raccordo (che sono generalmente
inaccessibili ai palestinesi).
Lo stravolgimento del paesaggio è in corso anche a
causa del cosiddetto sistema
delle tangenziali. Israele ha costruito una vasta rete di queste strade, comprese altre
infrastrutture che servono solo i suoi coloni negli insediamenti dei territori
palestinesi. In particolare, quando quest’ultimi asfaltano le proprie strade,
Israele le demolisce. Qualsiasi edificio o albero
entro 75 metri da queste tangenziali viene distrutto con i bulldozer e dichiarato zona militare chiusa. Sono migliaia i metri quadrati in
Cisgiordania ricoperti di asfalto con strade di sicurezza, che circondano le
case dei coloni senza alcun scopo civile se non quello, proclamato da Tel Aviv,
di proteggere i suoi cittadini. In questo nodo, Israele confisca terra generalmente usata dai
palestinesi per l’agricoltura, il pascolo, la vita quotidiana.
Uno studio dell’istituto di ricerca Arij, menzionato
dalla giornalista di Haaretz Amira Haas, ha inoltre
evidenziato che ogni anno i posti di blocco e le deviazioni stradali imposte ai
palestinesi in Cisgiordania provocano lo spreco di 80 milioni di litri di
carburante. In termini di inquinamento dell’aria significa 196.000 tonnellate
di anidride carbonica in più all’anno.
Questa desolante situazione che non accenna a
migliorare, è stata definita come un apartheid
ecologico dallo studioso Ashley Dawson, del dipartimento di scienze umane
ambientali presso la City University di
New York, nel suo libro del 2017 “Extreme Cities“. Con
questa espressione si intende “l’inasprimento dei confini e le
restrizioni ai movimenti di coloro che sono colpiti da disagi ambientali e
sociali”, come sta accadendo ai palestinesi di Gaza e
Cisgiordania.
Più esplicito è stato il Relatore Speciale delle
Nazioni Unite Michael
Lynk:
Per quasi cinque milioni di
palestinesi che vivono sotto occupazione, il degrado delle loro riserve
idriche, lo sfruttamento delle loro risorse naturali e la
deturpazione del loro ambiente, sono sintomatici della mancanza di qualsiasi
controllo significativo che hanno sulla loro vita quotidiana.
Parole inascolatate, come spesso avviene dinanzi alle
gravi ingiustizie nel conflitto israelo-palestinese.
Gaza: la sistematica distruzione ambientale ad opera di Israele
Un
ambientalista palestinese ha fornito delucidazioni sulla distruzione
sistematica dell’ambiente della Striscia di Gaza da parte israeliana,
attraverso la deviazione dei rifiuti verso la Valle di Gaza e nelle aree
circostanti.
Iyad
al-Qatrawi, membro dell’Autorità per la qualità ambientale con sede in
Cisgiordania, ha raccontato in un’intervista a Press Tv: “Israele
ha aperto una discarica ad est della Valle di Gaza, e questa è motivo di
disastri ambientali”.
E infatti,
decine di abitazioni palestinesi a Gaza sono sommerse da rifiuti non trattati
proprio in seguito all’apertura della discarica da parte israeliana ad est del
territoro palestinese assediato.
“Le acque
reflue circondano le nostre case….raggiungono le nostre fabbriche…e hanno
contaminato e distrutto ogni cosa. Il personale per il soccorso fa il proprio
meglio e, tuttavia, non si dispone di attrezzature adeguate per gestire il
problema nella sua portata”, ha commentato un residente di Gaza.
Non solo
Israele è dietro questi problemi ambientali, ma il suo regime è lo stesso che
nega a oltre 1,5milione di palestinesi di Gaza i diritti fondamentali; libertà
di movimento e il diritto a vivere in condizioni dignitose, quello al lavoro,
alla salute e all’istruzione.
“E’ un’altra
forma di aggressione israeliana contro la gente di Gaza. Gli israeliani
tenatano in tal modo di costringerci a lasciare le nostre case. Siamo sotto
assedio israeliano da anni ormai. E’ tempo che la comunità internazionale faccia
qualcosa a sostegno del popolo palestinese”, ha aggiunto un altro residente
della Striscia di Gaza.
Fino ad ora i campi di concentramento, cioè i campi di sterminio, sono
stati associati al regime nazista o alle dittature latinoamericane. Ora il
Centro de Confinamiento del Terrorismo, costruito a 70 chilometri da
San Salvador, capitale dello Stato di El Salvador, in una zona rurale
isolata, nasce in quella che potrebbe essere considerata una democrazia
in America Latina.
Lo spazio recintato è un orrore. È costruito su 23 ettari, ha otto
padiglioni che sono circondati da un muro di cemento alto 11 metri e lungo due
chilometri ed è protetto da filo spinato elettrificato. I detenuti non hanno
spazi all’aria aperta o aree ricreative e ciascuna delle 32 celle
ospiterà un centinaio di detenuti che avranno a
disposizione per tutti solo due bagni e due lavandini.
I detenuti dormono su lastre di ferro senza materasso, ci sono anche celle
di punizione e un sistema che blocca i cellulari, in un carcere che può
contenere fino a 40mila reclusi. I familiari devono pagare il cibo e i
prodotti per l’igiene dei detenuti. Tutto questo è possibile grazie al regime
di emergenza decretato un anno fa dal governo di Nayib Bukele.
Trasferendo i primi 2mila detenuti nella nuova prigione, il presidente ha
condiviso con orgoglio queste immagini, twittando: “Questa sarà la vostra nuova
casa, dove vivrete per decenni”. Mentre il ministro della Giustizia e della
Sicurezza ha scritto: “Sappiate che non ne uscirete camminando”.
I video e le foto mostrano i prigionieri
nudi e scalzi, con biancheria intima bianca come unico indumento.
Camminano sempre curvi e guardano per terra, il che dimostra che non si intende
solo umiliarli e distruggerli come persone, con un’attitudine che è non è certo
di giustizia per i crimini che hanno commesso, ma esercitare pura vendetta.
Il fatto che alcune organizzazioni per i diritti umani e l’Università
centroamericana abbiano criticato questa prigione e il modo in cui vengono
trattati i detenuti non può nascondere il fatto che l’80% della
popolazionesostiene il regime carcerario di Bukele, che fino a
qualche anno fa era un membro del Frente Farabundo Martí para la
Liberación Nacional (il FMLN, forza politica di sinistra, nata come opposizione
guerrigliera alla dittatura militare nella guerra “civile” cominciata
dopo l’assassinio sull’altare di Monsignor Romero nel marzo del
1980, ndt), da cui si è separato durante la sua gestione come
sindaco di San Salvador. Bukele conta ora anche su un’ampia maggioranza
parlamentare che non gli impone alcuna limitazione.
Le maras o pandillas non sono nate in El
Salvador o in Guatemala ma a Los Angeles, Stati Uniti, nel processo di
smobilitazione delle guerriglie e dei gruppi paramilitari nei primi anni
Novanta. Molti dei loro membri sono stati deportati in El Salvador, dove hanno
continuato la loro attività criminale.
La prigione istituita da Bukele ha una sospetta somiglianza con quella di
Guantánamo, dove Washington ospita i terroristi, dopo gli attentati dell’11 settembre
2001.
Siamo di fronte a un tipo di dispositivo che ha molto in comune con
Auschwitz e altri campi di concentramento: mirano a distruggere la persona,
lasciandola come un corpo biologico spogliato di ogni umanità, quel che il
filosofo Giorgio Agamben ha chiamato “nuda vita”, un’esistenza privata di ogni
qualità umana.
Naturalmente, quello di Bukele non è l’unico carcere di questo
tipo, anche se è il più moderno, di massa e tecnologicamente avanzato che si
conosca. Ci sono anche prigioni a cielo aperto dove vengono rinchiuse
centinaia di migliaia di persone, una delle più note situazioni di questo tipo
è quella della Striscia di Gaza, dove gli abitanti non hanno accesso all’acqua,
oppure sono costretti a berla sporca e contaminata, e sono militarmente
accerchiati dall’esercito israeliano.
In America Latina conosciamo anche le “zone di sacrificio”dell’estrattivismo, aree
in cui le miniere a cielo aperto o le monocolture transgeniche minacciano la
vita con muri invisibili, eretti con glifosato e mercurio. Possiamo aggiungere,
infine, la situazione dei Mapuche e delle altre comunità originarie che sono
materialmente e simbolicamente isolate dal sistema. Si potrebbe continuare
ancora, con le non poche periferie urbane circondate da muri che separano i
quartieri poveri dalle lussuose residenze private.
Oggi il sistema è basato su un modello di accumulazione per
espropriazione che genera enormi disuguaglianze. È un modello di
esclusioni, che lascia fuori due terzi o più della popolazione e in cui i
giovani non hanno futuro, specie se hanno un colore della pelle diverso da
quello delle classi medio-alte. Fanno parte tutti della “popolazione
eccedente” , quella che secondo Agamben può essere uccisa senza che questo
costituisca un delitto.
La versione in castigliano dell’articolo che ci invia Zibechi è uscita
su Pelota de Trapo
Non sappiamo come siano andate le cose e neanche c’interessa saperlo,
almeno in questo momento. Attendiamo l’evoluzione delle indagini e che ogni
tassello della vicenda vada al suo posto. Non ci azzardano a compiere
ricostruzioni affrettate e, meno che mai, ci lasciamo andare a giudizi impropri
e irrispettosi. La tragedia di Julia Ituma, la giovanissima pallavolista della
Igor Novara che se n’è andata qualche giorno fa, precipitando dal sesto piano
dell’albergo in cui soggiornava con la squadra a Istanbul, ci ha lasciato senza
parole. Anche per questo, per qualche giorno, abbiamo preferito rimanere in
silenzio.
Abbiamo preferito aspettare, anche perché non sapevamo rispondere ad alcuna
domanda, non avevamo chiaro cosa fosse avvenuto e, a dire il vero, non abbiamo
certezze nemmeno ora che abbiamo deciso di affrontare l’argomento. La triste
realtà è che non sappiamo nulla, tanta è la tragicità di questa vicenda. E
allora possiamo fare una sola cosa: immaginare. Immaginiamo la fragilità, il
dolore, la sofferenza di questa ragazza e ci guardiamo bene dal giudicarla.
Immaginiamo il suo sentirsi piccola pur essendo diventata grande, applaudita,
potremmo dire famosa. Immaginiamo il suo tormento interiore e non diciamo
altro, proprio perché ogni parola può essere una pietra e noi non abbiamo
alcuna intenzione di scagliare massi contro una vita che non c’è più, contro la
normalità stravolta della sua famiglia, delle sue amiche e delle sue compagne
di squadra.
Si pensava che Julia potesse essere l’erede di Paola Egonu, ma ormai questa
considerazione non ha alcun valore. E anche solo dirlo, anche solo
preoccuparcene, anche solo volerla classificare in qualche modo costituisce una
mancanza di rispetto. Ciò su cui sarebbe opportuno riflettere, di fronte a
questa storia che non consente di giungere ad alcuna conclusione, è invece
quanta apparenza, quanta violenza sotterranea, quanta ingiustizia e quanta
fragilità ci sianonella nostra società. E chi irride ragazze e ragazzi che
chiedono aiuto, chi si scaglia contro la presenza dello psicologo a scuola, chi
continua a esaltare un modello di crescita e di sviluppo dissennato, chi non si
ferma davanti a niente e a nessuno, chi punta il dito contro le denunce di
questa generazione, sottoposta a uno stress senza precedenti, almeno dal
dopoguerra, tutte queste persone non meritano la benché minima considerazione.
Compiono, infatti, inutili provocazioni che qualificano chi se ne rende
protagonista.
Tornando a Julia, noi non possiamo fare altro che inchinarci di fronte alla
sua storia, manifestare solidarietà e affetto ai suoi cari e augurarci di non
dover mai più scrivere un articolo del genere. Ci auguriamo che lo sport possa
essere un antidoto alla debolezza e al senso di frustrazione e di sconfitta che
pervade tanti, troppi ragazzi e ragazze. Speriamo che l’agonismo non prevalga
mai sulla dignità umana e sul doveroso rispetto per il prossimo. E ci affidiamo
al silenzio, alle lacrime, alla dolcezza, alla comprensione e alla totale
sospensione di ogni giudizio. Non spetta a noi, non ne abbiamo alcun titolo e,
sinceramente, per quanto ci interessi sapere come siano andate effettivamente
le cose, crediamo che in questo caso anche parlare di verità sia un po’
forzato.
L’unica verità è che abbiamo perso una ragazza splendida, prim’ancora che
una campionessa: forse perché non abbiamo saputo ascoltarla, capirla, starle
vicini quando ne avrebbe avuto bisogno. Ci siamo fermati in superficie, come
troppo spesso ci accade, in questa società in cui non c’è alcuna attenzione nei
confronti degli ultimi, di chi rimane indietro, dello strazio e della
sofferenza altrui. Abbiamo costruito un paradigma per cui un atleta, maschio o
femmina che sia, non può permettersi di avere dei cedimenti. Non lo accettiamo,
lo riteniamo indegno. Abbiamo smesso di porre l’essere umano di fronte al
fuoriclasse. Abbiamo introiettato un’idea robotica delle persone e continuiamo
a riempirci la bocca di termini come “competizione” e “merito”. Poi accade
l’irreparabile e ci scopriamo nudi, senza tuttavia rinunciare a dire la nostra,
a sparare il titolo a effetto in prima pagina, a pubblicare il commento pensoso
e fuori luogo.
Cara Julia, noi di parole crediamo di averne spese fin troppe. Possiamo
solo salutarti con un commosso addio.
Ormai siamo assuefatti. Diciamo
la verità: in generale l’economia, il business, il mercato non stanno funzionando come dovrebbero. I
grandi profitti di pochi, rispetto alla perdita del potere d’acquisto dei
moltissimi, sono un indice estremamente negativo della
salute dell’economia mondiale. Se questa tendenza proseguisse, vorrebbe dire
che siamo di fronte a una metastasi dei tradizionali sistemi economici,
certamente basati sul capitale e sulla libera concorrenza, ma fondati
soprattutto sulla continua crescita economica delle moltitudini. Invece, le
aziende aprono e chiudono, seguendo l’andamento dei benefit di breve dei
manager; vanno e vengono dietro agli scarsi, risucchiati dividendi degli
azionisti. E così basta un refolo d’aria per cancellare un’azienda
che fa pochi profitti e investe pochissimo; dove il poco che cola – finché dura
– è destinato solo a retribuire i vertici, e si licenzia, si licenzia fino a
scomparire.
Questo è anche il caso di un’altra azienda
storica, Tupperware, in questi giorni afflitta da gravissimi e
apparentemente insolubili problemi di liquidità, in odore di chiusura, una
delle tante che quasi non ci facciamo più caso.
Al solito, quando un’azienda scompare, il danno
maggiore non è la perdita dei posti di lavoro, non sono i capannoni
abbandonati, gli uffici deserti o il patrimonio distrutto. Anche per noi che
pure non siamo appassionati delle riunioni salottiere con te e pasticcini, ci
dispiace sapere che Tupperware cesserà di
organizzarne; ci dispiace e molto, non per i colorati contenitori in
polipropilene, ma per uno stile, per una cultura aziendale che se ne va per
sempre. Piangiamo la dissoluzione di un patrimonio immateriale che si era
creato nei decenni, quella cultura d’impresa, il know-how aziendale, come dicono coloro che non
sanno come si esprimeva il grande banchiere Raffaele Mattioli.
Tupperware era un’azienda diversa e aveva fatto
proprio della sua diversità la cifra
imprenditoriale che l’aveva portata al successo. La tecnologia da sola,
infatti, non basta per creare ricchezza, per far crescere le imprese e l’intera
società. Tupperware non aveva vinto, non aveva avuto successo grazie all’idea
del “tappo a stappo”, con i famosi contenitori.
Tupperware si era imposta al mondo nel momento in cui aveva compreso che per
vendere certi prodotti bisognava spiegarne con cura le modalità di utilizzo, i
vantaggi, e questo era possibile solo con dimostrazioni pratiche,
contatti diretti e accurati, rapporti personali. Poi le cose sono cambiate, le
imitazioni si sono moltiplicate, Tupperware ha dovuto cambiare pelle, e anche
se i prodotti sono rimasti sempre fedeli alle promesse, l’effetto novità è
finito. Tupperware ha dovuto diversificare, assomigliare agli altri, rincorrere
la concorrenza, la spinta dell’innovazione iniziale è andata esaurendosi.
La storia anche in questo caso insegna. Primo, che le
aziende veramente nascono e muoiono, spesso scompaiono del
tutto. Ma, al contrario degli uomini, anche su questa terra, hanno poche
possibilità di risorgere. E l’aldilà non è nemmeno una speranza per chi fa
business, bisogna accontentarsi dei limiti materiali dell’uomo, della nascita e
della morte, di una vita soltanto. Fino a che punto ci si può quindi spingere
per qualcosa che prima o poi si dissolverà nel nulla? Vale la pena per il
“bene”, la sopravvivenza di un’azienda, distruggere la
natura, addirittura portare donne e uomini a morire per allungare la vita di
organismi che in ogni caso saranno destinati a scomparire? La contabilità dei
profitti davanti al saldo dell’esistenza umana è spietata e potrebbe
sconsigliare certi appetiti eccessivi.
Seconda e ultima riflessione. La tecnologia da
sola non basta per fare business. Prima di tutto ci
vuole la virtùimprenditoriale. Non
necessariamente un bravo pizzaiolo riuscirà
a creare una pizzeria di successo. L’uomo (e la donna, speriamo)
restano al centro del successo del business, nel rispetto delle leggi di natura
e dell’umanità che li circonda. Tutto il resto conta poco. Arriverderci
Tupperware.
Il fenomeno
crescente del land grabbing –
l’accaparramento di terreni a uso agricolo, pascolativo o boschivo – viene
generalmente collocato nell’Africa sub sahariana, in Asia, nell’America Latina
e riguarda la pratica di acquisire in proprietà, in affitto o in concessione
vaste estensioni di territorio da parte di società di capitali, governi o anche
singoli imprenditori con la finalità di destinarli a un utilizzo esclusivo a
fini produttivi.
Non vi sono
molti dubbi sul fatto che ponga in pericolo la tutela degli interessi
nazionali dei vari Paesi alla sovranità e
alla sicurezza nel
campo dell’approvvigionamento alimentare, in quanto le popolazioni
locali perdono il controllo delle risorse naturali del proprio territorio, in
particolare i terreni agricoli e boschivi, nonché l’acqua.
Memorabile
la trasmissione “Corsa alla
terra” di Report (18 dicembre 2011) con cui Milena Gabanelli,
allora conduttrice, fece conoscere il fenomeno agli Italiani.
Ma
tante sacrosante contestazioni avverso il land
grabbing nei Paesi del Terzo Mondo e un assordante
silenzio su quanto sta accadendo in Italia, dove ampie zone stanno ormai
perdendo le loro caratteristiche naturalistiche, agricole, storico-culturali,
la stessa identità, ad opera dell’accaparramento dei terreni per
l’installazione di centrali eoliche e fotovoltaiche da parte di società
energetiche.
Altrettanto
memorabile la puntata di Report I
Fossilizzati(17 aprile 2016) si era trasformata in
uno spot del servizio pubblico per i progetti di centrali
solari termodinamiche del Gruppo Angelantoni da
realizzarsi nelle campagne sarde piuttosto che nelle estese
aree industriali dismesse, dove il sole batte ugualmente: espropri e calci
in culo agli indigeni, insomma land grabbing di casa
nostra, senza che ciò meritasse un minimo cenno.
No, queste
cose non si devono raccontare agli Italiani, perché deve imperare la vulgata in
favore della speculazione energetica.
Decine e
decine di migliaia di ettari di terreni agricoli, pascoli, boschi spazzati
via, paesaggi storici degradati, aziende agricole sfrattate, questo sta
diventando il panorama in larghe parti della Sardegna, in Puglia, nella Tuscia, in Sicilia.
E sono più
di 7 mila gli ettari fatti fuori dalla speculazione energetica
negli ultimi anni in un territorio che negli ultimi anni è sempre stato ai non
invidiabili vertici nazionali per il consumo del suolo per abitante (rapporto
ISPRA sul consumo del suolo 2019), 1,91 metri quadri per
residente rispetto alla
media regionale di 0,47 e nazionale di 0,80.
Consumo del
suolo che va
in direzione opposta agli obiettivi tanto decantati della transizione
ecologica.
Consumo del
suolo che
nemmeno risolve i problemi di un fabbisogno energetico neppure adeguatamente
verificato.
Land
grabbing di casa
nostra.
Forze
politiche, intellettuali, gran parte dell’informazione, una bella fetta dello
stesso mondo ambientalista ormai adepto senza
se e senza ma della divinità eolica e fotovoltaica se ne
fregano completamente.
Il Gruppo
d’Intervento Giuridico (GrIG) ha fatto, fa e farà la sua parte contro questo
strisciante furto di natura, di suolo, di storia e cultura, di
identità, di Terra ai danni di troppe collettività locali del nostro Bel
Paese.
Mi chiamo orsa e sono solo un animale - Alessandro Ghebreigziabiher
Mi
chiamo orsa, o almeno è quel che c’era scritto una volta nei libri
di scuola o nelle favole, e sono un animale.
Così era un tempo, ma oggi il mio nome è Jj4 e
affermano che sono colpevole di un’aggressione mortale.
Dicono che ho ucciso un essere umano, un giovane di 26 anni.
Non posso dire che comprendo fino in fondo la gravità di ciò che ho fatto, ma
capisco la sofferenza anche se non sono umana.
Il dolore dei tuoi cari, di chi ti ha messo al mondo o di chi soltanto ti
vuol bene. Questo è un fatto dell’esistere comune a tutti noi viventi, credo.
Spero.
Dicono anche altro su di me.
In molti discutono, altri argomentano, e sommariamente condannano anche, taluni.
C’è pure chi mi odia e vorrebbe la mia morte. So che la chiamate in tanti modi, tra cui vendetta, riparazione e
perfino giustizia, come se fosse un’ineludibile necessità per il
bene della collettività.
Capisco poco di tutto ciò, lo ammetto.
Perché mi chiamo orsa, o perlomeno così era una volta, e orsa è ciò che sono
ancora oggi.
Per tale ragione, guardo le cose dal mio punto di vista come voi le osservate e
valutate dal vostro.
Banalmente, il punto di vista di un animale.
Il punto di vista di un animale su un pianeta dove ogni anno vengono
macellati 150 miliardi di noi.
In quello stesso anno, nella nazione che ci ospita tutti, si parla tra gli
altri di 5 milioni di uccellitrucidati illegalmente, di un milione e mezzo di animali selvaticiammazzati dalle vostre auto sfreccianti sulle strade e dello sterminio di 300.000 cinghiali, altra specie da voi pubblicamente
disprezzata di questi tempi.
Ciò nonostante, anche se non capisco il senso neppure di questo, io non
vi odio, e credo di poter parlare a nome di tutti gli altri animali di
questa terra.
Altrimenti… be’, ve ne rendereste conto non appena uscite di casa.
Perché lo spegnimento della vita altrui con una ragione ben precisa e
premeditata, che non siano il procacciamento del cibo o la protezione di se
stessi e dei propri figli, è un qualcosa che non riesco neanche a
immaginare.
Chiedo scusa di ciò che ho fatto e di quello che non capisco.
Ma che volete farci.
Malgrado i nomi che mi danno sui giornali, io mi chiamo orsa e sono solo un
animale…
e merita la condanna a morte di coloro che, se
potessero, manderebbero alla morte anche gli esseri umani considerati
colpevoli?
se un animale domestico ammazza un uomo, metti che sia
un rotweiller, la legge dice sempre che vi è qualcosa di colposo
negli esseri umani, non condanna l’animale, che è irresponsabile per
definizione.
è il padrone dell’animale che doveva vigilare e
prendere le precauzioni; non sto accusando la vittima, ma anche la vittima deve
evitare comportamenti imprudenti, anche se a volte si diventa vittime anche
senza averne fatto nessuno.
sono concetti elementari, ma purtroppo siamo alle
prese con una minoranza di deficienti al governo, in grazia di una legge
elettorale truffaldina e di un sistema mediatico impazzito che esalta la
stupidità come la migliore delle virtù.
ma un orso selvaggio ha qualcuno responsabile per lui?
certamente, ed è per questo che vediamo perfettamente
applicato all’orso il meccanismo del capro espiatorio, anche se
l’animale è sbagliato e dovrebbe essere un capro, mentre caproni sono quelli
che colpevolizzano l’orso.
ma dare la colpa all’orso serve egregiamente a
nascondere le colpe degli uomini.
. . .
partiamo da una premessa: gli orsi originari in
Trentino sono stati praticamente estinti alla fine del secolo scorso: gli
abitanti del luogo non li hanno mai amati, anche se la loro immagine tornava
buona ad attirare i turisti, e alla fine sono riusciti a sterminarli tutti,
dopo secoli di persecuzioni sistematiche e di caccia, anche abusiva.
a questo punto, per il fine di lucro appena detto,
qualche politico locale ha pensato di farne venire qualcuno dalla Slovenia.
erano orsi immigrati, ma andavano bene, come vanno
bene a questa stessa gente gli immigrati umani, se tenuti in condizione di
clandestinità e di semi-schiavitù.
sembra che in Slovenia questi orsi fossero meno
abituati ai contatti umani e dunque rimasti a comportamenti naturali e più
aggressivi, mentre i poveri orsi trentini originari avevano sviluppato
comportamenti molto più schivi e prudenti, per selezione naturale, prima di
morire sterminati.
ma naturalmente, se si reintroducono degli orsi in
ambienti che ne erano privi, la prima cosa da fare è una informazione adeguata
agli umani che frequentano quei luoghi, perché anche gli umani si sono abituati
a vivere in un ambiente senza orsi, e non hanno neppure idea di come
comportarsi se ne incontrano uno.
ad esempio, circolare con i cani nei boschi dove ci
sono potenzialmente orsi dovrebbe essere severamente proibito; e andate a dirlo
ai cacciatori…
ma che cosa volete che pensi un orso, o peggio un’orsa
con i piccoli, se vede venirgli incontro un uomo con un cane? è ovvio che si
sente in pericolo, no?
. . .
tra gli esempi degli sprovveduti frequentatori mettete
me stesso, che nelle mie passeggiate su questi monti, mai mi sono posto il
problema di un possibile incontro con una simile bestia.
eppure due anni fa ne fu segnalato uno, un cucciolone,
ripreso perfino con una video-trappola, peraltro, a 4 o 5 chilometri da casa
mia solamente; non se ne è più sentito parlare, ma a febbraio non sono andato,
io, a farmi una camminata in solitaria proprio da quelle parti?
attualmente è segnalata un’orsa con tre piccoli tra
Valle Sabbia e Trentino, ma sull’altro versante della valle e a qualche decina
di chilometri da qui; ma, come si sa, un orso può fare anche più di 20 km al
giorno, spostandosi nei boschi.
ora nessuno ha mai fatto una campagna informativa ed
educativa per gli escursionisti né in Trentino, dove gli orsi sono stanziali,
né in Valle Sabbia, dove vanno e vengono.
e queste sono le considerazioni minime.
. . .
detto questo, non sono un animalista fanatico; dico
soltanto che, se si vogliono gli orsi, occorre pensare che non sono quelli dei
cartoni animati.
l’attuale degenerazione del pensiero e dei
comportamenti di chi ama gli animali come se fossero esseri umani mi lascia
meravigliato, se non facesse parte di una irresistibile tendenza alla perdita
della consapevolezza della realtà della natura, che è feroce di suo (rileggersi
Leopardi, cribbio!).
quindi, se gli orsi sono diventati troppi (ma
davvero?), meglio un orso morto, che un orso rinchiuso a vita in qualche
recinto che non fa per lui.
ma l’eventuale soppressione degli orsi in eccesso
rispetto alla capacità di un territorio di ospitarli non può essere certo il
risultato di una specie di processo sommario e di una condanna a morte di un
essere sensibile che non ha regole etiche da seguire.
e per calcolare quale è la giusta misura di animali
selvatici che un ambiente può ospitare senza danno, occorre anche prevedere
qualche limitazione in più alla presenza umana, almeno in certe aree.
insomma, la natura è tanto degli uomini quanto degli
orsi.
e non conta nulla che la bibbia dice il contrario, e
afferma che il mondo è stato creato per noi.
a questo punto meglio l’induismo, che vede
nell’animale un uomo reincarnato.
ecco, se fossimo induisti, l’idea di condannare a
morte un orso ci farebbe semplicemente orrore, e a me lo fa, sappiatelo.
Catturata l’orsa JJ4: ora
rischia di impazzire al lager del Casteller. La storia si ripete – Marco Ianes
E così l’hanno presa, l’orsa JJ4 – e a
quanto pare avevano pure preso i cuccioli, che poi hanno rilasciato al loro
destino, senza la mamma!
Triste la vicenda, ovviamente, con la morte di un povero giovane, che non
ha alcuna colpa, sia chiaro. Ma con questa vicenda si palesano le grandi criticità della gestione del progetto Life Ursus. Un progetto che prevedeva, oltre al
ripopolamento degli orsi – che, ricordo, sono sempre esistiti in Trentino, ma
all’epoca erano in pochissime unità; ebbene, a parte l’immissione di una decina
di esemplari, nel 1999, tutti gli altri attuali sono nati e cresciuti proprio
qui in Trentino.
Ma le carenze sono evidenziate dalla mancata attivazione del resto del
progetto:
1.Creazione di corridoi faunistici che
avrebbero permesso alla popolazione ursina di espandersi su tutto l’arco
alpino, riducendo così la densità e di conseguenza la probabilità di incontro
con l’uomo;
2. Attivazione di un approfondito sistema di monitoraggio della popolazione ursina, con
radiocollari e sistemi di controllo che avrebbero determinato una corretta e
approfondita conoscenza di come e dove si muovono gli orsi;
3.Revisione del piano di gestione dei rifiuti,
specie quelli organici, con il posizionamento di opportuni bidoni anti-orso per evitare l’avvicinamento degli
animali ai centri abitati vicini al bosco;
4.Opportuna campagna informativa per chi va nel bosco,
con brochure e cartelli di rilievo per segnalare presenza e modi di comportamento;
5.Programma di formazione nelle
scuole, di ogni ordine e grado, per abituare alla convivenza consapevole con
l’orso.
Sapete quante di queste cose sono state fatte? Praticamente nulla; ne è testimonianza un video girato proprio in
questi giorni, per documentare la situazione gestionale, proprio nel paese
della tragedia...