Il Centro per i diritti umani Fray
Bartolomé de Las Casas (Frayba) ha riferito di aver documentato a marzo 437
attacchi contro comunità nel municipio di Aldama, perpetrati da gruppi armati
della città di Santa Martha, situata a Chenalhó.
In una dichiarazione, il Frayba afferma
che questi attacchi hanno portato “allo sfollamento intermittente di 3.499
persone, che stanno subendo l’impatto di violenze permanenti”. Aggiunge
che i residenti di Santa Martha hanno sparato e ferito un musicista del
vicino comune di Santiago El Pinar, durante una festa tenutasi nella città di
San Pedro Cotzilnam, e una bambina di 9 anni nella comunità di Tabac, situata
ad Aldama.
Il Frayba assicura che lo Stato
messicano “non rispetta le raccomandazioni della Commissione interamericana per
i diritti umani (IACHR) per garantire la sicurezza e la vita della popolazione
di Aldama”. Ricorda che “di fronte agli attacchi armati e alle violenze che
sono peggiorate dall’inizio del 2018”, una commissione di 115 membri nominati
in rappresentanza delle comunità colpite e il Frayba hanno chiesto misure precauzionali
alla IACHR.
Questa commissione ha ritenuto che
sussista una “situazione di gravità, urgenza e possibile generazione di danni
irreparabili”, per la quale ha “aggiornato il seguito delle misure MC-882-17,
MC-284-18” a favore delle famiglie Tzotzil da 22 città dei comuni di
Chalchihuitán, Chenalhó e Aldama “ai sensi della risoluzione 102/21
(monitoraggio) del 15 dicembre 2021”.
Allo stesso modo, ha aggiunto che “le
azioni che le autorità dello Stato messicano hanno compiuto per garantire la
vita e l’incolumità della popolazione sono state inefficaci, come abbiamo
costantemente evidenziato”.
Ha inoltre affermato che la Federazione
“ha concentrato la sua attenzione sul conflitto territoriale, per il quale, il
3 marzo precedente, ha consegnato ai membri della comunità di Aldama la
proprietà Cerro Bola situata nel comune di Ixtapa, un sito che è quasi 100
chilometri dal loro luogo di nascita. Lo stesso giorno della cerimonia
di consegna della proprietà, la popolazione è stata costantemente attaccata.
“Tuttavia, i governi statale e
federale continuano a ignorare le indagini, il disarmo e lo smantellamento del
gruppo aggressore, le sue fonti di finanziamento e il legame con le autorità
statali e locali“, ha concluso il Frayba.e
Un centinaio di persone, nonostante la mattinata ottima per andare al mare.
Basta, non si può più tollerare la pessima abitudine di tagliare e capitozzare alberi e apparato radicale in ogni angolo di Cagliari e in ogni stagione, spesso e volentieri in assenza di qualsiasi plausibile giustificazione, quando non in violazione di vincoli ambientali e culturali.
Tantomeno possono passare sotto silenzio progetti assurdi di stravolgimento delle poche vie alberate cittadine, come Viale Trieste e Via del Cimitero.
Centinaia di alberi fatti fuori senza tanti complimenti, mentre, con sovrano sprezzo del ridicolo, l’Amministrazione comunale si candida a capitale europea del verde 2024.
I cittadini non vengono minimamente coinvolti, quindi devono rimboccarsi le maniche per difendere i propri alberi, il proprio verde pubblico.
Forza e coraggio, c’è da difendere in ogni modo gli alberi kasteddai!
Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)
(foto da Google Street View, La Nuova Sardegna, per conto GrIG, S.D., archivio GrIG)
La guerra dei cieli. In Sardegna. Per
aggiudicarsi l'ultimo aeroporto a gestione pubblica dell'Isola. Quello di
Cagliari Elmas. C'è una sorda belligeranza tra gruppi finanziari, imprenditori,
fondazioni bancarie. È una vicenda che coinvolge anche la Regione del
Governatore Solinas. La Società di gestione, la Sogaer, è per quasi il 95 %
della Camera di Commercio. Nella scalata non sarebbero estranei interessi di
aria massonica. È una storia che si combatte dietro le quinte. Gli altri due
scali sardi (Olbia e Alghero) sono già passati di mano ai privati. Ma
l'aeroporto di Cagliari è il più importante. Con i suoi quasi 5 milioni di
viaggiatori. Il pericolo è che le priorità degli investitori privati sono
mirate esclusivamente al profitto. E solo a quello. E potrebbero non coincidere
con quelle del territorio. Situazioni già consolidate in altre realtà. Come la
Grecia. Ad esempio. Un altro colpo all'autonomia dell'Isola?
L'ultima follia del Governatore della Sardegna,
Christian Solinas. Costruire 4 nuovi ospedali. Nel vicinissimo 2017, Presidente
Pigliaru (PD). Riforma sanitaria dell'assessore Arru, medico (PD). Parola
d'ordine: tagliare. Riduzione di 64 primariati su un totale di 447. Eliminazione
di 111 posti letto. Risparmio: 50milioni di euro. Adesso c'è Solinas. Laurea
molto chiacchierata in legge. Annuncia: costruiremo 4 nuovi ospedali. Mentre la
popolazione sarda diminuisce. Mentre in Sardegna c'è sovrabbondanza di
strutture ospedaliere. Alcune addirittura almeno parzialmente chiuse. Mentre si
eliminano o ridimensionano i reparti. Quasi ovunque. E la domanda di salute non
potrà che essere , al massimo, la stessa di oggi. Se non è follia, poco ci
manca. Con una spirale assurda di posti letto e di nuovi primariati. A
beneficio del clientelismo, dello sperpero di risorse, del trionfo dei
tradizionali tentacoli massonici. Già ora mancano 4 mila infermieri e un numero
infinito di medici. E la tecnologia ospedaliera e spesso carente e superata. Ci
ritroveremo con 4 nuovi ospedali e la esistente rete ospedaliera vecchia e in
totale sofferenza. E, soprattutto, la medicina territoriale in disarmo. Pur
essendo quella fondamentale in una regione vasta e a basso indice abitativo
come la Sardegna. E i sardi, per certe patologie, continueranno l'odissea dei
viaggi della speranza nella Penisola. Senza contare, quanto a sprechi, il Mater
Olbia. E senza contare, in supporto alla Sanità Pubblica, la ottima rete
ospedaliera privata. Semplicemente pazzesco.
Il 24 aprile si è celebrata la Giornata Mondiale dedicata agli animali da
laboratorio per ricordare le morti silenziose dei tanti essere senzienti
torturati ed uccisi in nome di una cattiva scienza. I motivi non sono solo
etici e morali, ma anche filosofici, scientifici e logici. Sperimentazione
animale, vivisezioni e metodi sostitutivi nella ricerca scientifica: questi
sono i temi che affronta il libro “La vera scienza non usa animali. Good
Science versus Bad Science”, uscito per la ricorrenza, edito da Edizioni Oltre
e scritto dal divulgatore scientifico Davide Nicastri e dalla psicologa
Federica Nin, con contributi di oltre 20 professionisti del mondo biomedico,
giuridico e filosofico-etico. Il libro ha la funzione di trasmettere l’idea che
il vivisezionismo non è solo un problema riguardante il “benessere animale”, ma
un problema di validità scientifica in quanto superato dal concetto di
specie-specificità, riconosciuto persino dal Ministero della Salute italiano
fin dal 21 settembre 20151. A tal proposito abbiamo
intervistato Federica Nin, psicologa impegnata nella critica epistemologica e
scientifica dei metodi di ricerca animal-based, oltre ad essere co-fondatrice e
segretaria di OSA – Oltre la Sperimentazione Animale, associazione
medico-scientifica che da anni informa sui metodi sostitutivi animal-free e
segue ricercatori obiettori di coscienza.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea nasce dalle domande che ci siamo posti sulla sperimentazione animale
e sul fenomeno storico e attuale della vivisezione. Per esempio, perché la
diversità di cure tra un canarino, un cane e un elefante, non è una differenza
solo di dosi? Perché certi farmaci e sostanze ad uso veterinario che funzionano
per una specie, non vanno bene per un’altra, e addirittura non sono adatte a
tutte le razze di una stessa specie? Perché oltre la metà dei farmaci messi in
commercio e testati su animali presentano gravi effetti collaterali? Perché
capita che farmaci vengano ritirati dal commercio? Perché è pericoloso usare
certi antiparassitari sui gatti mentre vanno bene per i cani? Perché possiamo
mangiare il cioccolato, ma al nostro cane potrebbe risultare fatale? Perché sia
gli esseri umani che i topi hanno il gene che permette al topo di sviluppare la
coda, ma noi non abbiamo la coda? E perché…? E la domanda cruciale: la
sperimentazione su animali è ancora “un male necessario”? A noi non risulta.
Anzi, con le forze schierate in campo a favore della sperimentazione animale, i
denari e le risorse umane impiegate, francamente non si può non stupirsi che
siamo ancora così indietro con la cura e la guarigione di moltissime delle
malattie che ci affliggono. E inoltre ci siamo chiesti perché non diffondere e
favorire nuovi modi di fare il bene degli umani senza passare attraverso il
male degli animali. Così abbiamo deciso di chiedere lumi a rappresentanti del
mondo scientifico e biomedico domandando loro di raccontarci tre cose: come
hanno scoperto l’esistenza della sperimentazione animale e maturato la loro
posizione al riguardo, le informazioni e opinioni che in base alle loro
competenze ed esperienze ritengono importante o utile far conoscere, e secondo
loro a che punto siamo nella strada per il superamento e l’abbandono di questo
metodo, quali siano i passi fondamentali da fare e chi li dovrebbe fare. Poiché
la sperimentazione animale non è solo una questione scientifica, ma anche
giuridica, politica, economica, morale, filosofica, sociale eccetera, abbiamo
pensato di destinare due piccole sezioni anche a testimoni rispettivamente del
mondo giuridico e del mondo filosofico ed etico, rivolgendo loro le medesime
domande.
Il libro nasce anche dal desiderio di rompere quel muro che fa sì che ormai
la maggior parte delle persone sia abituata a sentire parlare delle questioni
etiche derivanti dall’uso di animali non umani nella ricerca biomedica, nei
test della scienza in generale, ma non abbia familiarità col fatto che ci sono
anche problemi scientifici con la pratica: perché questa è Bad science,
cattiva scienza, anche nel senso scientifico, dato che è difficile trasferire
all’uomo i risultati ottenuti su esseri viventi profondamente diversi sul piano
anatomico, fisiologico e, conseguentemente, farmacologico. Lo dimostra il fatto
che gli effetti negativi dei medicinali spesso emergono non durante la
sperimentazione animale, ma in seguito, nel corso dell’impiego medico.
Nonostante tutti gli accorgimenti adottati, un margine d’incertezza permane,
tant’è vero che tutti concordano nel ritenere cruciali non le prove di attività
e sicurezza effettuate sull’animale, bensì la sperimentazione sull’uomo.
Inoltre, i modelli animali sono fuorvianti, perché riproducono i sintomi e le
manifestazioni esteriori delle malattie, non le loro cause. Di conseguenza,
hanno favorito e tuttora consentono solo l’avvento di medicinali sintomatici,
anziché curativi.
Quale giustificazione scientifica hanno la sperimentazione animale e la
vivisezione?
Ci sono motivi pratici, legali, burocratici, economici, finanziari,
storici, politici, culturali, di prassi, di routine… per perseverare con la
sperimentazione animale, ma giustificazioni scientifiche non ce ne sono, o non
ce ne sono più. Il rifiuto di abbandonare questa metodica non è di natura
scientifica bensì è racchiuso e concluso in un vuoto e logoro slogan privo di
argomentazioni scientifiche, che i fautori di questo metodo esprimono con un
loro dogma: “senza i modelli animali il progresso delle scienze si fermerebbe,
essi sono indispensabili perché non c’è modo di sostituirli, altri metodi non
ce ne sono”.
Allora, in primo luogo segnalo, limitandomi a un esempio italiano, che la
mia associazione medico-scientifica, O.S.A -Oltre la Sperimentazione
Animale, ha fatto uscire nel 2019 un libro che ne è pieno: “Le nuove
frontiere della scienza. Modelli sperimentali per la ricerca biomedica del XXI
secolo” edito Aracne. Tra l’altro, data la rapidità del progresso tecnologico
sotto gli occhi di tutti, oggi ve ne sono molti altri ancora, e ogni giorno se
ne aggiungono di nuovi.
In secondo luogo, faccio notare che la storia delle nostre malattie e della
nostra incapacità di trovare cure e soluzioni in grado di sconfiggere le
malattie tuttora incurabili, come molte forme di cancro e le tante malattie
neurodegenerative (come l’Alzheimer, il Parkinson, la Sclerosi Multipla ecc.)
purtroppo dimostrano che la ricerca scientifica è ostacolata e frenata
dall’obbligo di sperimentare sugli animali prima di sperimentare – comunque e
obbligatoriamente – sull’uomo (ci sono quattro fasi di sperimentazione
sull’uomo successive alle prove su animali, ma questo richiederebbe un altro
articolo).
Terzo, tale regola ha motivi storico-politici e non scientifici, che
risalgono a quando il processo di Norimberga portò alla luce i criminali
esperimenti nazisti sugli ebrei e gli altri prigionieri dei lager. Fu in
seguito a ciò, che la richiesta di utilizzare gli animali nella ricerca medica
e tossicologica al fine di tutelare i diritti, la sicurezza e il benessere dei
soggetti umani che partecipano ad una sperimentazione fu formalizzata nel
Codice di Norimberga e successivamente in leggi, codici e dichiarazioni
nazionali e internazionali, fondate a partire dal solo diritto consuetudinario.
Sono passati 75 anni e possiamo comprendere che in quell’epoca non sia
venuto in mente niente di meglio che testare sostanze e terapie sugli animali,
dando per presunto cioè pre-supposto che gli studi animali abbiano un valore
predittivo per l’uomo. Ma è incredibile e inaccettabile che, a fronte degli
avanzamenti tecnologici formidabili che si sono avuti in ogni campo e che si
succedono a ritmi impensabili prima, a fronte dei nuovi modelli interpretativi
del mondo (pensiamo alla fisica quantistica per esempio) ancora ci si
accontenti di una metodologia scientificamente e tecnologicamente sorpassata e
ingiustificata oltre che eticamente riprovevole.
Quelle norme si basano su princìpi scientifici superati, non svolgono
alcuna funzione utile, aumentano i costi di sviluppo dei farmaci, impediscono
la realizzazione di farmaci e terapie altrimenti sicuri ed efficaci, comportano
l’esclusione di sostanze che vengono scartate perché tossiche per gli animali
ma che invece potrebbero essere terapeutiche per gli umani.
Per aderire consapevolmente a questa conclusione, suggerisco la lettura di
un articolo scientifico, dotto ma semplice e illuminante, di Greek, R., Pippus,
e A. & Hansen, L.A, che argomenta e documenta il fatto che Il Codice di
Norimberga, proprio richiedendo l’uso di modelli animali, mina la salute e la
sicurezza umana2.
Le nuove conoscenze e nuove impostazioni epistemologiche, la teoria
dell’evoluzione e la scienza della complessità, hanno grandi ripercussioni
sulla pretesa dell’estrapolazione interspecie.
Ai tempi dei processi di Norimberga nessuno se ne rendeva conto. Prevedere
la reazione di un sistema complesso (che non è a causalità lineare, ovviamente)
basandosi sulla reazione di un altro non è soltanto problematico, è
praticamente impossibile, non dà e non può dare risultati attendibili. Ma
questo è proprio ciò che pretendono di fare gli scienziati quando testano un
farmaco su un topo o una scimmia nel tentativo di valutare quale sarà l’effetto
del farmaco su un essere umano.
Questa critica è diffusa nella letteratura scientifica. Sostanzialmente vi
è un accordo generale sul fatto che le tecnologie predittive saranno quelle
basate sull’uomo, sulla biologia umana. Ma la stranezza è che, dopo aver
spiegato perché i modelli animali non devono essere considerati predittivi3, gli autori si sentono spesso in
obbligo di piazzare un avvertimento alla fine dell’articolo, dove si afferma
che la società dovrebbe tuttavia continuare a sostenere la ricerca sugli
animali. Simili affermazioni, chiaramente in contrasto tra loro, contribuiscono
non poco alla confusione del pubblico circa il valore dei modelli animali. In
aggiunta, anche la profonda variabilità della risposta umana limita le
possibilità predittive dei modelli animali. I medici sanno da tempo che
esistono differenze nella predisposizione alla malattia e nella reazione ai
farmaci tra i gruppi etnici [3-9], tra i sessi [10-14] e persino tra gemelli
monozigoti [15-18].
Ma anche noi dovremmo esserne consapevoli: basta leggere il foglietto
illustrativo di un farmaco, per capire che i suoi effetti sono quasi sempre
diversi addirittura nelle diverse epoche della nostra vita: ai bambini sono di
solito vietate o comunque sconsigliate una grandissima quantità di medicine, e
lo stesso vale per gli anziani. Se su noi stessi il medesimo rimedio
farmacologico ha diversa efficacia a seconda che siamo bambini, adulti,
anziani, e anche uomini oppure donne (vedi “medicina di genere”), come possiamo
credere che siano attendibili e sicuri gli effetti prodotti su animali che sono
lontani e molto diversi da noi?
Dovrebbe bastare questo a far esitare quando si prende in considerazione
l’utilizzo degli animali come modelli per l’uomo: di quali esseri umani si
suppone che l’animale preveda la reazione?
La negazione dei metodi sostitutivi alternativi da parte della stragrande
maggioranza della comunità scientifica può essere definita “ignoranza
epistemologica”?
Anch’io vedo ignoranza epistemologica in quella parte della comunità
scientifica, purtroppo ancora maggioritaria, che si oppone al superamento
dell’uso di animali nella ricerca, vedo disinteresse verso i criteri di verità
nella ricerca scientifica, di validità, di affidabilità, vedo atteggiamenti
condizionati da pregiudizi e da inerzia, un certo qual rifiuto verso
un’attitudine euristica a cercare soluzioni alternative o anche solo ad
adottare quelle esistenti, e anche una ingiustificabile indifferenza all’urgenza
etica di trovare il modo di abbandonare l’uso cosiddetto scientifico di animali
nei laboratori. Chi è abituato a maneggiare topi, scimmie e i vari animali
cavia neanche si informa sui NAM, i Nuovi Approcci Metodologici e trova più
semplice negarne l’esistenza e l’ulteriore progettabilità e realizzabilità. Il
guaio è che se le nuove leve vedranno solo laboratori con animali, e
continueranno a ignorare metodi diversi, in un sistema arcaico
che si autoalimenta. Così, da questa ignoranza non se ne esce.
Non a caso, la tua domanda mi fa pensare specularmente anche all’epistemologia –
anzi, al plurale, le epistemologie – dell’ignoranza: l’analisi
dell’ignoranza condotta negli ultimi anni ha fatto emergere un insieme
multidisciplinare di studi e conoscenze. I cosiddetti Ignorance Studies sono
infatti oggi un fronte di ricerca variegato e in espansione, che sfrutta
collegamenti tra diversi settori accademici. E le Epistemologie
dell’Ignoranza si occupano anche dell’analisi del rapporto tra
ignoranza e conoscenza scientifica. Un tema discusso è per esempio il legame
tra ignoranza e selezione del sapere.
Grande interesse è rivolto non semplicemente ai fattori personali
dell’ignorare, ma a quelli collettivi, prodotti da fattori
culturali e interessi esterni: in tal caso, si studia l’ignoranza non come
fenomeno casuale, bensì l’ignoranza come prodotto di attività
e sforzi collettivi, quella creata socialmente per svariati motivi, a vantaggio
degli interessi economici di particolari agenti. Essa può essere per esempio il
frutto di una conoscenza situata, cioè costruita e sviluppata
all’interno di una prospettiva specifica, e la conoscenza scientifica secondo
l’epistemologa Donna Haraway (19) sarebbe sempre situata. Il
problema rilevato dalla studiosa è la mancanza esplicita di distinzione tra una
prospettiva maggioritaria e una prospettiva obiettiva: questa confusione ha
sostanzialmente permesso di coltivare indifferenza in merito a punti di vista
minoritari e silenzio relativamente ad argomenti di interesse per le minoranze
sociologiche.
Secondo me questa impostazione è utile a valutare anche il rapporto tra la
componente maggioritaria e quella minoritaria della cosiddetta comunità
scientifica in tema di sperimentazione animale.
Orbene sappiamo che è parte della struttura delle scienze l’assunzione di
un punto di vista consensuale (“la comunità scientifica sostiene che…”), ma in
tema di sperimentazione animale il punto di vista della sua presunta
insostituibilità, che viene assunto come pre-supposto al pari di un pre-giudizio
o di un dogma (e non raggiunto attraverso un confronto e un esame
epistemologico), non è scientifico. L’Intersoggettività, pretesa sulla base di
un’adesione acritica come ad un dogma e rivendicata come maggioritaria non è
affatto indice né garanzia di oggettività, così come non lo è la
convenzionalità, ossia la condivisione di convenzioni. Anche in questo campo si
confonde (e si vuole confondere) una prospettiva maggioritaria con una
prospettiva obiettiva. Ma il fatto che una parte maggioritaria di ricercatori
tuttora faccia e difenda sperimentazione animale non trasforma questa in
scienza. Anzi, direi che è contro l’interesse della scienza mettere in ombra o
anche soverchiare le minoranze culturali e, a questo punto aggiungo,
scientifiche.
D’altra parte, davvero ci si può sorprendere che alcune parti interessate
al mantenimento dello statu quo oppongano resistenza al
cambiamento? Stabilire l’utilità o meno della sperimentazione su animali è un
problema cruciale perché l’opinione pubblica sostiene la ricerca animale solo
se favorisce lo sviluppo di farmaci migliori. Di conseguenza, chi ha
convenienza al mantenimento dello statu quo difende gli
esperimenti sugli animali sostenendo fermamente che sono essenziali per
condurre trial clinici sicuri. Non importa se è esattamente il contrario:
proprio la sperimentazione umana immediatamente successiva a quella animale è
la più rischiosa.
Perdonami la domanda provocatoria: se non si sperimenta sugli animali su
cosa si sperimenta?
Ecco, questo libro mira anche a scardinare questa domanda, a cercare di far
cadere quel concetto secondo cui quando la gente ti dice “ma se non sperimenti
sugli animali, allora il replacement, cioè il rimpiazzo del modello
animale, con che cosa lo fai? con che cosa li rimpiazzi? Ecco, bisogna anche
rompere questo meccanismo psicologico secondo il quale la gente si immagina, e
anch’io mi immaginavo alle origini, che si debba trovare un equivalente, cioè:
non lo faccio sull’animale allora su cosa lo faccio l’esperimento? sull’uomo?
su di noi? Sì, è su di noi, ma non nel senso che lo si faccia direttamente
sull’uomo. Non è una questione di rimpiazzare questo con quello alla pari, la
sostituzione la si fa con l’integrazione di più approcci, sia computazionali,
sia biologici sia di varia natura, integrando i quali, e basandosi su cellule
umane non su cellule animali, otteniamo delle risposte predittive per l’uomo in
quanto basate sulla biologia umana. Viceversa, assistiamo all’assurdo di vedere
degli approcci moderni favolosi, vanificati per il fatto che vengono applicati
a cellule animali, alle solite cellule del topo: c’è una mentalità
murinocentrica cioè con il topo al centro della ricerca, che rovina tutto.
Oltre ad essere psicologa, divulgatrice scientifica e scrittrice sei anche
pittrice e la copertina del libro rappresenta un tuo quadro. Cosa rappresenta?
Lo avevo realizzato in un momento di grande solidarietà e partecipazione
per i macachi di Parma e dedicato a loro, rappresenta uno di loro, rappresenta
la mia compassione per la loro sofferenza e la loro miserevole vita nei cinque
anni di sperimentazione cui sono destinati prima della soppressione finale per
esaminarne il cervello, ed esprime anche il mio biasimo per chi assoggetta
queste meravigliose creature, a noi così affini moralmente ma non
biologicamente, con violenza e spietatezza rese strumenti di un tipo di
ricerca, quella neuroscientifica, che inutilmente e quindi con una crudeltà
ancora più ottusa e imperdonabile, pretende di assumere i primati non umani a
modello del cervello e della mente umani. Vorrei che dalla lettura di questo
libro scaturisse una trasformazione o un’aggiunta dell’antico quesito se sia
eticamente corretto infliggere a un altro essere vivente sofferenze a beneficio
dell’uomo. Cioè la domanda deve diventare: è eticamente corretto infliggere a
un altro essere senziente delle sofferenze fine a se stesse, senza che neanche
ne venga alcun beneficio per l’uomo?
2 Greek, R., Pippus, A. & Hansen, L.A, The
Nuremberg Code subverts human health and safety by requiring animal modeling,BMC
Medical Ethics volume 13,
Article number: 16 (2012) – BMC Med Ethics 13, 16 (2012). https://doi.org/10.1186/1472-6939-13-16
3Shanks N, Greek R: Animal Models in Light of
Evolution. 2009, Brown Walker, Boca Raton. Un libro la cui preoccupazione centrale
riguarda il “problema di predizione” nella ricerca biomedica. In particolare,
gli autori esaminano l’uso di modelli animali per prevedere le risposte umane
nella ricerca su farmaci e malattie.
Un reportage
ecologico e filosofico, dalle foreste del Ruanda.
Kigali è una città di colline
verdi su cui spuntano grappoli di case. Infrastrutture e strade sono solide. In
centro ci sono le ambasciate e un grande magazzino labirintico, qualche fast
food, negozi di telefoni e televisori digitali, motorini. Intorno si diradano
edifici e cantieri. Lo strato urbano funzionale si sovrappone allo strato
rurale, che rimanda al passato. Per le strade c’è una calma insolita, le
persone con cui parlo sembrano timide, hanno un contegno gentile e leggermente
grave.
Per prima cosa penso al genocidio. Da questo orrore è
cominciata la mia conoscenza del Ruanda. Era la primavera del 1994. In
pochi mesi furono massacrate tra mezzo milione e un milione di persone. I
numeri sono spaesanti, ma una proporzione aiuta a comprendere meglio la
misura della strage: nel paese di sette milioni di abitanti morirono due
terzi dei Tutsi, l’etnia di minoranza. Si uccideva per le strade e nelle
case, in campagna e in chiesa, solitamente con machete e mazze. Quasi tutti
hanno sperimentato la morte di cari e vicini di casa, restando orfani,
invalidi, traumatizzati. Durò fino alla fine dell’estate e oltre, senza
nessun intervento esterno a protezione della popolazione.
Il governo ha favorito, negli ultimi anni, una
pacificazione nazionale, con un programma educativo e la riduzione di pena ai
responsabili confessi. È gradualmente ripreso un turismo internazionale. Ma non
mancano i segni di un conflitto ancora latente e complicato, che rende
impossibile parlare liberamente. Non sono venuto in Ruanda per ricerche sulla
storia politica e sociale, però; come molti altri visitatori, sono qui per la
storia naturale. Oggi la conservazione e l’ecologia sono al centro del sistema
educativo del Paese (nei negozi la merce è avvolta in buste di carta). Tre
grandi parchi naturali con savana, foreste e vulcani garantiscono un costante
afflusso di turisti che vengono a vedere elefanti, scimpanzé, gorilla di
montagna. L’Africa in vent’anni ha perduto il novanta percento della sua
popolazione di elefanti, restano solo un migliaio di gorilla tra Uganda, Congo
e Ruanda, e la conservazione e la lotta al bracconaggio sono tenute in piedi
dal turismo. Il denaro pagato per scattare foto agli animali sostituisce quello
per comprare zanne d’avorio, carne e arti amputati. Sostituendo un desiderio
umano con altri, il turismo è capace di evitare l’estinzione di intere specie;
ma con la pandemia il sistema ha rallentato.
Arrivo ai margini della foresta di Nyungwe. Pernotto
in un complesso gestito da un belga che parla italiano, dove sono il solo
ospite. Il giorno successivo arriva una coppia di iraniani, e due ragazze che
fanno cooperazione in Congo. Mi spiegano che a Kinshasa si esce solo in auto,
perché armi e droghe sono così a buon mercato che è pieno di ragazzi pronti a
rapirti e poi valutare il da farsi. Il Ruanda in confronto è un paese facile,
un’opzione per riprendersi un po’, e ben venga la bellezza naturale. Vado a
camminare nei dintorni. Le colline sono un tappeto lucido di tè, su cui
spiccano azzurrini gli eucalipti. All’orizzonte la foresta si alza come un’onda
gigantesca. La parola “verde” non coglie nulla della sinfonia sensoriale che
m’imporrà giorni di silenzio attento e assimilazione. Per entrarci, però,
bisogna avere un mezzo di trasporto. Mi accordo con un ragazzo per andarci in
moto.
Nel freddo del primo mattino ci vuole un’ora di corsa
sul solco di asfalto sinuoso, tra quelle che sembrano pareti di un canyon
vegetale. Incrociamo diverse postazioni di soldati. Lo Stato ha limitato la
coltivazione e la caccia ai confini del parco, protegge i non–umani in assetto
da guerra. Quando arrivo in uno dei centri di accoglienza trovo un paio di
ranger assonnati. Spiego il mio piano: inoltrarmi nella foresta in cerca dei
colobi, le scimmie bianche e nere tipiche di questa antica foresta pluviale. La
guida è obbligatoria e, grazie a un sistema di trasmissione con squadre di
guardiaboschi, garantisce la localizzazione degli animali. Mi chiedono di
tirare fuori certificati, visti, carta di credito. La carta non funziona,
problema di linea. Non sanno come aiutarmi, mi toccherà tornare indietro e
andare in un villaggio a fare un pagamento; ma a quel punto sarà tardi. In quel
momento compare un uomo bianco col berretto, alto e corpulento, circondato da
guide private. È uno svizzero, si presenta con un sorriso: “Mi chiamo Beat,
cioè Beatus”. Propone di pagare lui con la sua carta oro, lo ripagherò con
calma. Gli dico che insegno e scrivo. “Forse ho un lavoro per te. Cerco
qualcuno che racconti i miei viaggi. Ho visitato 176 paesi nell’ultimo anno!
Nonostante la pandemia! Guarda!” Mi mostra la mappa dei viaggi sul telefono, un
globo con centinaia di bandierine. M’invia il suo contatto con un messaggio:
una schiera di emoticon con gli occhi a cuore. Si allontana per l’escursione,
seguito da un tizio che gli porta il treppiede per le foto.
M’incammino tra i mogani. Tra dislivelli di decine di metri, i tronchi sembrano
sottili pilastri di un mondo verticale. Finiscono in un tetto di foglie su cui
la timidezza delle chiome traccia nitidi contorni di luce. Sembra di stare
sotto un cielo di cellule verdi. Lo sguardo scende fino alle radici, dove
spuntano i dischi dei funghi sulle cortecce, e l’esplosione rossa di un giglio
di sangue. Felci gigantesche nascondono il terreno. Mancano gli elefanti, che
le mangiavano, ma c’è un progetto per reintrodurli.
Le scimmie sono in un profondo avvallamento. Sul
pendio ripido la vegetazione è impenetrabile, si avanza col machete cercando
appoggio su un tappeto scivoloso di piante piegate. Un ranger mi indica un
tronco filiforme, e vedo il colobo, con la sua barba bianca e la coda
penzolante da un ramo. È immobile a venti metri da terra, mastica una pianta.
In alto e in basso ce ne sono altri. Sono decine, il gruppo intero che si
sposta nella foresta. Mi tengo in equilibrio addosso a un tronco. Il
guardiacaccia mi indica una “blue monkey”, un cercopiteco dal diadema, che sta
nei pressi del gruppo. Lentamente i colobi si spostano, scendono passando sopra
e accanto a noi che stiamo immobili. La vita delle scimmie è un continuo
spostamento in cerca di cibo.
Il giorno dopo vado in cerca di scimpanzé. Anche
questi si spostano, ma soli o in piccoli gruppi. Ogni sera preparano il
giaciglio per la notte. Vedo una femmina col piccolo, seduta su un ramo
altissimo. Resto mezz’ora a spostarmi lentamente, torcendo il collo, finché non
inizia a scendere. È rapidissima sul tronco, arriva a terra e s’incammina tenendo
il figlio per mano. Un’immagine in movimento della transizione dalla vita
arboricola a quella terrestre. La sera mi scrive Beat. Mi invia delle cose
che ha scritto, vuole un parere in cambio della sua cortesia. C’è anche un CV,
da cui risulta che è un imprenditore iscritto a Filosofia. I testi che mi
sottopone espongono la sua visione del mondo, mediante assiomi e brevi
proposizioni, passando in poche pagine dalla fisica delle particelle a un
progetto di pace universale.
Esco dal parco per dirigermi a nord, al confine con il
Congo. La mia destinazione è il Parco Nazionale dei Vulcani, dove ho
appuntamento con Veronica Vecellio, una studiosa italiana che da una vita si
occupa dei gorilla. Passo due giorni tra viaggi e attese alle fermate dei
bus, a chiacchierare con i ragazzi locali. Visito le piantagioni di caffè nei
pressi del lago Kivu, al confine con il Congo, dove da giorni arrivano profughi
in fuga da un’eruzione vulcanica.
Arrivo a Musanze. È un altro paese anonimo: due strade principali, la
banca, il distributore di benzina, negozi che vendono tutto e niente, qualche
isolato periferico e un arcipelago di villaggi sparsi tra i campi di patate. Ma
qui si viene da tutto il mondo perché sui monti vive una popolazione di gorilla
che per decenni ha fatto parlare di sé in Occidente. Nel 1966 arrivò Diane
Fossey, la primatologa che sfidò le convenzioni scientifiche e sociali andando
a vivere da sola con i gorilla, legandosi a loro sentimentalmente,
proteggendoli dai cacciatori che li uccidevano per farne cibo e medicine
tradizionali, o li catturavano vivi per venderli agli zoo. Fossey ottenne la
tutela di una piccola gorilla, che chiamò Coco, rimasta orfana dopo l’uccisione
dei genitori. Al momento di riceverla – così raccontò in seguito – trattenne la
voglia di abbracciarla per timore di impaurire l’animale sfiduciato, che infine
si avvicinò spontaneamente:
Coco mi si sedette in braccio calma per qualche
minuto, prima di camminare sulla panca sotto le finestre che davano sui vicini
pendii del Bisoke. Con gran difficoltà si arrampicò sulla panca e guardò la
montagna. All’improvviso cominciò a singhiozzare e a piangere vere e proprie
lacrime, qualcosa che non ho mai visto fare a un gorilla prima e dopo. Quando
si fece buio si avvolse in un nido di piante che le avevo preparato, e
piagnucolò a bassa voce fino a addormentarsi.
L’indomani Fossey trovò l’intera casa sottosopra, ma
gioì per la viva curiosità che aveva portato Coco a aprire tutto e spargere le
cose in giro. In seguito prese in casa un secondo gorilla, Pucker: i due
passarono dall’antagonismo a una bisognosa alleanza, finendo col dormire
abbracciati. Cominciò così una convivenza che per Fossey iniziava ogni giorno
con una fragorosa sveglia alle sette, quando i due gorilla sbattevano i pugni
sulla porta della stanza. La descrizione è quella della vita quotidiana di un
genitore.
Se il tempo era coperto o freddo, passavano un’ora a
mangiare tutti contenti, per poi prepararsi i nuovi giacigli con le piante. Se
c’era il sole chiedevano che li portassi fuori, dove potevano sfogare l’energia
repressa in lotte scalmanate, inseguimenti e arrampicate sugli alberi.
Ma non sarebbe durata a lungo. Fossey aveva ottenuto
la custodia dei gorilla a condizione di restituirli al proprietario di uno zoo
non appena fossero cresciuti. Questo era il solo modo per salvare le loro vite.
Quando li vennero a riprendere sentì di averli traditi e non riuscì a
salutarli:
Scappai dalla capanna, correndo per i prati delle
nostre infinite camminate, corsi nel profondo della foresta fino a non poterne
più. Non c’è modo di descrivere il dolore per la loro perdita, anche ora, più
di dieci anni dopo.
Ci volle molto tempo per riuscire a convincere la
società che i gorilla dovevano restare tra i monti, e provare che avevano
sentimenti come quelli umani, capacità linguistiche e rapporti sociali
complessi fu parte di questo processo. Col suo approccio Fossey interveniva in
un dibattito antico. Molti filosofi greci, come Aristotele e gli stoici,
sostenevano che le bestie prive di linguaggio e ragione, gli aloga,
non rientrano nel campo della giustizia, per cui far loro guerra, cioè
ucciderli per trarne vantaggio, sarebbe giusto. Per molti altri, da Empedocle a
neoplatonici come Porfirio, gli animali sono invece dotati di sensibilità e
ragione, e pertanto andrebbero trattati con pietà, evitando di ucciderli e
mangiarli senza necessità. La questione fu ripresa più volte da filosofi e
scienziati, e riguardò particolarmente i primati. Per Darwin, comprendere la
mente di scimmie e primati era un compito della massima
importanza “metafisica”, poiché ne andava di confutare il primato
dell’uomo. L’orang utan che osservò nei giardini della Società zoologica
di Londra “scalciava e piangeva come un bambino cattivo”; un’altra, Jenny, era
“curiosa”, “gelosa”. Si convinse che gli oranghi capivano il linguaggio
umano. Per Darwin, non c’era dubbio che in molti animali “c’è
compassione nei confronti del dolore o del pericolo altrui”, e che nei
primati vi fosse un vero e proprio “istinto morale” che si sarebbe evoluto
nella nostra “coscienza morale”.
Nonostante queste opinioni del grande naturalista,
l’ipotesi che gli animali non umani abbiano una ricca vita mentale è rimasta a
lungo esclusa dall’etologia, il cui metodo prediligeva la descrizione dei
comportamenti senza congetture sul vissuto soggettivo degli animali. Quando
Donald Griffin pubblicò L’animale consapevole, nel 1976, le sue
tesi che gli animali hanno una coscienza come quella umana suonarono
rivoluzionarie. Ma in tutte le scienze cognitive si stava tornando a parlare di
coscienza e dagli anni Ottanta l’etologia cognitiva divenne sempre più
autorevole e popolare. Parallelamente si ripropose la questione etica della
sofferenza animale, che portò in breve tempo al dibattito ancora
attuale sui diritti degli animali non umani. Insomma, primatologhe come
Jane Goodall e Diane Fossey, per quanto si formassero in un ambiente accademico
ancora chiuso rispetto al riconoscimento del pensiero animale, erano al passo
con un’avanguardia che avrebbe prevalso. Ma non si trattava solo di
convincere gli scienziati. Col suo lavoro Fossey toccò forti interessi
economici, per cui nel 1985 fu assassinata nella sua capanna ai piedi del monte
Bisoke. È seppellita qui, vicino ai gorilla che amò.
Scelgo proprio il monte Bisoke per la mia prima
escursione. La guida, Patience, è un uomo enorme in tuta militare, che avanza
insieme a me e a tre soldati armati di fucili. Mi spiega che a volte si possono
incontrare dei gorilla, ma non è oggi che andiamo a cercarli. I fucili non sono
per loro: la zona è rischiosa, ci sono state incursioni dal territorio
congolese, rapine, morti. Pochi minuti dopo alzo lo sguardo e vedo una strana
sagoma su un ramo. Sembra un uomo molto largo, seduto a gambe incrociate. “He’s
watching you”, sorride Patience, e m’invita a proseguire.
Mentre avanziamo mi parla di Alex Kagame, il filosofo
che ha raccolto molte tradizioni locali, e ha tradotto la Bibbia in
Kinyarawanda, una lingua locale, e che tra l’altro studiò all’Università
Gregoriana di Roma. Kagame fu un critico del regime coloniale e, nel suo Philosophie
Bantu–Rwandaise de l’Être, sostenne che la complicata lingua ruandese
implicherebbe un’ontologia specificamente africana. Mentre parliamo Patience
pianta il bastone nel terreno e si ferma a riposare sotto un albero nodoso. Mi
indica il sentiero che va alla capanna e alla sepoltura di Fossey. C’è un
cartello in sua memoria, che mi fermo a leggere. Ma dobbiamo presto ripartire
per il sentiero che sale. Abbiamo un intervallo temporale molto stretto per
arrivare in cima al vulcano, a 3700 metri, perché verrà a piovere e il ripido
cammino diventerà impraticabile.
Anche qui la vegetazione è densa e stratificata,
avvolta nella nebbia. Mi affaccio da una sporgenza per vedere il cielo: sopra
le foglie delle lobelie vedo altre masse di alberi sospese. Torno al sentiero
stretto e fangoso, che poco avanti scompare nella fredda foschia. Patience si
ferma. Uno dei soldati gli parla dalla trasmittente. Facciamo ancora qualche
passo seguendo una curva: c’è una famiglia di gorilla sul sentiero. Un
maschio di fronte a me, poggiato sui pugni, mi osserva. Dietro ci sono femmine
e piccoli. Il silverback, il maschio anziano dalla schiena argentata, non si
vede. È tra le piante, devo avanzare piano. Ripasso il tutorial linguistico che
ho ricevuto in precedenza. I gorilla hanno una ventina di vocalizzazioni
diverse. Un sospiro profondo e rilassato, come a schiarirsi la gola, è un modo
di dire che siamo in pace. Uno dei soldati lo imita alla perfezione mentre
passiamo tra gli animali, che non sembrano curarsi di noi, ma ogni tanto ci
guardano. Patience dice di far presto. “Se sei con noi sanno che sei un
visitatore, e sono calmi”, spiega. “Ma non avvicinarti troppo, e non fissarli a
lungo”. Ma sono loro che guardano me, mentre passo tra loro.
La società dei gorilla ha una struttura semplice: ogni
gruppo ha di norma un maschio dominante e altri esemplari di ogni età e sesso.
Si spostano continuamente nel territorio, restandosi vicino, e ogni sera
preparano un nuovo rifugio con foglie e rami. Alcuni maschi in età adulta se ne
vanno, formano gruppi propri, a volte cercano di prendere il controllo di altri
gruppi. A questo scopo devono sfidare l’autorità di un silverback,
affrontandolo direttamente o tentando di uccidergli i figli.
Mentre passo oltre mi accorgo del maschio che mi
osserva appostato tra le foglie, mentre mastica un ramoscello verde. Ogni mia
mossa è oggetto di sorveglianza attenta. Anche se non si vedono tra loro, i
membri del gruppo si localizzano a vicenda con suoni e odori. Una rete
sensoriale li unisce in una stretta solidarietà finalizzata alla difesa e alla
cura dei figli. Al tempo stesso, il loro orizzonte sociale è stretto: con gli
altri gruppi convivono a distanza, evitano di mischiarsi, non concepiscono
comunità più estese. In inglese i gruppi di gorilla hanno nomi marziali: troops, bands.
In realtà il loro stato di natura è raramente uno stato di guerra, e capita che
mangino accanto ad altre specie come gli scimpanzé. Ma capitano anche scontri
feroci.
“Fra le bestie, alcune si fanno sempre guerra a
vicenda, altre – come per esempio l’uomo – quando capita”, così scrive
Aristotele. La guerra permanente a cui pensa è soprattutto quella tra predatori
e prede. I conflitti tra i gorilla mi fanno pensare piuttosto a arcaiche faide
patriarcali. Eppure proprio in questi clan col loro grosso grasso maschio
dominante, secondo l’etologo Frans De Waal, si trova l’origine delle nostre
capacità morali. L’appartenenza al gruppo che si ricompatta di fronte ai
pericoli fonderebbe infatti la consapevolezza di appartenere a una comunità
come valore che oltrepassa l’individuo. Le società umane condividono questo
principio, ma possono espandere la comunità morale fino a raccogliere intere
popolazioni, tutti gli umani, altre specie. Da questo punto di vista il
gorilla, che a lungo è stato associato alla violenza brutale, è un personaggio
ambivalente e complesso. Del resto proprio adesso l’animale sta accettando che
io e altri umani passiamo tra di loro, perché sa che non vogliamo nuocere. La
mia impressione è che ci sia di più: quando smette di masticare e mi considera
in silenzio sta ricambiando la mia curiosità, e un certo spaesamento. Mi sembra
anche che si annoi, e di fronte alla novità cerchi di capire cosa viene a fare
lo strano visitatore.
Quando arrivo in cima la nebbia è impenetrabile. Non
si vede il lago nella caldera, né il Congo sull’altra sponda. Comincia a
piovere. Presto ci riavviamo a valle, cercando di non scivolare troppo su
radici esposte e fango sciolto. Mi concentro su piedi e mani, dimentico il
resto, fino al margine della foresta. Salto giù da una radice sull’erba di un
campo, e solo allora inizio a sentire le gambe indolenzite e ritrovo i pensieri
quotidiani, i messaggi sul telefono di persone lontane, l’incertezza delle
parole, le preoccupazioni per il passato, l’inutile, l’irreale: non sono più
leggero. Capisco meglio quel che è accaduto là sopra. Con i gorilla non avevamo
solo da guardarci o annusarci, soprattutto siamo stati insieme, a
goderci la bella giornata, in un’esperienza di ricongiunzione tra viventi
sempre più rara, come una festa silenziosa. Tornato qui alle monocolture umane,
alle strisce d’asfalto, ai rantoli delle marmitte, alle insegne dei negozi
fulminate, al piacere globale del cappuccino, sono in un mondo più povero.
Le strade di Musanze sono piene di ragazzini, e come
sempre finisco con l’andarmene in giro con un corteo di accompagnatori. Due di
loro, Ignace e Claude, mi pregano di andare a visitare il loro villaggio.
Dicono che ci vuole mezz’ora, ci mettiamo più del doppio di buon passo,
avanzando tra sterrati e case con i tetti di lamiera. Un gruppo di vigilanti di
zona chiede informazioni su di me, ci fanno passare. Entriamo in una delle
tante boarding school evangeliche. Ampi cortili erbosi, aule vuote, e un grande
capannone dove stanno riuniti tutti per una specie di spettacolo. A turno
gruppi di studenti e studentesse fanno la loro canzone. I gruppi sono decine,
si fa buio. Ignace e Claude aspettano che dica qualcosa, sembrano ansiosi. Dico
che è molto bello, e che vorrei avviarmi. Ma loro insistono che parli con un
professore, che mi riceve nel suo studio, poi s’incammina con noi.
Andiamo velocissimi e in silenzio verso Musanze,
scambiando qualche parola su studenti e scuola col collega, e finalmente il
professore istruito dai ragazzini mi dà il messaggio: Ignace e Claude
vorrebbero studiare turismo, non hanno però i soldi per la retta. Ecco un tema
del nostro rapporto, che proseguirà per mesi. Loro due, come tanti altri figli
di contadini, trovano nel turismo una promessa di cambiamento sociale, e le
scuole private ne approfittano. Claude e Ignace me li ritrovo mattino e sera di
fronte alla pensione. Tornano col buio, mi spiegano che la madre non li aspetta
per la cena, che lascerà qualche patata lessa: hanno sedici anni, ormai sono
grandi e lei deve badare ai figli minori. Chiacchieriamo di fronte a un frappè
da “Crema”, il locale nuovissimo che sta sulla strada principale. Prima di
ripartire, sulla porta della pensione, mi portano un regalo: un pezzo di legno
nero su cui è scolpito il volto di un gorilla. Ignace dice di averlo fatto lui,
ma ho visto in giro quel souvenir. Il modo in cui guardano il simulacro mi
colpisce: per loro è chiaramente un’entità estranea e di scarso interesse, che
per un caso indecifrabile affascina i bianchi, porta ricchezza, e ci ha fatto
incontrare. Scrivo il mio numero di telefono su un foglietto. Intorno stanno
altri ragazzi che nel frattempo ci hanno seguito: mentre comincio a chiudere il
cancello vedo che iniziano a contendersi il foglietto, spalancano gli occhi,
iniziano a spintonarsi.
L’ultimo giorno sui monti, in cerca di gorilla. Il
gruppo è segnalato su un pendio remoto. Raggiungerli è arduo, si avanza aprendo
cunicoli nella vegetazione solida, il guardiaparco mi aiuta a tirarmi su. Lo
perdo di vista in una strettoia, faccio tre salti avanti ed ecco l’animale
nero. È a pochi passi da me, mi viene incontro. Mi dicono di non toccarlo e
stare fermo. Resto immobile mentre mi passa accanto strofinando il pelo lucido
sul mio fianco. Sento il suo odore forte, inconfondibile. Postura e posizione
fanno parte del modo in cui comunichiamo.
Mi accorgo di altri quattro maschi, siamo circondati.
Sembra di stare tra uomini che parlano un linguaggio straniero, le cui
intenzioni sono imprevedibili. Condividiamo lo stesso spazio, ma a tratti
sembra che siamo in luoghi diversi e non comunicanti. Con l’esperienza e lo
studio, forse, sarei capace di tradurre quel che fanno e pensano. In parte, si
capisce, fanno cose familiari. Uno di loro, un passo sotto di me, sgranocchia
piante dandomi le spalle. Un giovane maschio si sdraia sull’erba, piedi all’aria,
e si riposa al sole. Altri due stanno accucciati tra le piante, bloccandoci la
via del ritorno. Saliamo ancora, entriamo in un boschetto e vediamo un trio di
maschi all’ombra. Uno di loro, il silverback, mi ricorda un mio parente in
Italia, molto attaccato al divano: sta con la testa reclinata, le braccia
incrociate sulla pancia e le gambe mezze stese. Socchiude gli occhi e si
rilassa. Un altro spunta con la testa da sopra una radice, sdraiato di fianco.
Mi fissa con gli occhi nocciola bene aperti. Mi avvicino, gli scatto delle
foto. Continuiamo a osservarci per qualche minuto, prima che decida di girarsi.
Forse si chiede che faccio con quell’apparecchio nero che tengo sugli occhi, e
cosa mi spinga a guardarlo con tanto interesse. Mi rispecchio nel gorilla
attribuendogli dubbi e pensieri simili ai miei; mi pare per un attimo che, al
termine di un viaggio lunghissimo nello spazio e nel tempo, tra noi sia
possibile un’intesa meravigliosa.
Ragionare così, in etologia, è stato a lungo
sospettato di antropomorfismo. Gli altri animali non sono umani, per cui non
possiamo sapere con certezza cosa pensino, e il fatto stesso che pensino
per molti è dubbio. Il darwinismo suggerisce una replica: “se è vero che gli
animali non sono esseri umani, è altrettanto vero che gli esseri umani sono
animali”. La prossimità biologica giustifica una somiglianza psicologica, per
cui di fronte a comportamenti che associamo a certi pensieri non bisogna farsi
scrupoli a prendere sul serio la nostra interpretazione. Negarlo è una forma di
“antropodiniego”, che nasconde un’infondata pretesa di eccezionalità. Certo,
non siamo del tutto sicuri di cosa pensino i gorilla, né di quanto le nostre
traduzioni siano adeguate quando ci diciamo che sono “curiosi”, “divertiti”,
“irritati” e così via. Ma fare ipotesi è pienamente legittimo. Del resto, anche
tra umani la comprensione ha sempre margini d’incertezza e vaghezza. Quando
parliamo di “amore” o “dolore” possiamo intendere cose diverse, e l’esperienza
degli altri non è immediatamente trasparente, eppure non mettiamo in dubbio che
esista e che sia tutto sommato comprensibile. E d’altra parte, gorilla e altri
primati hanno mostrato di poter comprendere molte parole del linguaggio umano,
inclusi concetti astratti. Insomma possiamo capirci su molte cose, con tutto il
fondo d’indeterminatezza che ogni comprensione comporta.
La riflessione sulla morale dei primati pone problemi
simili. Da Darwin a De Waal, la capacità morale umana è stata collegata con i
suoi precedenti nei primati. Per Darwin l’“altruismo reciproco” avrebbe
prodotto benefici di gruppo, e questo ne avrebbe potuto spiegare lo sviluppo.
Ci si domanda però se i primati siano capaci di sentimenti empatici e di
pensieri altruisti. Alcuni esperimenti lo suggeriscono. Le scimmie reso non
accettano cibo se questo produce dolore nei loro simili. Le cappuccine
protestano se ricevono un compenso peggiore delle altre per lo svolgimento di
un compito. Non è chiaro se questi comportamenti implichino il “sentimento
della compassione” tipicamente umano, l’empatia come “scambio di posto nella
fantasia con chi soffre”. Né il senso di un’ingiustizia subita comporta
senz’altro l’idea di una giustizia universale. La questione è complessa. Ci
sono diversi gradi di coinvolgimento nello stato degli altri: il contagio
emozionale, per cui il fastidio istintivo per il disagio altrui ci spinge a
lenirlo in qualche modo, la vera e propria empatia cognitiva, per
cui si capisce cosa prova l’altro, e l’altruismo, per cui si decide di
aiutare un altro mettendosi dal suo punto di vista. Tutti questi comportamenti
possono nascere da emozioni naturali, da pressioni sociali, o da un vero e
proprio ragionamento.
Sembra che l’altruismo presupponga una coscienza della
distinzione tra sé e gli altri che si trova solo in animali come scimmie,
delfini e elefanti, oltre che negli uomini. È comunque difficile capire quando
un comportamento sia accompagnato o motivato da considerazione consapevole. Ma
questa difficoltà vale anche per gli umani. L’azione morale può essere mossa da
pulsioni cieche, calcoli, ideali. Sulle motivazioni altrui possiamo fare solo
congetture più o meno fondate, e spesso raccontiamo a noi stessi di agire con
altruismo quando in realtà non è così. Di certo sappiamo formulare norme
universali e abbiamo una potente capacità di autocontrollo e riflessione
(benché imperfetta, e spesso inutilizzata). Proprio per questo consideriamo
responsabili gli altri umani che si comportano in modo violento e crudele, ed è
del tutto inappropriato dire che si comportano “come animali”, perché l’assenza
di rispetto e di pietà che c’indigna è propriamente umana.
Questo porta al problema della nostra responsabilità
verso gli altri animali. Le nostre società possono essere più o meno
gerarchiche, più o meno ingiuste, non diversamente da quelle di scimmie e
primati; ma in noi c’è la capacità di concepire una comunità che includa chi è
diverso, prima di tutto altri popoli. “La strada per l’amore universale e il
vantaggio reciproco” è “considerare i paesi dove vivono gli altri popoli come
fossero il proprio”, scriveva già il pensatore cinese Mozi. Certo la distanza
indebolisce il senso di quella distanza, e cosa accade in Cina importa
normalmente meno all’Europeo di quel che avviene nel suo paese. Le emozioni non
hanno lo stesso raggio d’efficacia della ragione, ma esperienza e riflessione
possono forse aumentarlo. Lo stesso vale per il rapporto con gli altri animali:
lo sforzo d’immaginarne i pensieri fa parte dell’obiettivo di stabilirne dei
diritti.
Peter Singer ripropose cinquant’anni fa la questione
dei diritti degli animali rispetto a pratiche come il maltrattamento, la
vivisezione, l’allevamento di carne. Parlò di “liberazione animale”,
riprendendo il paragone aristotelico tra schiavi e bestie. Quel paragone è
controverso: alcuni insistono sulla discontinuità tra i due casi, sottolineando
che gli animali non umani non potranno mai diventare membri effettivi della
società, a differenza degli schiavi liberati, né rivendicare i propri diritti.
Resta l’esigenza di conferirli, questi diritti, rompendo con tradizioni
millenarie che hanno fatto degli altri animali degli esseri naturalmente
subordinati, riserve di cibo ed energia che si possono sfruttare
indiscriminatamente, strumenti da colpire se mal funzionanti. Capire il raglio
dell’asino, il tocco di ringraziamento della balena liberata dalle reti, il
pianto dell’elefante orfano, diventa decisivo.
Il caso dei primati è singolare, perché la loro vicinanza biologica è saldamente
incarnata nel nostro apparato cognitivo. Darwin già accostava la comprensione
delle emozioni a quella dell’espressione facciale. Lo confermano le recenti
scoperte sui neuroni–specchio, che si attivano quando percepiamo un altro che
svolge un’azione e quando compiamo quella stessa azione: le emozioni tendono a
riprodursi in noi quando osserviamo certe espressioni sul volto, ma questo vale
solo per i nostri simili, come uno scimpanzé. La nostra vicinanza è profonda,
la distanza è sottile.
Si torna allora alle domande sollevate dalla vita di
Fossey: quanto possiamo capirli? Come possiamo legarci a loro? Fossey
affrontò la questione nel libro autobiografico Gorilla nella nebbia,
popolarizzato nel film con Sigourney Weaver che ne è stato tratto, e ha lasciato
un’eredità vivissima. Il Diane Fossey Gorilla Fund è ancora oggi una delle
istituzioni più solide e prestigiose per lo studio e la conservazione dei
gorilla di montagna. Proprio qui lavora la persona che sono venuto a
incontrare, e a cui giro le mie domande. Veronica Vecellio è nata a Roma come
me, ma per oltre vent’anni ha studiato scimmie e primati in diversi paesi
africani. Lavora dal 2005 al Diane Fossey Gorilla Fund, dove oggi dirige le
pubbliche relazioni.
La incontro per un caffè da “Crema”. Per un po’ conversiamo di Roma, delle
nostre vite private, di conoscenze e letture comuni. Ha l’accento lievemente
apolide di chi vive da tanto lontano dal paese d’origine, e uno sguardo
d’incondizionata curiosità. Le domando come ha deciso di studiare i gorilla. “Ho
sempre avuto una speciale connessione con gli animali. Sono cresciuta e ho
trovato me stessa nel rapporto con gli animali e nell’esplorare la natura, e mi
è sempre piaciuto farlo da sola. Questa mia passione, che solo quando anni dopo
si è concretizzata in carriera, l’ho riconosciuta come dote solo da adulta.
Prima vivevo un po’ come un’estranea e mi sentivo strana! Faticavo a trovare il
mio posto e la mia motivazione nella società urbana di Roma, che ho amato ma
sempre con un sentimento di non appartenenza. Così appena ho maturato l’idea
che potevo andarmene non ho esitato a farlo. Non mi spaventavano gli sguardi
allibiti della gente o frasi di preoccupazione, io da quel momento in poi non
avevo nessun dubbio”.
“Perché i gorilla?”.
“Ero affascinata dalla storia di Diane Fossey. Ho visto il film Gorilla
nella nebbia e mi è scoccata l’idea che volevo essere come lei,
avvicinarmi ai gorilla ed essere parte della natura selvaggia africana”.
“Com’è il tuo legame con i gorilla, quanto è stato importante nella tua
vita?”.
“Il rapporto con i gorilla ha completamente plasmato la mia vita tanto da
diventare la mia identità. Il contatto personale non è la cosa che mi ha
cambiato, anche se non ne ho avuti tanti; il fatto che davvero sento mio è
condividere la natura con i gorilla. Mi spiego meglio. Quando sono con i
gorilla e loro mi ignorano e continuano a fare le loro cose quello è
davvero il momento in cui mi sento ‘io’, esattamente dove e come voglio essere.
Non condivido la necessità di creare un contatto personale, essere toccata o
avere un rapporto di curiosità e affetto, quello che davvero mi fa felice è
vivere ed essere parte della natura senza modificarla. I gorilla di montagna in
Ruanda sono stati abituati all’uomo da anni, da quando Diane ha iniziato a
avvicinarli. Non si è trattato per loro di una convenienza pratica, come il
fatto di ricevere cibo. È stato un processo naturale ed ora l’uomo è accettato
dai gorilla come parte del loro ambiente. È pazzesco!”
“Negli studi sugli altri animali, e in particolare sui
primati, si discute spesso dell’opportunità o del rischio di proiettare
eccessivamente le categorie e le emozioni umane. Tu che ne pensi?”.
“Antropomorfizzare i comportamenti animali è la cosa più naturale del mondo e
non ci vedo niente di sbagliato fintanto che il comportamento che stiamo
antropomorfizzando è davvero simile al nostro. Prendi i gorilla: condividiamo
con loro la maggior parte del nostro patrimonio genetico e condividiamo con
loro un’evoluzione comune. Il loro aspetto, la loro fisiologia e anatomia e il
loro modo di comunicare sono simili a quelli umani. Per questo moltissimi
comportamenti ed espressioni sono facili da interpretare. In questo senso dare
un significato umano ai comportamenti dei gorilla e qualsiasi altra specie
di scimmia antropomorfa non soltanto ha senso; facendolo, oggettivamente li
comprendi meglio dal punto di vista scientifico. Ti faccio degli esempi. Quando
un gorilla muore e i componenti del gruppo restano con il corpo del defunto,
noi diciamo che stanno elaborando il lutto, ed è assolutamente vero. Lo fanno
in modi diversi, chi più e chi meno. Anche la varietà di personalità e
comportamenti è molto simile a quella dell’uomo. Ti racconto la storia di
Fashya. Quando aveva 4 anni è rimasta intrappolata in una trappola per
antilopi, quando l’abbiamo liberata le è rimasta una gravissima ferita al
piede. Non riusciva a camminare. Fashya era rimasta orfana di madre pochi mesi
prima. L’amica Icyororo era sempre al suo fianco per aiutarla a camminare. Un
giorno le abbiamo viste mentre attraversavano un fiume: Fashya non ci riusciva
e Icyororo le ha porto la mano e l’ha tirata dall’altra parte. Mentre le due
giovani stavano attraversando il fiume, loro padre (il padre adottivo) le
aspettava insieme a tutti gli altri del gruppo. Oggi Fashya e Icyororo hanno 9
anni e Fashya si è ripresa dalla ferita. Chiamiamo il loro rapporto amicizia e
io non trovo un termine che sia più adatto”.
“Mi ha colpito
scoprire che nella società dei gorilla c’è una struttura fortemente gerarchica,
e che i maschi possono uccidere i figli degli altri allo scopo di prendere il
controllo del gruppo. Forse nei gorilla vediamo qualcosa di simile e
inquietante, e nello stesso tempo qualcosa che siamo capaci di superare?”.
“Una delle cose più affascinati dell’osservare una specie non umana è cercare
di capire le strategie di successo sociale e le politiche interne. I gorilla
hanno delle società fortemente incentrate sul nucleo familiare. Questo ha dei
pro e contro dal punto di vista umano (mentre dal punto di vista naturale tuttoè
pro). Ogni adulto del gruppo darebbe la vita per la protezione dei piccoli.
I maschi, essendosi evoluti con una taglia più grande per il loro ruolo di
protettori, usano la loro stazza per mantenere ordine e per proteggere dagli
attacchi esterni. La gerarchia è una strategia di mantenimento dell’ordine e funziona
molto bene. Il silverback dominante guida e protegge e allo stesso tempo
si mantiene attraente per le femmine che si devono sentire al sicuro.
L’infanticidio avviene quando un maschio esterno alla famiglia entra nel gruppo
con l’obbiettivo di attrarre femmine e di formare un suo gruppo o ingrandire
quello che ha. Uccidendo i piccoli riporta le femmine allo stato fertile, che
la femmina perde dal momento del parto per 3–4 anni durante l’allattamento.
Inoltre quando una femmina perde un piccolo per un incidente così grave
normalmente cambia gruppo perché non si sente più protetta. Insomma alla base
di tutta l’organizzazione sociale c’è la protezione dei piccoli
dall’infanticidio! Quindi anche se questa è una strategia usata (raramente) dai
gorilla per attrarre femmine, è pure il fattore decisivo per cui i gorilla
preferiscono stare in gruppo”.
“Hai avuto episodi (positivi o negativi) in cui le tue
aspettative sul comportamento dei gorilla sono state spiazzate?”.
“Sì, parecchie volte. Ti voglio raccontare di Maggie, una femmina eccezionale.
Quando il maschio dominante del suo gruppo, si chiamava Bwenge, è stato
ucciso da un altro silverback, lei (cosa rarissima) ha preso le redini del
gruppo di otto gorilla. Non solo è riuscita a proteggere tutti dal silverback
che ha ucciso Bwenge, ma, quando si è imbattuta in altri silverbacks solitari
che volevano approfittare della situazione, non si è arresa: l’abbiamo vista
correre alla carica di silverbacks molto più grandi di lei per proteggere il
gruppo. Quando Maggie ha finalmente trovato un altro gruppo dove si è sentita
al sicuro ha smesso di lottare. Il suo gruppo si è unito a quest’altro, guidato
dal maschio Ugenda. Maggie però non voleva restare e quando ha potuto se n’è
andata da sola e così è rimasta fino a che siamo riusciti a seguirla. Io e gli
altri ricercatori, che hanno avuto la fortuna di seguire la vicenda, siamo
rimasti sbalorditi dalla personalità di questo gorilla che ha messo in salvo la
sua famiglia e poi ha continuato da sola”.
“Qui c’è l’istinto del gruppo, ma anche un individuo
che va oltre”.
“Ho tanti altri esempi, come quello di Giraneza, il silverback che uccideva
altri silverback, un vero serial killer. Un comportamento mai visto prima. Alla
fine è morto di polmonite e nessuno di noi ha pianto, dato che aveva ucciso
quattro silverbacks a sangue freddo, una cosa terribile”.
“Passando poco tempo con questi animali ho avuto un assaggio di una sensazione
gioiosa, di pacifica convivenza tra diversi nel medesimo ambiente, qualcosa che
mi sembrava avvenire al di qua del linguaggio e della razionalità. Per
trent’anni hai approfondito questa esperienza: potresti farne a meno o farà
sempre parte della tua vita?”.
“Sarà sempre la mia vita sia sul campo che fuori. Abbiamo il dovere di proteggere
i diritti degli animali, e io contribuirò sempre in qualche modo alla loro
conservazione. Il senso di famiglia che si sente quando si sta con i
gorilla va al di là di ogni concezione del regno animale che si può ricavare da
una conoscenza impersonale. Osservare cosa significa famiglia per un’altra
specie è veramente qualcosa di unico: capisci i sentimenti, i modi di
comunicare, le diverse personalità e i diversi rapporti, chi si piace di più e
chi meno. Non ci si stanca mai. Tu lo hai vissuto e così succede ai fortunati
che possono venire a visitare i gorilla di persona e senza barriere.
Dicono che è un’esperienza che cambia la vita: è proprio così”.