Le circa centomila persone che hanno preso parte alla grande marcia per la
pace Europe For Peace del 5 novembre a Roma, hanno dato vita a
una vera festa della partecipazione; uno di quei momenti che,
insieme all’occupazione studentesca della facoltà di Scienze Politiche de La
Sapienza avvenuta solo qualche giorno prima, segna una discontinuità nella
fitta trama apatica e depressiva del capitalismo senza sogni, senza speranze e
senza alternative di questa prima metà di secolo. La marcia è stata
un’occasione magica e inaspettata di comunione di scopo, se non proprio di
visioni politiche e strategiche che, anzi, erano piuttosto diverse fra loro. A
esemplificare questa diversità è stata la contemporanea presenza del segretario
del Pd Enrico Letta, convinto fautore dell’invio di armi all’Ucraina; e di
Giuseppe Conte, leader del M5S, che ha iniziato a opporsi al coinvolgimento
bellico indiretto dell’Italia, ancorché timidamente. In strada c’erano
movimenti e anche liste elettorali fortemente critiche verso l’invio di armi, e
più in generale verso una politica internazionale filo-atlantista che sembra
schiacciata sugli interessi Nato; e altri movimenti e organizzazioni convinte
invece della necessità di armare l’Ucraina per strappare la pace alla Russia, e
di farlo in un quadro di adesione all’alleanza atlantica. Posizioni che,
eccezion fatta per la piattaforma promotrice e i gruppi che più la animano e
che più vi si riconoscono, come Rete Italiana Pace e Disarmo e Movimento
Nonviolento, che sono disarmisti esigenti, spesso si mescolano
all’interno di una stessa organizzazione. Ad animare questo corteo composito
c’erano CGIL e ANPI, Emergency e Greenpeace, Libera e Sbilanciamoci, ARCI e
Rete dei Numeri Pari, Unione Popolare, Comunità di Sant’Egidio e molte altre
ancora. Altri, come i movimenti romani per il diritto all’abitare, Fridays for
Future e la campagna contro il caro-bollette Noi Non Paghiamo, pur condividendo
le ragioni della manifestazione di Roma, erano a Napoli per la tappa campana di
mobilitazione nazionale di “Insorgiamo”, promossa dal collettivo di fabbrica
dei lavoratori e delle lavoratrici ex-GKN. L’assenza delle organizzazioni animaliste
e antispeciste da entrambe le piazze è passata pressoché inosservata.
La mancanza dell’animalismo e dell’antispecismo italiano dalle
manifestazioni – come quella di novembre – “umaniste” (cioè quelle
che si pensano di interesse solo umano), è la norma (in questo
articolo “animalismo” e “antispecismo” sono utilizzati come sinonimi, mentre
non lo sono affattoi, e comprendono più fenomeni che hanno in comune
l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli animali non umani). Si
registrano, ovviamente, partecipazioni isolate e sporadiche; ma queste
partecipazioni sono la classica eccezione che conferma la regola, e la regola è
che gli attivisti e le attiviste animaliste e antispeciste sono o
disinteressate rispetto alle lotte umaniste, che considerano irrilevanti per la
causa animale; o troppo poco convinte che tali lotte siano in realtà rilevanti
anche per la loro causa.
In occasione delle proteste antirazziste negli Usa, durante l’estate del
2020, da cui emerse il movimento Black Lives Matter, rispondendo a chi li
criticava per non essersi esposti a favore della comunità afroamericana e
povera in lotta, l’organizzazione internazionale antispecista abolizionista
Anonymous for the Voiceless scrisse pubblicamente che non vedeva ragione di
spendersi su questioni non strettamente animaliste dato che la sua missione è
di occuparsi esclusivamente degli animali non umani; e che esistono già
centinaia di realtà attive sui diritti umani, assumendo quindi che il loro
supporto non fosse necessario.ii A rendere dubbio che si trattasse semplicemente
di una divisione di compiti fra organizzazioni animaliste e umaniste, c’è un
contenuto social, pubblicato in quel periodo, in cui Anonymous confessò di non
credere all’esistenza del razzismo sistemico negli Usa.iii La marcia indietro compiuta quando
l’organizzazione era stata ormai travolta dalle critiche non rende meno facile
immaginare che in Anonymous e nelle realtà antispeciste a essa analoghe la
motivazione a prendere posizione e agire in favore delle altre lotte non sia
particolarmente elevata. Ma l’assenza dell’antispecismo dalle piazze umaniste –
e questo è il nocciolo della questione – è un fenomeno quasi bipartisan.
Benché in queste piazze capiti di imbattersi in singoli attivisti e attiviste e
in organizzazioni informali e gruppi più piccoli, infatti, le grandi
associazioni animaliste e antispeciste, anche quelle che hanno posture e valori
progressisti, sono quasi sempre assenti. La loro partecipazione si riduce
perlopiù a social media managing e all’adesione moralistica a una concezione
distorta dell’intersezionalità come pratica di virtù individuale senza
concretamento politico. A monte del problema si può scorgere l’infiltrazione
del neoliberalismo e della sua carica spoliticizzante in seno al movimento, che
disgrega e atomizza illudendo invece di unire e comporreiv. La scarsa coscienza politica dell’attivismo
animalista e antispecista di base, spesso estraneo alla dimensione di piazza,
si riflette nella tendenza anti-popolare da parte delle organizzazioni più
strutturate che seguono inerti la virtualizzazione della partecipazione,
schiacciata sulla dimensione social e incapace di aperture
al sociale. La trasversalità politica e il qualunquismo delle
sigle, così funzionale ad attrarre sostenitori e donazioni, limita il movimento
all’attivismo single-issuev, confermando il pregiudizio diffuso che animalismo e
antispecismo siano preoccupazioni da “amanti degli animali” piuttosto che
questioni di interesse generale. Eppure i tempi sarebbero maturi
per cambiamenti radicali.
Dopo la fine del primo movimento alter-mondialista e nonostante la
repressione in atto da parte degli ultimi governi, infatti, siamo entrati in un
nuovo periodo di mobilitazioni, in cui l’esperienza dei forum dei
movimenti sociali da una parte, e l’irruzione dei nuovi movimenti ambientalisti
sulle scene dall’altra, hanno aperto spazi di manovra prima impensabili che
animalismo e antispecismo potrebbero sfruttare per crescere e assumere maggiore
importanza sociale. Mentre animalisti e antispecisti li criticavano perché
non promuovevano abbastanza il veganismo, o li cooptavano con il pretesto
dell’intersezionalità onde imporgli la propria agenda, movimenti come Fridays
For Future ed Extinction Rebellion portavano in
strada centinaia di migliaia di persone, molte delle quali teenager, ventenni e
trentenni mai state attive prima. La progressiva saldatura fra nuovi movimenti
ambientalisti e lotte sociali ha poi mostrato che le questioni ambientali sono
di interesse innanzitutto per le classi subalterne, e ha affrancato le
battaglie “verdi” dalla dimensione della conservazione borghese e del consumo
individuale virtuoso per consegnarle a quella della giustizia ambientale e dei
diritti delle popolazioni MAPA (Most Affected People and Areas)vi. Ancorché ambiguo, l’ideale del “movimento dei
movimenti” è tornato ad attraversare strade, piazze e organizzazioni esplodendo
nella “Ribellione” di Londra del 2019vii.
Anche quando ha simpatizzato con i nuovi movimenti ambientalisti, la lotta
per i diritti e la liberazione animale è stata condotta sulla base di
presupposti idealistici e neoliberali che l’hanno resa irricevibile negli
ambienti popolari e presso molti movimenti e organizzazioni che si occupano di
giustizia sociale. L’isolazionismo settario è comunque stata la cifra della partecipazione
di animalisti e antispecisti a Climate Strike e simili, con
mini-spezzoni slegati dal contesto e slogan e messaggi critici più nei
confronti dei compagni e delle compagne di piazza che di governi e aziende. La
diffusione di negozi e ristoranti, influencers, intellettuali da salotto e
fiere del consumo cruelty-free non buca la filter bubble del
veganismo di mercato e asfissia mentre illude di magnifiche sorti e
progressive. L’escatologia animalista confida nelle aziende di alternative
vegetali ai prodotti animali e diserta assemblee, “punte materiali”viii e piazze che, dopo le grandi manifestazioni
degli ultimi decenni (quella contro Green Hill su tutte), non sa e non può più
riempire. Laddove in piazza si va ancora, si va troppo spesso per
convincere più persone possibili a cambiare stile di vita e di consumo, per
dare un “segnale” al mercato che si pensa, come da professione di fede
liberale, risponda adattandosi all’onda veg e sfornando sempre meno salsicce e
cotechini. Invece di cambiare il sistema che genera sfruttamento si cerca di
“normalizzare” il veganismo, che in un sistema ingiusto e irrazionale come
quello capitalistico significa rendere ingiusto e irrazionale anche il
veganismo. Ne nasce un antispecismo dal volto pulito e rassicurante, non solo
socialmente presentabile ma soprattutto socialmente subalterno alle classi
dominanti e al Capitale di cui, interessato com’è soltanto alla sua lotta (e
concependo la lotta per i diritti e la liberazione animale come totalmente
disgiunta e nettamente distinguibile dalle altre), tenta di guadagnare i
favori. A parte alcuni gruppi frammentati più coscienti (ma troppo spesso
caratterizzati da forme anarchiche di rifiuto acritico verso l’azione
politica), le grandi associazioni sono le uniche a interessarsi della
modificazione del sistema giuridico ed economico che preserva ed eterna lo
sfruttamento animale. Ma, come detto sopra, lo fanno con un approccio
politicamente trasversale e in un’ottica single-issue tipicamente liberale che
le integra al sistema impedendo loro di incidere sulla sua struttura
fondamentale. La chiusura dei loro processi decisionali interni rende queste
associazioni assimilabili a vere e proprie organizzazioni aziendali, cui in
effetti assomigliano sempre di più, che invece di includere escludono perfino
soci e tesserati con cui non concertano azioni, progetti e campagne. Gli
attivisti sono ridotti a semplici figuranti adibiti a reggere un cartello o uno
striscione a favore di foto e di social, clienti da
ingraziarsi affinché comprino un prodotto concepito, realizzato e confezionato
altrove. Così facendo, le “sigle” abdicano al compito di organizzazione – se
non politica, almeno attivistica – che dovrebbero svolgere e che sarebbe
necessario svolgere per rivitalizzare un movimento in stato comatoso, ridotto a
esultare per l’introduzione di un panino vegano in qualche catena di fast-food.
In questo contesto le lamentazioni sulla divisione del movimento e le litanie
sulla necessità dell’unione, che certo assicurerebbe maggiore efficacia ma che è
assolutamente impossibile senza che si chiariscano prima i presupposti sui
quali unirsi (e con essi la definizione dei problemi e della strategia di
lotta), non sono altro che manifestazione di impotenza e frustrazione, e di
nostalgia dei bei tempi andatiix. Di più: sono espressione della diffusa apoliticità
del movimento e della spoliticizzazione di chi vi era entrato nutrito di
qualche cultura politica andata perduta, nel tempo, dietro a questa o quella
ricorrente emergenza – l’animale da salvare, il rifugio da
difendere – che invariabilmente cattura sforzi e attenzioni fino a tramutarsi
nel suo contrario, cioè nello status quo emergenziale. In
base allo status quo emergenziale si giustificano alleanze e collaborazioni,
perlopiù impossibili per i movimenti umanisti, come quelle con persone e
organizzazioni di estrema destra che, con il pretesto di fornire aiuto
durante l’emergenza, si infiltrano nel movimento conquistando simpatie,
tessendo relazioni e guadagnando contatti e crediti da riscuotere al momento
opportuno. Via via che i movimenti sociali umanisti chiariscono a sé stessi la
comune appartenenza al più ampio movimento che intende cambiare lo stato di
cose esistenti, malgrado il maldestro opportunismo con il quale ha saputo
parlare (non senza forti critiche interne: per qualcuno, la querelle fra
argomenti diretti e indiretti è ancora in auge) del legame fra sfruttamento
animale e crisi sanitaria, crisi sociale ed eco-climatica, l’antispecismo
rischia perciò di finire ancor più isolato di quanto non sia ora. Come
evitare l’irrilevanza sociale e politica? Dobbiamo ammetterlo, non resta che il
suicidio: l’antispecismo deve morire.
L’antispecismo dovrebbe suicidarsi e cioè, al contrario di quanto sostenuto
da Anonymous for the Voiceless e dagli antispecisti morali e non intersezionali
in generalex, tralasciare o almeno mettere in secondo piano ogni
questione prettamente “animalista” che non sia in grado di inceppare il
meccanismo che crea e riproduce universalmente ingiustizia e sfruttamento;
meccanismo che possiamo senz’altro individuare nel capitalismo. Se è
vero infatti che il superamento del capitalismo non è condizione sufficiente al
superamento dello specismo e dello sfruttamento animale, è però vero che ne è
condizione necessaria: sembra altamente improbabile che un modo di
produzione che si basa sul processo di auto-valorizzazione infinita, sulla
reificazione e sulla mercificazione dell’esistente e che non si cura di
calpestare i diritti della specie umana (quella che, secondo l’antispecismo
moralista e misantropo, sarebbe invariabilmente privilegiata rispetto alle
altre) possa permettere la liberazione delle specie meno consideratexi. Questa consapevolezza, benché relativamente diffusa,
non si è ancora tradotta in una rivisitazione delle pratiche di lotta, che
insistono sul ricorso all’azione diretta e sulla politica prefigurativa di
rifugi e collettivi sempre più settari; e che al massimo si spingono, come nel
caso della celebre campagna SHAC (Stop Huntingdon Animal Cruelty) e di Animal
Rebellion UK, contro specifiche aziende o filiere produttive locali. Nel loro
“Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro”, Nick Srnicek e Alex Williams
hanno descritto questo tipo di attivismo con l’espressione folk
politics. “Per rispondere alle astrazioni e alla violenza del capitalismo,
la folk politics punta a riportare la politica a una ‘scala umana’ enfatizzando
un’immediatezza che è contemporaneamente temporale, spaziale e concettuale.
Fondamentalmente – scrivono – il ragionamento alla base della folk politics è
che questa immediatezza sia sempre preferibile, oltre che più ‘autentica’, con
il sentimento corollario che astrazione e mediazione siano inevitabilmente
sospette”xii. Da qui, il rifiuto per ogni forma di rappresentanza,
dalla democrazia parlamentare partitica fino all’organizzazione “gerarchica” e
meno che spontanea. “In termini di immediatezza temporale, la folk politics è
generalmente reattiva (nel senso che piuttosto che agire di propria iniziativa,
tende a rispondere alle azioni compiute da corporation e governi); ignora gli
obiettivi strategici a lungo termine in favore di tattiche di corto respiro
(mobilitandosi per singole rivendicazioni o enfatizzando il processo stesso
della mobilitazione); favorisce spesso pratiche intrinsecamente a breve termine
(come occupazioni o zone autonome temporanee). Infine predilige come spazio di
autenticità il “locale” (come nel caso dell’alimentazione a chilometro zero, o
delle valute locali); al grande preferisce il piccolo (celebrando la comunità
su piccola scala e l’impresa autoctona); favorisce progetti comunitari non
riproducibili su scala più ampia (per esempio, assemblee generali e forme di
democrazia diretta); e tende a rigettare qualsiasi progetto egemonico,
valorizzando la fuga e il ritiro interiore a scapito della controegemonia di
ampio respiro”xiii. Un’analisi che si adatta non solo alle
(dis)organizzazioni antispeciste di sinistra, ma anche ai movimenti sociali
umanisti dagli zapatisti a Ultima Generazione, passando per 15M e Non Una di
Meno. È la sinistra neoliberal e/o “antiautoritaria” nata dalla crisi dei
partiti e dei metodi di organizzazione tradizionali, ma anche (e forse
soprattutto) dall’ideologia della “fine delle ideologie”: retorica antipolitica
diffusasi già dagli anni ‘90 del secolo scorso, così cara al neoliberismo e in
cui echeggiano ideali anarchici, che ha preteso l’irrilevanza della distinzione
fra destra e sinistra. “Di sinistra”, infatti, alcuni di questi movimenti non
si sono mai dichiaratixiv. Da questo punto di vista, animalismo e antispecismo
non sono poi così diversi dalle altre lotte single-issue che, anzi, presentano
livelli simili di spoliticizzazione. Difatti la condizione dei movimenti
umanisti non è molto migliore rispetto a quella dell’animalismo e
dell’antispecismo. “Trent’anni di lotte ‘dal basso’, di impegno ‘individuale’
in ambito di politica del lavoro – scriveva Marco Maurizi ormai dieci anni fa –
hanno portato allo smantellamento dei più elementari diritti dei lavoratori
costruiti in duecento anni di politica ‘alienata’ […] Se l’antispecismo aspira
ad ottenere gli stessi risultati dell’antirazzismo e dell’antisessismo si
condanna all’irrilevanza sociale e a farsi mero movimento di testimonianza
esistenziale. Con buona pace dei suoi propositi di liberazione “definitiva”
degli animali”xv. Eppure, nella retorica tambureggiante della
“convergenza” e dell’“intersezionalità” delle lotte sembra profilarsi, sia pure
ancora inconsapevolmente, un’insoddisfazione nei confronti di forme
organizzative che purtroppo si sono rivelate fondamentalmente inefficaci,
perlomeno se l’obiettivo era quello di sovvertire l’ordine capitalistaxvi, che potrebbe portare a qualcosa di nuovo. Si tratta
di non cedere alla fascinazione particolarista (il “movimento dei movimenti”
sarebbe tale) che consentirebbe al massimo forme repubblicane di federalismo;
ma di riscattare un ideale e una forma organizzativa universali e
contro-egemonici, centralizzati ma non burocratici, che operino dentro e fuori
dai palazzi del potere: il che si staglia come necessità storica al di là della
nebbia dell’“orizzontalità” dogmatica, dietro cui si nascondono velleità
individualistiche radicalmente neo-liberali. Come dicono gli operai ex-GKN, ciò
che serve è diventare classe dirigente.
Ovviamente non si tratta di trascurare tutto il resto per concentrarsi solo
sull’obiettivo finale del superamento del capitalismo e dell’affermazione di
una società non basata sul profitto: se non altro perché a questo obiettivo si
arriva per gradi. “Se gli uomini risparmiano per i propri figli, il loro fine
principale è di assicurar loro i mezzi di sussistenza. Se dopo la morte dei genitori
i figli avessero ciò di cui hanno bisogno, i genitori non si preoccuperebbero
di lasciar loro i mezzi necessari per vivere; ma finché ciò non accade,
l’abolizione del diritto di proprietà non farà che generare difficoltà; essa
irriterebbe e impaurirebbe la gente e non sarebbe di alcuna utilità. Invece che
l’inizio, questa misura può soltanto essere la conclusione di una rivoluzione.
Dapprima devono venir create le condizioni per la socializzazione dei mezzi di
produzione.xvii” Il problema è che, al momento, animalismo e
antispecismo non hanno neanche iniziato a lavorare alla creazione delle
condizioni per la socializzazione dei mezzi di produzione; in effetti, la
maggior parte degli attivisti e delle attiviste non la comprende nemmeno, e se
la comprende non la desidera e non la ritiene propedeutica alla realizzazione
di una società più equa, meno crudele e più solidale per gli individui di ogni specie.
Tradendo i suoi propositixviii, la lotta per i diritti e la liberazione animale di
sinistra non si è ancora elevata dal piano delle mille battaglie particolari,
dell’“economicismo” e del “sindacalismo” animalista e antispecista, dalla
condizione passiva della reazione e della resistenza a quella attiva
dell’azione, dell’universalismo e della politica rivoluzionaria. Proprio per le
difficoltà che essa incontra nel portare avanti la sua lotta in una società
profondamente specista e contraddistinta dal modo di produzione capitalista,
però, l’antispecismo si trova nelle migliori condizioni per compiere il salto
verso la lotta unitaria, rinunciando a sé stesso. Così facendo, esso
indicherebbe il cammino a tutte le altre lotte sociali, e si realizzerebbe come
loro avanguardia. Perché ciò avvenga noi animalisti, noi antispecisti e
antispeciste dovremo imparare a disprezzare la nostra piccola felicità, così
faticosamente conquistata, e imboccare la via della transizione e del tramonto.
Saremo in grado di farlo?
“Della morte, in realtà, nessuno può sapere con sicurezza neanche se sia il
supremo bene toccato all’uomo, e tuttavia vien temuta nella certezza che sia il
supremo male”xix.
i Per chiarire le differenze fra animalismo e antispecismo si legga
Marco Maurizi, “La filosofia dei cani. Animalismo o Antispecismo?”, Edizioni
Lulu, 2015. Si legga anche Sabina Tonutti, “Diritti animali: storia e
antropologia di un movimento”, FORUM Udine, 2007, che aiuta a ridimensionare
una differenza che per alcuni antispecisti sembra diventata più una faccenda
identitaria che di analisi storica e filosofica.
Note
ii Protesters, Pigs & the Diversity Problem in Animal Welfare
(sentientmedia.org)
iii 3MT: Anonymous for the Voiceless & Racism – YouTube
iv Sul tema si legga l’articolo scritto con Marco Maurizi, “Politiche
della relazione”. Politiche della relazione – Comune-info
v Cioè a quello interessato a singole questioni, a materie specifiche,
e privo di un impianto teorico e programmatico complessivo.
vi Per esempio: What is MAPA and why should we pay attention to it? –
Newsletter – Fridays For Future
vii A Movement of Movements for the October Rebellion – Extinction
Rebellion UK
vii Gli appuntamenti per preparare materialmente
l’attrezzatura per azioni, cortei, scioperi e manifestazioni
ix“Bei tempi andati” che davvero belli non sono mai stati. Dopo Green Hill,
il movimento animalista si è diviso quasi spontaneamente anche per via
dell’emergere di gruppi destroidi e per l’approfondirsi della coscienza
politica progressista e, in alcuni casi, apertamente di sinistra di altri
gruppi. Prima di tale divisione, comunque, semplicemente non si notavano, o si
notavano di meno, contraddizioni che oggi, fortunatamente, sembrano sempre più
palesi.
x Cioè che come animalisti e antispecisti dovremmo interessarci
soltanto alle questioni che attengono direttamente alle condizioni e allo
status degli altri animali perché mentre esistono moltissime realtà attive sui
diritti umani non è lo stesso per quelle attive sui diritti animali.
xi Su questi aspetti si legga Marco Maurizi, “Al di là della natura. Gli
animali, il capitale e la libertà”, Novalogos, Aprilia, 2011
xii Nick Srnicek, Alex Williams, “Inventare il futuro. Per un mondo senza
lavoro”, Nero, Roma, 2018, pp. 21, 22
xiii Ibidem
xiv E tuttavia, ai fini di un loro inquadramento teorico, per molti
aspetti lo sono senz’altro. Il punto è di quale sinistra
siano, se quella liberal-progressista, quella cristiana e cattolica di
sinistra, quella comunista libertaria e anarchica, o quella socialista; e che
conseguenze abbia sul loro agire il fatto che non sempre si riconoscano e/o non
si dichiarino di sinistra.
xv Marco Maurizi, “L’antispecismo non esiste. Storia critica di un
movimento fantasma”, Asinus Novus, vol. 1, n. VI, luglio/agosto 2012
xvi E non lo era quasi mai, ragion per cui molti di questi movimenti sono
ancora attivi.
xvii Karl Marx, negli atti della seduta del 20 luglio 1869 del Consiglio
Generale della Prima Internazionale. In Karl Marx, Friedrich Engels, “La
critica dell’anarchismo”, PGRECO EDIZIONI, Milano, 2016, pp. 279, 280.
xviii Per esempio: “Contro la falsa opzione impostaci tra il welfarismo e
l’abolizionismo vegan rivendico un approccio olistico che integri veganismo e
liberazione animale all’interno di un progetto politico più vasto che abbia
come obiettivo l’abolizione del capitalismo e della dominazione gerarchica”.
Steven Best, “Liberazione totale. La rivoluzione del 21° secolo”, Ortica
editrice, Aprilia, 2017, pag. 99
xix Platone, “Apologia di Socrate”, BUR, Milano,2007, pag. 139
da qui