sabato 31 dicembre 2022

Lascio la conduzione della mia unità di ricerca - Marco Grasso

 

“Lascio la conduzione della mia unità di ricerca: non accetto che l’università faccia accordi con ENI per la ricerca sulla transizione energetica”

Marco Grasso - Professore Università Milano-Bicocca

Lo scorso 15 febbraio, l’Università di Milano-Bicocca e Eni hanno firmato un “Joint Research Agreement” (accordo di ricerca congiunta) della durata di cinque anni, in cui si sono impegnate a collaborare su “progetti di ricerca di interesse comune” relativi alla transizione energetica (batterie, geotermia, geo-bio-idro-chimica di reservoir fratturati, e fusione magnetica, tra le altre cose).

Dopo diversi tentativi infruttuosi di ottenere chiarimenti su questa partnership, ho deciso di dimettermi dall’incarico di direttore dell’unità di ricerca “Antropocene” del Centro di Studi Interdisciplinari in Economia, Psicologia e Scienze Sociali (CISEPS) dell’Università Bicocca.

L’unità “Antropocene” si occupa, tra l’altro, di questioni legate alla transizione energetica, che è appunto al centro dell’accordo fra l’università e ENI. Con le dimissioni da questo incarico intendo prendere le distanze ufficialmente dall’accordo che non condivido fra la mia università e il gigante italiano dei combustibili fossili.

I motivi di questa non condivisione sono diversi e non derivano da pregiudizi ideologici, quanto piuttosto dalla mia conoscenza della questione che deriva da anni di ricerca e di pubblicazioni scientifiche sul ruolo e le responsabilità dell’industria petrolifera nei cambiamenti climatici. In generale, sono preoccupato da tale collaborazione in un ambito di ricerca – la transizione energetica – che aspira a risolvere i problemi che ENI, e il resto dell’industria petrolifera mondiale, causa e continua a esacerbare. Ritengo che questo rapporto sia antitetico ai valori accademici e sociali fondamentali delle università, che ne possa addirittura compromettere la capacità di affrontare l’emergenza climatica.

A mio parere questo tipo di collaborazioni contravvengono agli impegni dichiarati dalle università – e anche dalla mia università – per la sostenibilità. Le compagnie dei combustibili fossili hanno nascosto, banalizzato e distorto la scienza dei cambiamenti climatici per decenni. Oggi, nonostante la scienza ci dica incontrovertibilmente che nessun investimento in nuovi progetti fossili sia possibile se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, le maggiori compagnie di combustibili fossili – e anche ENI – continuano a pianificare nuovi progetti di estrazione incompatibili con gli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi.

Sebbene le compagnie fossili si presentino come leader della sostenibilità, i loro investimenti fossili continuano a essere enormemente maggiori di quelli in energie rinnovabili, che rappresentano solo una piccola percentuale del totale delle loro spese in conto capitale. Perciò ritengo che la pretesa dell’industria fossile di essere leader della transizione energetica non dovrebbe essere presa sul serio: collaborare con questa industria è contrario agli impegni delle istituzioni accademiche per il clima.

partenariati di ricerca delle università con le compagnie dei combustibili fossili giocano un ruolo chiave nel greenwashing della reputazione di queste compagnie. Essi forniscono loro la tanto necessaria legittimità scientifica e culturale. Legittimità preziosa, poiché permette a queste compagnie di presentarsi all’opinione pubblica, alla politica, ai media e ai loro azionisti come agenti che collaborano con istituzioni accademiche pubbliche autorevoli su soluzioni per la transizione, rendendo più verde la loro reputazione e offuscando il loro coinvolgimento nell’ostruzionismo climatico, nonché avvallando le ‘false soluzioni’ che sostengono.

Infine, temo che le università che mantengono stretti legami con l’industria dei combustibili fossili possano incorrere in un sostanziale rischio reputazionale. Collaborando con l’industria fossile, oltre a violare le loro stesse politiche e i loro principi, minano la loro missione sociale e accademica. Sempre più spesso, la partnership con l’industria dei combustibili fossili sta erodendo la fiducia negli impegni delle istituzioni scientifiche per l’azione sul clima, portando un certo numero di esse – tra cui, per esempio, le Università di Oxford nel Regno Unito e di Princeton negli Stati Uniti – a tagliare ogni legame con l’industria, e moltissime altre in giro per il mondo a disinvestire dai fossili.

In sintesi, ritengo che le università siano vitali per pensare una transizione ecologica rapida e giusta. Tuttavia, i nostri sforzi a me sembrano minati dalla prossimità al mondo dei combustibili fossili. L’accademia e la scienza non dovrebbero aiutare, neanche involontariamente, il greenwashing fossile; piuttosto dovrebbero impegnarsi, almeno per quanto riguarda le questioni climatiche, per cambiare radicalmente una situazione che non è più accettabile, che è diventata, come dice il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, una ‘pazzia morale ed economica’, che ci potrebbe portare al ‘suicidio collettivo’.

Sottolineo che le mie dimissioni dalla conduzione dell’unità di ricarica Antrhopocene del centro di ricerca CISEPS non hanno nulla a che vedere con le posizione del CISEPS stesso, che non è in nessun modo coinvolto nell’accordo di ricerca congiunto fra l’Università di Milano-Bicocca e l’ENI in materia di transizione energetica


Marco Grasso è professore ordinario di geografia economica e politica all’Università di Milano-Bicocca e si occupa di politiche ambientali e di governance del clima. Ha lavorato presso Birkbeck, University of London ed è stato Visiting Scholar in università e centri di ricerca in Europa, Stati Uniti e Australia. Ha pubblicato numerosi lavori scientifici in materia: il suo ultimo libro ‘From Big Oil to Big Green. Holding the Oil Industry to Account for the Climate Crisis’ è stato pubblicato lo scorso maggio da MIT Press ed liberamente scaricabile al seguente indirizzo: https://direct.mit.edu/books/oa-monograph/5313/From-Big-Oil-to-Big-GreenHolding-the-Oil-Industry

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venerdì 30 dicembre 2022

Agnoletto: “C’è la volontà di smantellare la sanità pubblica”

(intervista di Fabrizio Maffioletti)

Abbiamo affrontato con Vittorio Agnoletto alcuni temi che attengono alla salute pubblica

 

La situazione della sanità pubblica è costantemente denunciata dai sindacati dei sanitari: c’è una volontà politica di smantellare la sanità pubblica?

Sì, certo, la volontà è di smantellare totalmente la sanità pubblica, perché in ambito sanitario, dal punto di vista dei privati, è possibile creare un’enorme business e trarne grandissimi profitti. A tal proposito ricordo che WikiLeaks rese pubblico parte del contenuto di un incontro riservato avvenuto nell’ambito del TISA (Trade in Services Agreement – Accordo sugli scambi di servizi, n.d.r.), dove i rappresentanti dei fondi finanziari dicevano che la sanità è l’ambito che può produrre maggiori profitti a vantaggio degli investimenti privati, a patto che gli Stati, gli Enti religiosi e le Fondazioni si ritirino dalla gestione della sanità.
La nostra sanità pubblica viene costantemente smantellata a favore di interessi privati.

Quali sono gli effetti dell’intervento del privato nella sanità?

Nella sanità il privato interviene ovviamente con l’obiettivo di ottenere dei profitti. Il profitto in sanità si ottiene sui malati e sulle malattie. Il privato quindi non è interessato alla prevenzione, che anzi diventa antagonista ai propri scopi. Un’efficace prevenzione diminuisce il numero di malati e quindi i profitti. Per la sanità pubblica invece la prevenzione è una fonte di risparmio di denaro pubblico.
In sanità pubblico e privato hanno quindi obiettivi e interessi completamente diversi.

Durante la pandemia la sanità privata non è stata in grado di far fronte ai bisogni sanitari dettati dalla pandemia, il SSN, seppur con grande fatica, lo ha fatto. Non siamo imparando nulla da questa esperienza?

Purtroppo non stiamo imparando proprio nulla. Faccio l’esempio della Lombardia perché in quella regione il sistema liberista è più avanti nella privatizzazione della sanità rispetto a tutta l’Italia. Il rischio vero, quindi, è che il modello Lombardia diventi il modello italiano. Se la Lombardia fosse una Nazione indipendente (come voleva Bossi) sarebbe al settimo posto a livello mondiale per decessi da Covid, con oltre 440 decessi attribuiti al Covid ogni 100.000 abitanti.
I problemi sono principalmente due:
– la sanità pubblica (è un dato anche su scala nazionale) è fortemente penalizzata a causa dell’accreditamento dei privati, che, oltre a non intervenire nella prevenzione, non sono interessati alla medicina di emergenza-urgenza perché produce profitti limitati rispetto ad altri settori della sanità;
– siamo soggetti ad una concezione della medicina incentrata esclusivamente sulla cura del malato. L’approccio dovrebbe al contrario essere quello di tenere le persone in salute, prevenire le malattie. Inoltre, l’approccio sanitario è sempre più orientato alla cura attraverso l’utilizzo di strumenti altissima tecnologia destinati ad un numero limitato di interventi, mentre l’insieme del servizio sanitario è del tutto trascurato.
Senza dimenticarsi che nessun Paese al mondo può fermare una pandemia puntando esclusivamente sul sistema ospedaliero. La pandemia si ferma mediante la medicina territoriale, che è stata abbandonata. I medici di famiglia sono abbandonati a sé stessi e sono in numero del tutto insufficiente. Solo in Lombardia mancano circa 1.000 medici di famiglia.

Come si affronta una pandemia?

Con i piani pandemici, con i sistemi di allertamento, con l’assistenza domiciliare, con la prevenzione. Tutto ciò non ha funzionato nella pandemia, le persone quindi si sono riversate nei pronto soccorsi, che di conseguenza sono collassati, i posti letto sono venuti a mancare e ci siamo trovati nel disastro. Nel 1981 c’erano 430.000 posti letto nel SSN, nel febbraio del 2020, periodo d’inizio della pandemia, ce n’erano poco meno della metà. Una situazione gravissima.

Si è molto battuto per la sospensione dei brevetti dei vaccini per il Covid. Si sta inoltre battendo per una produzione farmaceutica da parte di enti pubblici. Il vaccino è un valido strumento di prevenzione contro le pandemie?

Negli ultimi 40 anni I tempi di distanza tra una pandemia e l’altra sono diminuiti. Una pandemia, oltre alla prevenzione e alla medicina territoriale, se si riesce ad individuare velocemente l’agente infettivo e a produrre il vaccino, si affronta con i vaccini. Ciò che in medicina chiamiamo vaccino è un farmaco che blocca la trasmissione dell’agente infettivo. Il problema più grande è che oltre sette miliardi di persone hanno la loro salute affidata ad un gruppo ristrettissimo di consigli di amministrazione di grandi multinazionali farmaceutiche. I quali grazie agli accordi TRIPS mantengono il monopolio nella produzione dei vaccini e dei farmaci per 20 anni. Tale situazione ha condizionato questa pandemia, la pandemia da HIV ed è quello che rischia di ripetersi nel futuro.

Cosa si può fare per risolvere questo stato di cose?

Nell’immediato noi abbiamo appoggiato la proposta avanzata da India, Sudafrica e appoggiata da oltre 100 Paesi, di far scattare una moratoria di tre anni per i brevetti sui vaccini, sui kit diagnostici e di socializzare il know how. Proposta che non è stata approvata in particolare a causa dell’opposizione dell’Unione Europea appoggiata soprattutto da tre Governi: Germania, Francia e Italia. Questa situazione non riguarda solo i vaccini, ma anche i farmaci antiretrovirali. Per quanto riguarda il futuro sosteniamo la necessità di un’Agenzia europea pubblica di ricerca e produzione dei farmaci (anche i vaccini quindi, n.d.r.). Il Parlamento Europeo ha finanziato una ricerca coordinata dal Prof. Massimo Florio per valutare la fattibilità economica di tale progetto.
La prima fase della ricerca è stata conclusa a settembre, è stata presentata davanti a Commissione, Consiglio e Parlamento europei. La tesi si basa su un principio molto semplice: se si destinasse la stessa cifra stanziata annualmente per l’ESA, in pochi anni saremmo in grado di avere un’Agenzia pubblica del farmaco europea in grado di produrre ogni anno alcune decine di farmaci nuovi. Un progetto fattibile e prioritario.

Qual è il ruolo delle startup nella ricerca farmacologica?

La ricerca per i nuovi farmaci, quella biologica, quella di prima fase, è ad oggi raramente condotta dalle grandi aziende. E’ in genere condotta dalle startup che lavorano mediante finanziamenti pubblici. Le grandi aziende intervengono poi con l’acquisto del brevetto, lo sviluppano e lo commerciano forti della loro struttura. Il progetto dell’Agenzia pubblica si può collocare in questo scenario in continuità con l’attività di ricerca – già pubblicamente finanziata – delle startup. Il problema nella realizzazione di questo progetto risiede nei Governi europei.

Un Ente pubblico con queste prerogative esiste a Cuba, l’Istituto Finlay ha peraltro sviluppato un vaccino per adulti, un vaccino pediatrico e un booster, per combattere la pandemia.

Cuba è una società diversa dalla nostra, ma è di tutta evidenza che il progetto dell’Agenzia pubblica europea è assolutamente fattibile. Cuba è peraltro l’unico Paese ad aver sviluppato e prodotto un vaccino pediatrico specifico, sviluppato fin dalla fase iniziale come vaccino destinato ai bambini. Non ha utilizzato un vaccino per adulti tentando di adattarlo per ricavarne un vaccino pediatrico. Lo sviluppo di un vaccino pediatrico specifico risponde pienamente alle linee guida dell’EMA. Quindi Cuba da questo punto di vista rappresenta un esempio. Lavorando in questo modo si può risparmiare moltissimo, il prezzo dei vaccini, che gli Stati acquistano, sarebbe notevolmente più basso.

Vaccinare è quindi utile?

Posto che, come affermato poc’anzi, in medicina chiamiamo vaccini i farmaci che bloccano la trasmissione dell’agente infettivo da un soggetto ad un altro, vaccinare significa mettere in sicurezza il servizio sanitario, perché non vengono messi in crisi i reparti di medicina di emergenza-urgenza e i reparti di cura. Vaccinare significa anche ridurre il numero di persone che s’infettano, ridurre il numero di persone che si ammalano, ridurre, tra l’altro, il numero di persone che a causa del contagio non possono andare a lavorare. Il vaccino ha quindi un impatto positivo sull’insieme della società.


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giovedì 29 dicembre 2022

Tempo di andar via - Dario Manni

 

Le circa centomila persone che hanno preso parte alla grande marcia per la pace Europe For Peace del 5 novembre a Roma, hanno dato vita a una vera festa della partecipazione; uno di quei momenti che, insieme all’occupazione studentesca della facoltà di Scienze Politiche de La Sapienza avvenuta solo qualche giorno prima, segna una discontinuità nella fitta trama apatica e depressiva del capitalismo senza sogni, senza speranze e senza alternative di questa prima metà di secolo. La marcia è stata un’occasione magica e inaspettata di comunione di scopo, se non proprio di visioni politiche e strategiche che, anzi, erano piuttosto diverse fra loro. A esemplificare questa diversità è stata la contemporanea presenza del segretario del Pd Enrico Letta, convinto fautore dell’invio di armi all’Ucraina; e di Giuseppe Conte, leader del M5S, che ha iniziato a opporsi al coinvolgimento bellico indiretto dell’Italia, ancorché timidamente. In strada c’erano movimenti e anche liste elettorali fortemente critiche verso l’invio di armi, e più in generale verso una politica internazionale filo-atlantista che sembra schiacciata sugli interessi Nato; e altri movimenti e organizzazioni convinte invece della necessità di armare l’Ucraina per strappare la pace alla Russia, e di farlo in un quadro di adesione all’alleanza atlantica. Posizioni che, eccezion fatta per la piattaforma promotrice e i gruppi che più la animano e che più vi si riconoscono, come Rete Italiana Pace e Disarmo e Movimento Nonviolento, che sono disarmisti esigenti, spesso si mescolano all’interno di una stessa organizzazione. Ad animare questo corteo composito c’erano CGIL e ANPI, Emergency e Greenpeace, Libera e Sbilanciamoci, ARCI e Rete dei Numeri Pari, Unione Popolare, Comunità di Sant’Egidio e molte altre ancora. Altri, come i movimenti romani per il diritto all’abitare, Fridays for Future e la campagna contro il caro-bollette Noi Non Paghiamo, pur condividendo le ragioni della manifestazione di Roma, erano a Napoli per la tappa campana di mobilitazione nazionale di “Insorgiamo”, promossa dal collettivo di fabbrica dei lavoratori e delle lavoratrici ex-GKN. L’assenza delle organizzazioni animaliste e antispeciste da entrambe le piazze è passata pressoché inosservata.

La mancanza dell’animalismo e dell’antispecismo italiano dalle manifestazioni – come quella di novembre – “umaniste” (cioè quelle che si pensano di interesse solo umano), è la norma (in questo articolo “animalismo” e “antispecismo” sono utilizzati come sinonimi, mentre non lo sono affattoi, e comprendono più fenomeni che hanno in comune l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli animali non umani). Si registrano, ovviamente, partecipazioni isolate e sporadiche; ma queste partecipazioni sono la classica eccezione che conferma la regola, e la regola è che gli attivisti e le attiviste animaliste e antispeciste sono o disinteressate rispetto alle lotte umaniste, che considerano irrilevanti per la causa animale; o troppo poco convinte che tali lotte siano in realtà rilevanti anche per la loro causa.

In occasione delle proteste antirazziste negli Usa, durante l’estate del 2020, da cui emerse il movimento Black Lives Matter, rispondendo a chi li criticava per non essersi esposti a favore della comunità afroamericana e povera in lotta, l’organizzazione internazionale antispecista abolizionista Anonymous for the Voiceless scrisse pubblicamente che non vedeva ragione di spendersi su questioni non strettamente animaliste dato che la sua missione è di occuparsi esclusivamente degli animali non umani; e che esistono già centinaia di realtà attive sui diritti umani, assumendo quindi che il loro supporto non fosse necessario.ii A rendere dubbio che si trattasse semplicemente di una divisione di compiti fra organizzazioni animaliste e umaniste, c’è un contenuto social, pubblicato in quel periodo, in cui Anonymous confessò di non credere all’esistenza del razzismo sistemico negli Usa.iii La marcia indietro compiuta quando l’organizzazione era stata ormai travolta dalle critiche non rende meno facile immaginare che in Anonymous e nelle realtà antispeciste a essa analoghe la motivazione a prendere posizione e agire in favore delle altre lotte non sia particolarmente elevata. Ma l’assenza dell’antispecismo dalle piazze umaniste – e questo è il nocciolo della questione – è un fenomeno quasi bipartisan. Benché in queste piazze capiti di imbattersi in singoli attivisti e attiviste e in organizzazioni informali e gruppi più piccoli, infatti, le grandi associazioni animaliste e antispeciste, anche quelle che hanno posture e valori progressisti, sono quasi sempre assenti. La loro partecipazione si riduce perlopiù a social media managing e all’adesione moralistica a una concezione distorta dell’intersezionalità come pratica di virtù individuale senza concretamento politico. A monte del problema si può scorgere l’infiltrazione del neoliberalismo e della sua carica spoliticizzante in seno al movimento, che disgrega e atomizza illudendo invece di unire e comporreiv. La scarsa coscienza politica dell’attivismo animalista e antispecista di base, spesso estraneo alla dimensione di piazza, si riflette nella tendenza anti-popolare da parte delle organizzazioni più strutturate che seguono inerti la virtualizzazione della partecipazione, schiacciata sulla dimensione social e incapace di aperture al sociale. La trasversalità politica e il qualunquismo delle sigle, così funzionale ad attrarre sostenitori e donazioni, limita il movimento all’attivismo single-issuev, confermando il pregiudizio diffuso che animalismo e antispecismo siano preoccupazioni da “amanti degli animali” piuttosto che questioni di interesse generaleEppure i tempi sarebbero maturi per cambiamenti radicali.

Dopo la fine del primo movimento alter-mondialista e nonostante la repressione in atto da parte degli ultimi governi, infatti, siamo entrati in un nuovo periodo di mobilitazioni, in cui l’esperienza dei forum dei movimenti sociali da una parte, e l’irruzione dei nuovi movimenti ambientalisti sulle scene dall’altra, hanno aperto spazi di manovra prima impensabili che animalismo e antispecismo potrebbero sfruttare per crescere e assumere maggiore importanza sociale. Mentre animalisti e antispecisti li criticavano perché non promuovevano abbastanza il veganismo, o li cooptavano con il pretesto dell’intersezionalità onde imporgli la propria agenda, movimenti come Fridays For Future ed Extinction Rebellion portavano in strada centinaia di migliaia di persone, molte delle quali teenager, ventenni e trentenni mai state attive prima. La progressiva saldatura fra nuovi movimenti ambientalisti e lotte sociali ha poi mostrato che le questioni ambientali sono di interesse innanzitutto per le classi subalterne, e ha affrancato le battaglie “verdi” dalla dimensione della conservazione borghese e del consumo individuale virtuoso per consegnarle a quella della giustizia ambientale e dei diritti delle popolazioni MAPA (Most Affected People and Areas)vi. Ancorché ambiguo, l’ideale del “movimento dei movimenti” è tornato ad attraversare strade, piazze e organizzazioni esplodendo nella “Ribellione” di Londra del 2019vii.

Anche quando ha simpatizzato con i nuovi movimenti ambientalisti, la lotta per i diritti e la liberazione animale è stata condotta sulla base di presupposti idealistici e neoliberali che l’hanno resa irricevibile negli ambienti popolari e presso molti movimenti e organizzazioni che si occupano di giustizia sociale. L’isolazionismo settario è comunque stata la cifra della partecipazione di animalisti e antispecisti a Climate Strike e simili, con mini-spezzoni slegati dal contesto e slogan e messaggi critici più nei confronti dei compagni e delle compagne di piazza che di governi e aziende. La diffusione di negozi e ristoranti, influencers, intellettuali da salotto e fiere del consumo cruelty-free non buca la filter bubble del veganismo di mercato e asfissia mentre illude di magnifiche sorti e progressive. L’escatologia animalista confida nelle aziende di alternative vegetali ai prodotti animali e diserta assemblee, “punte materiali”viii e piazze che, dopo le grandi manifestazioni degli ultimi decenni (quella contro Green Hill su tutte), non sa e non può più riempire. Laddove in piazza si va ancora, si va troppo spesso per convincere più persone possibili a cambiare stile di vita e di consumo, per dare un “segnale” al mercato che si pensa, come da professione di fede liberale, risponda adattandosi all’onda veg e sfornando sempre meno salsicce e cotechini. Invece di cambiare il sistema che genera sfruttamento si cerca di “normalizzare” il veganismo, che in un sistema ingiusto e irrazionale come quello capitalistico significa rendere ingiusto e irrazionale anche il veganismo. Ne nasce un antispecismo dal volto pulito e rassicurante, non solo socialmente presentabile ma soprattutto socialmente subalterno alle classi dominanti e al Capitale di cui, interessato com’è soltanto alla sua lotta (e concependo la lotta per i diritti e la liberazione animale come totalmente disgiunta e nettamente distinguibile dalle altre), tenta di guadagnare i favori. A parte alcuni gruppi frammentati più coscienti (ma troppo spesso caratterizzati da forme anarchiche di rifiuto acritico verso l’azione politica), le grandi associazioni sono le uniche a interessarsi della modificazione del sistema giuridico ed economico che preserva ed eterna lo sfruttamento animale. Ma, come detto sopra, lo fanno con un approccio politicamente trasversale e in un’ottica single-issue tipicamente liberale che le integra al sistema impedendo loro di incidere sulla sua struttura fondamentale. La chiusura dei loro processi decisionali interni rende queste associazioni assimilabili a vere e proprie organizzazioni aziendali, cui in effetti assomigliano sempre di più, che invece di includere escludono perfino soci e tesserati con cui non concertano azioni, progetti e campagne. Gli attivisti sono ridotti a semplici figuranti adibiti a reggere un cartello o uno striscione a favore di foto e di social, clienti da ingraziarsi affinché comprino un prodotto concepito, realizzato e confezionato altrove. Così facendo, le “sigle” abdicano al compito di organizzazione – se non politica, almeno attivistica – che dovrebbero svolgere e che sarebbe necessario svolgere per rivitalizzare un movimento in stato comatoso, ridotto a esultare per l’introduzione di un panino vegano in qualche catena di fast-food. In questo contesto le lamentazioni sulla divisione del movimento e le litanie sulla necessità dell’unione, che certo assicurerebbe maggiore efficacia ma che è assolutamente impossibile senza che si chiariscano prima i presupposti sui quali unirsi (e con essi la definizione dei problemi e della strategia di lotta), non sono altro che manifestazione di impotenza e frustrazione, e di nostalgia dei bei tempi andatiix. Di più: sono espressione della diffusa apoliticità del movimento e della spoliticizzazione di chi vi era entrato nutrito di qualche cultura politica andata perduta, nel tempo, dietro a questa o quella ricorrente emergenza – l’animale da salvare, il rifugio da difendere – che invariabilmente cattura sforzi e attenzioni fino a tramutarsi nel suo contrario, cioè nello status quo emergenzialeIn base allo status quo emergenziale si giustificano alleanze e collaborazioni, perlopiù impossibili per i movimenti umanisti, come quelle con persone e organizzazioni di estrema destra che, con il pretesto di fornire aiuto durante l’emergenza, si infiltrano nel movimento conquistando simpatie, tessendo relazioni e guadagnando contatti e crediti da riscuotere al momento opportuno. Via via che i movimenti sociali umanisti chiariscono a sé stessi la comune appartenenza al più ampio movimento che intende cambiare lo stato di cose esistenti, malgrado il maldestro opportunismo con il quale ha saputo parlare (non senza forti critiche interne: per qualcuno, la querelle fra argomenti diretti e indiretti è ancora in auge) del legame fra sfruttamento animale e crisi sanitaria, crisi sociale ed eco-climatica, l’antispecismo rischia perciò di finire ancor più isolato di quanto non sia ora. Come evitare l’irrilevanza sociale e politica? Dobbiamo ammetterlo, non resta che il suicidio: l’antispecismo deve morire.

L’antispecismo dovrebbe suicidarsi e cioè, al contrario di quanto sostenuto da Anonymous for the Voiceless e dagli antispecisti morali e non intersezionali in generalex, tralasciare o almeno mettere in secondo piano ogni questione prettamente “animalista” che non sia in grado di inceppare il meccanismo che crea e riproduce universalmente ingiustizia e sfruttamento; meccanismo che possiamo senz’altro individuare nel capitalismo. Se è vero infatti che il superamento del capitalismo non è condizione sufficiente al superamento dello specismo e dello sfruttamento animale, è però vero che ne è condizione necessaria: sembra altamente improbabile che un modo di produzione che si basa sul processo di auto-valorizzazione infinita, sulla reificazione e sulla mercificazione dell’esistente e che non si cura di calpestare i diritti della specie umana (quella che, secondo l’antispecismo moralista e misantropo, sarebbe invariabilmente privilegiata rispetto alle altre) possa permettere la liberazione delle specie meno consideratexi. Questa consapevolezza, benché relativamente diffusa, non si è ancora tradotta in una rivisitazione delle pratiche di lotta, che insistono sul ricorso all’azione diretta e sulla politica prefigurativa di rifugi e collettivi sempre più settari; e che al massimo si spingono, come nel caso della celebre campagna SHAC (Stop Huntingdon Animal Cruelty) e di Animal Rebellion UK, contro specifiche aziende o filiere produttive locali. Nel loro “Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro”, Nick Srnicek e Alex Williams hanno descritto questo tipo di attivismo con l’espressione folk politics. “Per rispondere alle astrazioni e alla violenza del capitalismo, la folk politics punta a riportare la politica a una ‘scala umana’ enfatizzando un’immediatezza che è contemporaneamente temporale, spaziale e concettuale. Fondamentalmente – scrivono – il ragionamento alla base della folk politics è che questa immediatezza sia sempre preferibile, oltre che più ‘autentica’, con il sentimento corollario che astrazione e mediazione siano inevitabilmente sospette”xii. Da qui, il rifiuto per ogni forma di rappresentanza, dalla democrazia parlamentare partitica fino all’organizzazione “gerarchica” e meno che spontanea. “In termini di immediatezza temporale, la folk politics è generalmente reattiva (nel senso che piuttosto che agire di propria iniziativa, tende a rispondere alle azioni compiute da corporation e governi); ignora gli obiettivi strategici a lungo termine in favore di tattiche di corto respiro (mobilitandosi per singole rivendicazioni o enfatizzando il processo stesso della mobilitazione); favorisce spesso pratiche intrinsecamente a breve termine (come occupazioni o zone autonome temporanee). Infine predilige come spazio di autenticità il “locale” (come nel caso dell’alimentazione a chilometro zero, o delle valute locali); al grande preferisce il piccolo (celebrando la comunità su piccola scala e l’impresa autoctona); favorisce progetti comunitari non riproducibili su scala più ampia (per esempio, assemblee generali e forme di democrazia diretta); e tende a rigettare qualsiasi progetto egemonico, valorizzando la fuga e il ritiro interiore a scapito della controegemonia di ampio respiro”xiii. Un’analisi che si adatta non solo alle (dis)organizzazioni antispeciste di sinistra, ma anche ai movimenti sociali umanisti dagli zapatisti a Ultima Generazione, passando per 15M e Non Una di Meno. È la sinistra neoliberal e/o “antiautoritaria” nata dalla crisi dei partiti e dei metodi di organizzazione tradizionali, ma anche (e forse soprattutto) dall’ideologia della “fine delle ideologie”: retorica antipolitica diffusasi già dagli anni ‘90 del secolo scorso, così cara al neoliberismo e in cui echeggiano ideali anarchici, che ha preteso l’irrilevanza della distinzione fra destra e sinistra. “Di sinistra”, infatti, alcuni di questi movimenti non si sono mai dichiaratixiv. Da questo punto di vista, animalismo e antispecismo non sono poi così diversi dalle altre lotte single-issue che, anzi, presentano livelli simili di spoliticizzazione. Difatti la condizione dei movimenti umanisti non è molto migliore rispetto a quella dell’animalismo e dell’antispecismo. “Trent’anni di lotte ‘dal basso’, di impegno ‘individuale’ in ambito di politica del lavoro – scriveva Marco Maurizi ormai dieci anni fa – hanno portato allo smantellamento dei più elementari diritti dei lavoratori costruiti in duecento anni di politica ‘alienata’ […] Se l’antispecismo aspira ad ottenere gli stessi risultati dell’antirazzismo e dell’antisessismo si condanna all’irrilevanza sociale e a farsi mero movimento di testimonianza esistenziale. Con buona pace dei suoi propositi di liberazione “definitiva” degli animali”xv. Eppure, nella retorica tambureggiante della “convergenza” e dell’“intersezionalità” delle lotte sembra profilarsi, sia pure ancora inconsapevolmente, un’insoddisfazione nei confronti di forme organizzative che purtroppo si sono rivelate fondamentalmente inefficaci, perlomeno se l’obiettivo era quello di sovvertire l’ordine capitalistaxvi, che potrebbe portare a qualcosa di nuovo. Si tratta di non cedere alla fascinazione particolarista (il “movimento dei movimenti” sarebbe tale) che consentirebbe al massimo forme repubblicane di federalismo; ma di riscattare un ideale e una forma organizzativa universali e contro-egemonici, centralizzati ma non burocratici, che operino dentro e fuori dai palazzi del potere: il che si staglia come necessità storica al di là della nebbia dell’“orizzontalità” dogmatica, dietro cui si nascondono velleità individualistiche radicalmente neo-liberali. Come dicono gli operai ex-GKN, ciò che serve è diventare classe dirigente.

Ovviamente non si tratta di trascurare tutto il resto per concentrarsi solo sull’obiettivo finale del superamento del capitalismo e dell’affermazione di una società non basata sul profitto: se non altro perché a questo obiettivo si arriva per gradi. “Se gli uomini risparmiano per i propri figli, il loro fine principale è di assicurar loro i mezzi di sussistenza. Se dopo la morte dei genitori i figli avessero ciò di cui hanno bisogno, i genitori non si preoccuperebbero di lasciar loro i mezzi necessari per vivere; ma finché ciò non accade, l’abolizione del diritto di proprietà non farà che generare difficoltà; essa irriterebbe e impaurirebbe la gente e non sarebbe di alcuna utilità. Invece che l’inizio, questa misura può soltanto essere la conclusione di una rivoluzione. Dapprima devono venir create le condizioni per la socializzazione dei mezzi di produzione.xvii” Il problema è che, al momento, animalismo e antispecismo non hanno neanche iniziato a lavorare alla creazione delle condizioni per la socializzazione dei mezzi di produzione; in effetti, la maggior parte degli attivisti e delle attiviste non la comprende nemmeno, e se la comprende non la desidera e non la ritiene propedeutica alla realizzazione di una società più equa, meno crudele e più solidale per gli individui di ogni specie. Tradendo i suoi propositixviii, la lotta per i diritti e la liberazione animale di sinistra non si è ancora elevata dal piano delle mille battaglie particolari, dell’“economicismo” e del “sindacalismo” animalista e antispecista, dalla condizione passiva della reazione e della resistenza a quella attiva dell’azione, dell’universalismo e della politica rivoluzionaria. Proprio per le difficoltà che essa incontra nel portare avanti la sua lotta in una società profondamente specista e contraddistinta dal modo di produzione capitalista, però, l’antispecismo si trova nelle migliori condizioni per compiere il salto verso la lotta unitaria, rinunciando a sé stesso. Così facendo, esso indicherebbe il cammino a tutte le altre lotte sociali, e si realizzerebbe come loro avanguardia. Perché ciò avvenga noi animalisti, noi antispecisti e antispeciste dovremo imparare a disprezzare la nostra piccola felicità, così faticosamente conquistata, e imboccare la via della transizione e del tramonto. Saremo in grado di farlo?

“Della morte, in realtà, nessuno può sapere con sicurezza neanche se sia il supremo bene toccato all’uomo, e tuttavia vien temuta nella certezza che sia il supremo male”xix.


i Per chiarire le differenze fra animalismo e antispecismo si legga Marco Maurizi, “La filosofia dei cani. Animalismo o Antispecismo?”, Edizioni Lulu, 2015. Si legga anche Sabina Tonutti, “Diritti animali: storia e antropologia di un movimento”, FORUM Udine, 2007, che aiuta a ridimensionare una differenza che per alcuni antispecisti sembra diventata più una faccenda identitaria che di analisi storica e filosofica.

Note

ii Protesters, Pigs & the Diversity Problem in Animal Welfare (sentientmedia.org)

iii 3MT: Anonymous for the Voiceless & Racism – YouTube

iv Sul tema si legga l’articolo scritto con Marco Maurizi, “Politiche della relazione”. Politiche della relazione – Comune-info

v Cioè a quello interessato a singole questioni, a materie specifiche, e privo di un impianto teorico e programmatico complessivo.

vi Per esempio: What is MAPA and why should we pay attention to it? – Newsletter – Fridays For Future

vii A Movement of Movements for the October Rebellion – Extinction Rebellion UK

vii Gli appuntamenti per preparare materialmente l’attrezzatura per azioni, cortei, scioperi e manifestazioni

ix“Bei tempi andati” che davvero belli non sono mai stati. Dopo Green Hill, il movimento animalista si è diviso quasi spontaneamente anche per via dell’emergere di gruppi destroidi e per l’approfondirsi della coscienza politica progressista e, in alcuni casi, apertamente di sinistra di altri gruppi. Prima di tale divisione, comunque, semplicemente non si notavano, o si notavano di meno, contraddizioni che oggi, fortunatamente, sembrano sempre più palesi.

x Cioè che come animalisti e antispecisti dovremmo interessarci soltanto alle questioni che attengono direttamente alle condizioni e allo status degli altri animali perché mentre esistono moltissime realtà attive sui diritti umani non è lo stesso per quelle attive sui diritti animali.

xi Su questi aspetti si legga Marco Maurizi, “Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà”, Novalogos, Aprilia, 2011

xii Nick Srnicek, Alex Williams, “Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro”, Nero, Roma, 2018, pp. 21, 22

xiii Ibidem

xiv E tuttavia, ai fini di un loro inquadramento teorico, per molti aspetti lo sono senz’altro. Il punto è di quale sinistra siano, se quella liberal-progressista, quella cristiana e cattolica di sinistra, quella comunista libertaria e anarchica, o quella socialista; e che conseguenze abbia sul loro agire il fatto che non sempre si riconoscano e/o non si dichiarino di sinistra.

xv Marco Maurizi, “L’antispecismo non esiste. Storia critica di un movimento fantasma”, Asinus Novus, vol. 1, n. VI, luglio/agosto 2012

xvi E non lo era quasi mai, ragion per cui molti di questi movimenti sono ancora attivi.

xvii Karl Marx, negli atti della seduta del 20 luglio 1869 del Consiglio Generale della Prima Internazionale. In Karl Marx, Friedrich Engels, “La critica dell’anarchismo”, PGRECO EDIZIONI, Milano, 2016, pp. 279, 280.

xviii Per esempio: “Contro la falsa opzione impostaci tra il welfarismo e l’abolizionismo vegan rivendico un approccio olistico che integri veganismo e liberazione animale all’interno di un progetto politico più vasto che abbia come obiettivo l’abolizione del capitalismo e della dominazione gerarchica”. Steven Best, “Liberazione totale. La rivoluzione del 21° secolo”, Ortica editrice, Aprilia, 2017, pag. 99

xix Platone, “Apologia di Socrate”, BUR, Milano,2007, pag. 139

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martedì 27 dicembre 2022

Sogno di una festa in un’isola normale - Matteo Porru

Tutto ciò che in Sardegna non funziona e, si spera, un giorno potrebbe essere sanato in modo definitivo

 

Facciamo finta che sia tutto un film. Un cinepanettone, visto il periodo. Uno di quei film in cui manca una trama, le circostanze sono inverosimili e la stragrande maggioranza dei personaggi o vive male o finisce peggio – non che la vita sia molto diversa -. Titolo: Natale in casa Demurtas. Soggetto: il protagonista è sardo – di un paese a vostra scelta nell’entroterra -, vive all’estero e torna a casa solo per le feste di fine anno. È Natale e a Natale si può dare di più, e infatti il nostro eroe dà centinaia di euro a una compagnia che, via terra o via mare, lo riporti sull’isola.

Potrebbe prendere la macchina, per tornare in paese, ma la Carlo Felice ha più cantieri che chilometri. Fra corriera e treno, sceglie il treno, e per arrivare in stazione deve prendere un taxi che, per partito preso, carte di credito non ne accetta più. A corto di liquidi e di energie psicofisiche, finalmente Demurtas suona il campanello, appoggia le valigie sull’entrata e lo abbracciano madre, padre, fratelli e parenti di grado via via inferiore. Non segue lo sport, il nostro eroe, ma gli basta un quarto d’ora di chiacchierata per sapere che la Dinamo bene o male ce la fa e che il Cagliari è quasi in Lega Pro. Di notte sta male, gli sale la febbre, la famiglia si chiude in conclave e discute, forse è l’influenza australiana, qualcuno dice covid, nonno propone il tampone, per zia è solo un colpo di freddo. Negativo, ma con una febbre da cavallo e in preda alle allucinazioni, Demurtas si vede catapultato nella Sardegna arcaica e piena di mistero dello spot della Regione, fino a rinsavire grazie all’effetto combinato delle pezze fredde e del paracetamolo. Vorrebbe andare alla guardia medica, e ci andrebbe, se non l’avessero chiusa. Riuscirà il nostro eroe a rimettersi in tempo per il cenone senza appestare gli altri membri della famiglia? Riuscirà a vincere, almeno quest’anno, una partita a Burraco? Riuscirà a lasciare l’isola senza pensare quante lacune potrebbero essere sanate in maniera definitiva, e quante risorse manchino al territorio? Natale in casa Demurtas: più che andare al cinema, guardatevi intorno.

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Haiti: saggezza dalla giungla - Marilyn Langlois

 

Mentre veniamo inondati da resoconti di varia credibilità sulla guerra istigata da USA/NATO contro la Russia che si sta combattendo in Ucraina, e che provoca giustificabili torcimenti di mani per le vane perdite di vite, la minaccia di un Armageddon nucleare e insperati sempre crescenti profitti ai fabbricanti di armi, faremmo bene a badare un po’ più a Haiti, base primaria di resistenza contro il colonialismo e l’eccezionalismo occidentali.

Giusto un fugace guizzo sul radar dei mass media, ci capita di vedere brevi rapporti di agitazioni a Haiti che travisano la vera portata e natura dell’attuale insurrezione. La popolazione di Haiti è scesa in strada in moltitudine crescente, esigendo il rispetto dei propri diritti umani e democrazia, nonché la fine della corruzione e del saccheggio di risorse pubbliche. Nonché la fine dell’occupazione USA/ONU e del regime di destra del Partito Tét Kale Haitian (PHTK) capeggiato da Ariel Henry.

Chiede invece un governo transitorio di salute pubblica (Sali Piblik) per creare le fondamenta per elezioni libere ed eque, e il ritorno a norme democratiche. Esigono la fine del terrore inflitto dalla Polizia Nazionale Haitiana e dai paramilitari, ivi compreso lo squadrone della morte G-9 agli ordini dell’ex-ufficiale di polizia Jimmy Cherizier, che coopera col regime del PHTK. Vogliono la fine della proliferazione di rapimenti, stupri, uccisioni poliziesche e massacri per tutto il paese, come l’orripilante massacro di Lasalin.

 

Tipicamente, gli USA, che hanno sostenuto Henry e fornito armi alle gang violente, adesso propongono una reazione cinica al caos che hanno scatenato: che i piromani cerchino di spegnere l’incendio mandandoci altri militari stranieri a reprimere la protesta e mantenere sotto controllo gli haitiani, mossa enfaticamente respinta dagli stessi.

Riferendoci alla crisi in Ucraina, il capo della politica estera UE Josep Borrell ha recentemente mostrato i veri colori dell’Occidente, esponendo con arroganza la posizione privilegiata dell’Europa come ‘un giardino di democrazia liberale, di buone prospettive economiche e di solidarietà sociale’ circondato da ‘la giungla’. Beh, benvenuta al club, Russia. Ora fai parte de ‘la giungla’ anche tu, una designazione condiscendente — con altri nomignoli volgari scelti con cura — che i leader occidentali hanno affibbiato a Haiti fin dal suo inizio.

Haiti non è un paese povero; è un paese derubato. La gente di Haiti e le sue preziose risorse naturali sono state sfruttate nei 500 anni scorsi con gli effetti di schiavitù, razzismo, colonialismo, imperialismo, isteria anti-comunista, militarismo, cleptocrazia, globalizzazione aziendale e libero scambio imposti dalle potenze occidentali. Se vi siete mai meravigliati dello splendore di Parigi con i suoi magnifici palazzi, monumenti imponenti e grandi viali, richiamate alla mente che tutto ciò è stato finanziato col sangue, sudore e lacrime di gente schiavizzata al lavoro nei campi di canna da zucchero di Saint Domingue (ora Haiti), in un capitolo precoce del commercio globale delle spezie, essendone quella di eccellenza a quel tempo lo zucchero, in precedenza raro.

L’atteggiamento insofferente degli schiavizzati e la loro determinazione ad asserire la propria dignità condusse  alla Rivoluzione Haitiana del 1791-1804 culminante nell’istituzione della prima repubblica libera dell’emisfero occidentale. Ebbero immediatamente il sopravvento estorsione, cooptamento e sabotagggio da parte delle potenze occidentali, che frustrarono il completamento della visione rivoluzionaria, ma gli haitiani non hanno mai cessato di tenere d’occhio il premio agognato.

Nel 1915, col crescere del movimento di rigetto del giogo di élite corrotte col patrocinio occidentale, Woodrow Wilson inviò i marines USA per sedare le masse in agitazione per i propri diritti. I militari USA occuparono Haiti per 19 anni, assumendo pieno controllo dell’erario nazionale, riscrivendo le costituzione, istituendo un esercito per reprimere il popolo, ed istituendo nuovamente la schiavitù sotto forma di lavoro forzato per costruire strade, al servizio degli interessi militari e commerciali. Durante la “fifa rossa” [l’isteria anticomunista maccarthista – ndt] della metà del 20° scolo, gli USA ricompensarono magnanimamente gli spietati dittatori Duvalier per il loro tenere a bada “il comunismo”.

 

La fioritura più recente dell’autodeterminazione a Haiti fu in seguito all’emergere del movimento Lavalas nei tardi anni 1980. Per parecchi anni fra il 1990 e il 2004 (interrotti dal violento colpo di stato del 1991 sostenuto dalla CIA e relativa truce repressione), gli haitiani sotto la guida Lavalas fecero notevoli progressi nel sollevare le condizioni dei poveri  riguardo a istruzione, sanità, livello salariale, diritti infantili, status femminile, infrastrutture, giustizia e diritti umani, democrazia politica, libertà religiosa, contrasto a traffico di droga e corruzione, e rapporti internazionali. Tutto ciò con un’incessante guerra economica degli USA, che cercavano di riguadagnare il controllo della forza lavoro e delle risorse naturali di Haiti.

Aggiungendo al danno la beffa, appena gli haitiani avevano celebrato con partecipazione senza precedent il bicentenario dell’indipendenza il 1 gennaio 2004—avvenimento di capitale importanza per tutti gli amanti della libertà, scandalosamente ignorato da quasi tutti i media negli USA — USA, Francia e Canada cospirarono per attuare un colpo di stato il 29 febbraio 2004, col rapimento del presidente Aristide e sbarcando i marines USA, successivamente sostituiti da forze multinazionali ONU; con una brusca frenata sull’ulteriore attuazione della politica Lavalas d’inclusione, partecipazione e trasparenza.

Il presidente Aristide aveva sovente affermato con enfasi che il problema era/è l’esclusione e la soluzione l’inclusione, dove ognuno ha un posto a tavola, che smuove la gente dalla miseria alla povertà dignitosa e oltre.

Il regime insediato dagli USA rigettò molta parte della popolazione nella miseria e represse violentemente il partito Fanmi Lavalas, come annotato nella sua recente dichiarazione:

“…dal rapimento/ colpo di stato del 29 febbraio 2004, l’occupazione del paese ha causato altra corruzione, altri massacri nei quartieri popolari / della classe lavoratrice, più impunità, più fame, più miseria, più attori nel settore economico alleatisi con bande che aumentano le sepolture quotidiane. Sono stati spesi molti miliardi di dollari per l’occupazione [militare], e per che cosa? La situazione ha continuato a peggiorare, come possiamo tutti testimoniare. Questa calamità è il risultato del colpo di stato del 2004…”

Eppure la resistenza del popolo haitiano allo sfruttamento continua, coe visto nelle mobilitazioni crescenti.   La dichiarazione del Lavalas prosegue asserendo:

“la soluzione per Haiti è nelle mani dei haitiani…è giunto il tempo di trovare insieme come fermare la macchina dell’insicurezza che sta spargendo morte ovunque nel paese. Sì, non è troppo tardi. Il futuro di Haiti è nelle nostre mani, Popolo Haitiao. Insieme, salvaguardiamo la nostra dignità”.

Per i non-haitiani che chiedono: che cosa posso fare per aiutare?  Se vivete nella UE, in Canada o USA (come me), educate i vostri compatrioti e ditelo ai vostri capi in termini decisi.

Smettete di vedervi più illuminati, più democratici, più capaci di risolvere i problemi, più meritevoli di comodità materiali che la gente di Haiti. Liberatevi della vostra coazione a controllare altri fingendo di “salvarli”. Fatela finite con l’immischiarvi a livello economico, politico e militare a Haiti e altrove. Non in mio nome e non con le mie tasse. Accettate di non poter sempre dire agli altri che cosa fare e abituatevi a rispettare le altre nazioni e a interagire con loro in modo collaborativo.

 

Se vivete in altre parti del mondo (altrimenti dette ‘la giungla’), dite ai vostri capi di respingere la pressione USA ad inviare soldati a Haiti, [pur] in veste di peacekeeper con fucile ed elmo blu.

Gli haitiani hanno bisogno che gli si garantisca l’opportunità di una piena partecipazione nel plasmare il proprio futuro. Haiti respinge l’assistenza delle armi e non ha bisogno del “dono” di prestiti che creano debito oneroso. Non ha bisogno che le venga detto che cosa piantare o a chi fornire manodopera sfruttata, o a chi si debbano travasare le sue vaste risorse naturali. I bambini haitiani meritano di essere nutriti e accuditi, non resi orfani e privi di tutto, maturi per venire trafficati. Haiti non dev’essere costretta a lottare per le briciole al tavolo del banchetto mondiale. Tale ingiustizia è già durata troppo.

Nelle mie varie visite a Haiti dopo il colpo di stato del 2004, ho visto gli haitiani associarsi per risolvere problemi nelle spire della vita quotidiana. Ho assistito al loro impegno per i veri valori della democrazia. Il popolo haitiano ha conquistato la propria libertà 200 anni fa, e insiste nel voler plasmare il proprio futuro. Ormai è tempo che le istituzioni globali si facciano da parte lasciando che Haiti si goda la libertà per cui il suo popolo ha combattuto, è morto e ha sofferto tanto. Mi sono sentita mortificata ad interagire con tante persone con una determinazione ancora ben viva; che rifiutano di lasciar perdere il proprio sogno e la visione di una Haiti in cui siano soddisfatti i bisogni elementari di ognuno e dove lo spirito umano possa prosperare.

Come fin troppo chiaro, il ladrocinio e l’arroganza occidentali non sono diretti solo a Haiti. Basta sostituire haitiani nei paragrafi precedenti russi etnici nel Donbass, palestinesi, etiopi, eritrei, congolesi, yemeniti, siriani, cubani, etc., e unire i puntini. Dobbiamo stare con la gran massa della famiglia umana sul lato a valle [della giostra globale] nel correggere a modo i loro avidi parenti.

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lunedì 26 dicembre 2022

Il modello Almería si scontra con i suoi limiti - Carmen López Zayas(*)

  

Parlare di Almería significa parlare dell’orto d’Europa o del mare di plastica, un modello di produzione di alimenti che occupa 32.554 ettari, soprattutto nelle zone di levante e di ponente. L’intera area di serre della provincia di Almería ha prodotto, durante la stagione 2019-2020, 3,5 milioni di tonnellate di frutta e ortaggi attestandosi, per questo settore, come leader nel commercio intracomunitario europeo. Sotto questa coperta di plastica c’è una storia. La proiezione del futuro che ci si aspetta da questo territorio dipenderà dal modo in cui contestualizzeremo il suo passato e affronteremo il presente.

Quando parliamo di Almería, dobbiamo capire che si tratta di un territorio molto diversificato ma generalmente caratterizzato da condizioni climatiche, edafiche e orografiche che hanno reso il suo sviluppo socio-economico molto complicato in un sistema sempre più industrializzato e globalizzato. Così, fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, la popolazione era strettamente legata a ciò che l’ambiente forniva e sopravviveva grazie ai sistemi agro-silvo-pastorali e ai lavoratori delle miniere che, gradualmente, hanno chiuso a causa della scarsa resa economica. Troviamo così un territorio con il reddito pro capite più basso di tutte le province dello Stato e il più alto livello di emigrazione.

Ma la popolazione locale ha saputo reinventarsi e adattarsi a un’economia di mercato competitiva e alla cosiddetta rivoluzione verde. È stato creato un sistema di produzione alimentare basato sulla tecnicizzazione, sull’uso di prodotti chimici, su sementi commerciali ibride con un’elevata risposta agli input e su due fattori di differenziazione propri: la tecnica della sabbiatura e le serre di plastica.

Questa trasformazione ha convertito il territorio nel maggior esportatore intercomunitario di frutta e verdura, con indicatori di sviluppo economico superiori alla media andalusa e spagnola, diventando inoltre anche un centro di accoglienza di persone provenienti da varie parti dell’Africa, dell’Europa orientale e dell’America Latina in cerca di nuove opportunità di vita.

 

Come Almería ha “superato” la natura

All’interno del paradigma della crescita illimitata, secondo cui le capacità umane e tecnologiche superano i limiti biofisici del pianeta, e con il discorso coloniale dominante (che guarda con disprezzo all’Andalusia, ma soprattutto al mondo rurale) basato su un ideale di modernizzazione e industrializzazione (passare da produttore o lavoratore giornaliero a imprenditore), il “miracolo almeriense” si basa su diversi assi, tutti strutturati dal fattore umano.

A partire dagli anni ’60 molte famiglie, con grande sforzo, hanno iniziato a costruire serre e a metterle in produzione, e molte altre, emigrate per lavorare a giornata, sono tornate per accedere in modi diversi a piccoli appezzamenti di terra. Anche se in molti casi sono i mariti ad apparire come proprietari, le donne contribuiscono molto a questo processo sia nelle serre che nella gestione, ma anche per quel che riguarda l’ambito domestico. Questo originario lavoro autonomo familiare si è evoluto secondo la logica aziendale verso la salarizzazione (1), con il risultato che il lavoro dell’agricoltore, spesso maschio, si è concentrato sulla gestione, l’organizzazione, la supervisione e la commercializzazione.

 

“Il «miracolo di Almería» si sostiene anche dall’estrazione di acque sotterranee”

 

La prima grande innovazione per aumentare la produzione è stata quella di coprire le colture con la plastica per sfruttare le ore di sole. Questo accelera la crescita delle piante e facilita il controllo delle colture rispetto a fattori esterni. D’altra parte, quando il terreno non è molto fertile, si utilizza la tecnica della sabbiatura all’interno della serra. Questa tecnica migliora la capacità di trattenere l’acqua e i nutrienti ricoprendo l’area agricola con uno strato di terra nuova (alto 20-30 cm), di solito di formazione argillosa o franco sabbiosa trasportate da vallate o cave a cui si aggiunge la materia organica, generalmente letame. Infine, nella parte più superficiale, viene aggiunta della sabbia per aumentare l’infiltrazione dell’acqua e assorbire il calore.

Nella regione più arida della penisola, con poca presenza di acque superficiali e piovose, il “miracolo di Almería” è sostenuto anche dall’estrazione di acque sotterranee, dato che grandi falde acquifere si trovano in tutto il territorio. L’acqua viene distribuita tramite sistemi a goccia controllati, in molti casi, da una tecnologia in grado di misurare l’umidità del suolo e il fabbisogno idrico di ciascuna coltura.

Per mantenere questo modello, a partire dagli anni ’90 sono state create numerose imprese industriali e di servizi che forniscono un’ampia gamma di input per lo sfruttamento agricolo, per la movimentazione e la commercializzazione degli ortaggi. I vari centri di tecnologia agraria della provincia producono, ad esempio, varietà di sementi competitive per le loro alte rese o per la loro esclusività. Questa industria è responsabile dell’alto rendimento del settore che, insieme alle ricerche condotte presso l’Università di Almería, ha reso la provincia un punto di riferimento nell’innovazione tecnologica agraria, in grado di adattarsi alle richieste del mercato globalizzato in termini di parametri di qualità e controllo ambientale.

 

“Questo modello di produzione è più simile a una fabbrica che a ciò che tradizionalmente consideriamo agricoltura”

 

D’altra parte, a proposito delle richieste del mercato globale, l’agroindustria almeriense si sta orientando sempre più verso soluzioni “basate sulla natura” per ottenere la certificazione biologica: biotecnologie per disinfettare e rigenerare i suoli, miglioramenti genetici di sementi adattate alla produzione biologica, uso di controllo biologico dei parassiti e implementazione di siepi e barriere vegetali.

In generale, a causa dell’enorme quantità di interventi richiesti, possiamo dire che questo modello di produzione è più simile a una fabbrica che a ciò che tradizionalmente intendiamo come agricoltura.

 

Scontrarsi con i limiti

Per adattarsi alle richieste del mercato globale, il modello agricolo intensivo di Almería sta causando un eccessivo sfruttamento delle falde acquifere, soprattutto nelle zone costiere, con conseguente intrusione di acque marine. Insieme all’infiltrazione di acque contaminate da prodotti agrochimici, questo fa sì che ci sia sempre meno disponibilità idrica. Nonostante ciò, la necessità di mantenere la produzione agricola incoraggia l’apertura di pozzi illegali causando l’ulteriore peggioramento della situazione.

Questa scarsità di acqua e l’aumento del prezzo dell’energia degli ultimi mesi hanno fatto aumentare il prezzo dell’acqua per l’irrigazione del 300%, come denunciato dal COAG nel novembre 2021. Soluzioni come gli impianti di desalinizzazione, la grande scommessa delle amministrazioni, non sono una panacea a causa dei loro alti costi energetici.

L’aumento del numero di serre in Cina, la crescente scarsità di petrolio e il suo costo elevato influiscono direttamente sul prezzo della plastica che, insieme all’aumento del costo dell’acciaio, sta rendendo inaccessibile la costruzione di nuove infrastrutture. In un anno il prezzo di un ettaro per una nuova serra è quasi raddoppiato, come ha denunciato il COAG alla fine dello scorso anno. Già mesi fa diverse imprese di installazione hanno confermato questo aumento a “La Voz de Almería”, ma bisogna tenere presente che questa circostanza non colpisce solo le serre di nuova costruzione ma anche la loro ristrutturazione, dato che la vita utile della plastica è compresa tra i 3 e i 5 anni. La produzione di rifiuti plastici da serra è stimata in 2.400 chili/anno/ha di polietilene a lunga durata, secondo dati del Plan Director Territorial de Gestión de Residuos Urbanos de Andalucía (Piano regolatore territoriale per la gestione dei rifiuti urbani in Andalusia). Anche la loro gestione ambientale una volta dismessi comporta dei costi, che continuano ad aggiungersi a un bilancio sempre più difficile da mantenere.

 

“La crescente scarsità di petrolio e il suo costo elevato influiscono direttamente sul prezzo delle materie plastiche”

 

D’altra parte, secondo gli studi dell’Instituto Andaluz de Investigación y Formación Agraria, Pesquera, Alimentaria y de la Producción Ecológica – IFAPA (Istituto andaluso di ricerca e formazione per l’agricoltura, la pesca, l’alimentazione e la produzione biologica), le elevate dosi di erbicidi, fertilizzanti e pesticidi utilizzate per raggiungere la produzione richiesta dai mercati globali hanno reso le serre sempre più deboli, richiedendo maggiori input e l’aggiunta sempre più frequente di nuove sabbiature. Questo significa un aumento dei costi lordi, soprattutto a causa del già citato aumento dei prezzi dell’energia, ma anche dei materiali necessari al confezionamento e al trasporto dei prodotti ortofrutticoli. Inoltre entra in gioco anche la carenza di alcuni minerali agricoli, come il fosforo.

Infine, l’agricoltura di Almería tende ad aumentare la produzione per rimanere competitiva in un mercato globale svalutato a causa di una sovrapproduzione generalizzata. In questo ambito la stessa produzione almeriense genera tensioni con i suoi prezzi bassi e, a sua volta, risente dell’ingresso di prodotti agricoli provenienti da territori in cui i costi di produzione sono più bassi. Non dobbiamo dimenticare lo strangolamento dei prezzi di vendita dovuto al potere dei supermercati e delle grandi imprese di distribuzione. Questa crisi è avvertita in primo luogo dall’agricoltura familiare, che vede diminuire i suoi redditi rendendone più precaria la vita, soprattutto quella delle donne, in una situazione in cui i costi superano sempre più i benefici. Quanto potrà durare questa situazione?

 

Gli altri colori dell’agricoltura almeriense

Su tutto il territorio troviamo persone che hanno come obiettivo la produzione di alimenti agroecologici e che applicano l’agricoltura rigenerativa con l’intento di frenare la desertificazione. Un esempio di quest’ultima è l’iniziativa AlVelAl che, nelle regioni del Valle de Almanzora e Los Vélez (Almería) e nell’altipiano murciano-granadino, riunisce agricoltori e agricoltrici con associazioni di natura ambientalista ed educativa per contribuire a cambiare il rapporto con l’ambiente circostante: dal vedere la natura come qualcosa da dominare al riconoscersi come parte di essa. Con questa nuova prospettiva, in villaggi come Almócita (Alpujarra almeriense), ci sono diversi progetti che lavorano per la sovranità alimentare.

Tuttavia non dobbiamo dimenticare il modello di agricoltura tradizionale, di autosostentamento, certamente molto mascolinizzato e antiquato, che utilizza sia pratiche e conoscenze tradizionali sia prodotti derivati dalla Rivoluzione Verde, ma con un enorme attaccamento alla terra e all’ambiente in cui si svolge la sua attività. In questo tipo di agricoltura il sostegno tra i vicini è una priorità, con esempi come lo scambio di sementi, talee o steli di alberi da ripiantare, così come la condivisione di conoscenze sulle esigenze delle colture, dell’irrigazione o di cosa “dare al terreno” affinché produca di più. Il cibo viene consumato nello stesso territorio, dalle famiglie o dai vicini, e le donne fanno scambi non monetari (“prendi questi pomodori”, “ah, domani ti porto delle cipolle”) che rafforzano le relazioni.

 

Scenari non contemplati

In questo complesso scenario c’è un altro elemento importante. Facendo riferimento alla crisi che il settore sta attraversando e alla sua incapacità di sostenere costi di produzione più elevati, molti agricoltori (2) giustificano il ricorso al lavoro irregolare, arrivando a denunciare che il governo, con le sue ispezioni sul lavoro, non fa altro che “soffocare” l’economia delle piccole imprese. L’altra faccia di questa realtà esprime le terribili condizioni di vita e di lavoro a cui sono costretti i lavoratori stagionali, per lo più immigrati. Le loro vite sono la stampella che sostiene un modello alimentare insostenibile.

Almería ha saputo crescere all’interno del modello capitalista, che non dà priorità alla vita delle persone o dei territori. Il fatto che le condizioni ambientali incluse nella nuova PAC siano viste dai sindacati agrari come un pericolo per la produzione è forse la prova che non basta adattare le serre a sistemi di produzione più ecologici o addirittura biodinamici; occorre cambiare il paradigma.

Sembra che sia giunto il momento di chiedersi se un altro modello sia possibile ad Almería, un modello che renda le persone che vivono in questo territorio più sovrane, meno dipendenti dal libero mercato e dagli input necessari per essere in esso competitive. Forse questo modello dovrebbe essere costruito e gestito in un’ottica locale, fatta di cooperazione e circuiti chiusi, tenendo conto delle caratteristiche specifiche del territorio per migliorare l’ambiente e la vita di chi lo abita. Forse questo modello è già in atto ad Almería, in piccole iniziative diffuse in tutta la sua area geografica. Dovremo guardare intorno a noi coloro che si identificano con la natura, che sanno che generare alimenti nutrienti richiede la cura della terra, il miglioramento della biodiversità e la cura reciproca.

 

(*) Tratto da: Revista Soberania Alimentaria, Biodiversidad y Culturas.
Carmen López Zayas è Ambientalista e attivista di Pueblos en Movimiento.
Foto: Carmen López Zayas.
Traduzione di Marina Zenobio per Ecor.Network.


Note:

1) Soler Montiel, M., Delgado Cabeza, M., Reigada Olaizola, A. y Pérez Neira, D. (2017). Estrategias de la horticultura familiar almeriense ante la crisis de rentabilidad. Agricultura familiar en España, Anuario 2017, 239-245.

2) Delgado Cabeza, M., Reigada Olaizola, A., Soler Montiel, M. y Pérez Neira, D. (2015). Medio rural y globalización. Plataformas agroexportadoras de frutas y hortalizas: los campos de Almería, Papeles de relaciones ecosociales y cambio global, 131, 35-48.

 

https://www.labottegadelbarbieri.org/il-modello-almeria-si-scontra-con-i-suoi-limiti/