In perfetto
tema natalizio due settimane fa il giovane biotecnologo molecolare, divulgatore
scientifico, regista e produttore Hashem Al-Ghaili ha messo in rete un video su
un ipotetico futuro scenario in cui i bambini potranno essere coltivati in
uteri artificiali all’interno di laboratori. Attraverso un algoritmo viene
selezionato l’embrione geneticamente superiore da impiantare in una capsula
trasparente che simula l’ambiente uterino. Ogni utero artificiale è pervaso da
sensori per monitorare il livello di ossigeno nel sangue, il battito cardiaco,
la pressione sanguigna, la frequenza respiratoria, e rilevare eventuali
anomalie genetiche. Grazie all’AI e tramite un’app i genitori possono conoscere
in tempo reale e comodamente dal proprio smartphone lo stato (o meglio, i
parametri) di salute del bambino, e scegliere suoni vocali o musicali da
trasmettere nella capsula uterina. Inoltre, l’utero artificiale è dotato di
telecamere a 360 gradi e indossando un visore vr è possibile vedere, toccare e
udire quello che percepisce il feto nell’utero artificiale. Una tuta vr,
invece, consente di sentire i calci e i movimenti compiuti dal bambino, nutrito
al meglio con ormoni, fattori di crescita e anticorpi tramite un cordone
ombelicale digitale.
I laboratori
di EctoLife garantiscono la “produzione” di 30.000 bambini
all’anno, un
ottimo risultato se si vuole elevare il numero di nascite in paesi che soffrono
di decrescita demografica come Giappone, Bulgaria e Sud Corea; e per
fronteggiare il problema delle morti fetali dovute a complicanze in gravidanza,
che secondo l’WHO sfiorano
i due milioni all’anno. La retorica sottostante al progetto, ovviamente, è
filantropica: permetterebbe alle madri a cui è stato rimosso l’utero a causa di
malattie tumorali o altre complicazioni di oltrepassare i farraginosi iter
burocratici della maternità surrogata. Ma tale speculazione dialettica è
costruita ai fini della sponsorizzazione di un prodotto, che si punta a rendere
disponibile per ogni coppia o single interessata/o. A conferma di ciò è la
possibilità, prima dell’impianto, di programmare geneticamente l’embrione,
personalizzando il colore degli occhi, dei capelli, della pelle, la forza
fisica, l’altezza, e il livello di intelligenza. È facile da immaginare che ad
ognuna di queste scelte in pieno stile The Sims corrisponderà
un determinato valore economico. Ma il profitto non si fermerebbe qui, dato che
un sistema di nascite tale andrebbe a tessere reti tra investitori in campo
farmaceutico (ad esempio per le sostanze nutritive fornite ai feti e ad
eventuali terapie rivolte agli stessi), tecnologico (per la strutture
biotecnologiche impiegate) e comunicativo-digitale (grazie alle app di monitoraggio
e vr). A ciò si aggiunge l’enorme quantità di dati medici e comportamentali che
i dispositivi coinvolti possono potenzialmente immagazzinare e successivamente,
tutele della privacy a parte, trasformare in valore.
Il video
divulgato da Al-Ghaili non si riferisce a uno specifico progetto di ricerca,
ma, oltre a voler sollecitare il dibattito su un nuovo modello di
genitorialità, si basa su risultati laboratoriali ottenuti o comunque non
lontani da raggiungere, e app già in uso per monitorare lo stato di salute del
bambino fuori dall’utero.
Recentemente
è stato finanziato dall’Unione Europea con un
fondo di 3 milioni di euro il progetto PLS (Perinatal Life Support), che punta a realizzare
un supporto vitale perinatale funzionante entro 5 anni. Sotto la guida dei
ricercatori dell’Università Tecnica di Heindoven, il dispositivo vorrebbe
supportare la vita dei “feti pretermine” (prima della 22esima settimana)
tramite il loro trasloco in un utero artificiale simulato. All’interno, non
sarebbero garantite solo le caratteristiche biologiche quali la presenza di uno
pseudo liquido amniotico e sostante nutritive, ma i feti godranno di sensazioni
tattili, uditive e olfattive paragonabili a quelle del grembo materno. In
questo progetto i test sugli animali non saranno contemplati, perché manichini
stampati in 3D e dotati di un vasto range di sensori permetteranno, insieme a
modelli computazionali e simulazioni computerizzate ad hoc, di testare e
monitorare tutti gli aspetti salienti della gravidanza, prima di immaginare un
primo test sull’uomo.
Il PLS è
figlio di un altro progetto che nel 2017 ha visto protagonista il Children’s
Hospital, a Philadelphia, di cui è stato pubblicato uno studio sulla
rivista Nature. Il team di
ricercatori americano ha sviluppato la Biobag, una sacca di
plastica che simula la protezione offerta dalla placenta, colma di una
soluzione elettrolitica che mima il liquido amniotico, e dotata di un tubo che
viene collegato al feto in via di sviluppo, per replicare le funzioni del
cordone ombelicale, filtrando il sangue dalle scorie e dall’anidride carbonica
e arricchendolo di nutrienti e ossigeno. L’esperimento è stato condotto
attraverso l’impiego di feti di agnelli che si trovavano in una fase
evolutivamente paragonabile ai nati pretermine umani nella soglia di viabilità
riconosciuta: 24 settimane. Dopo 4 settimane di incubazione i feti di agnello
sono stati estratti sopravvissuti, mostrando una normale crescita somatica,
maturazione polmonare, crescita cerebrale e mielinizzazione. I limiti
dell’esperimento, tuttavia, come è ben esposto in uno studio del British Medical Journal, riguardano
soprattutto il carattere etico e legale del progetto, dato che la tecnica
sottesa al Biobag, l’AWT (Artificial Womb Tecnology), non è
un’estensione dell’attuale incubatrice, ma qualcosa di completamente
nuovo. L’AWT, infatti, ha la capacità di sostituire completamente una
funzione umana: replica e sostituisce un processo biologico, piuttosto che
tentare un salvataggio. Questo lo rende, in effetti, un
passaggio nel regno dell’automazione. L’incubatrice tradizionale,
invece, ha lo scopo di supportare solo quella capacità di vita che il neonato
sta già esercitando o sta iniziando a esercitare. Pertanto, il neonato si fa
carico di parte del fardello del sostentamento. L’AWT è più vicina alle
tecnologie che sostengono gli individui con morte del tronco cerebrale, che
alle forme di supporto artificiale fornite ai pazienti in coma con sistemi
nervosi funzionanti, che coordinano ancora alcune importanti funzioni corporee.
Subentra poi il problema terminologico, nonché etico, sulla denominazione
vitale. Innanzitutto il termine “feto” (umano) per ora implica che si trovi
all’interno di un gestante umano, e dunque occorre rivedere i termini
scientifici. Inoltre, bisognerebbe metter mano anche alla definizione di
“viabilità”, ovvero il punto dello sviluppo fetale in cui il feto può
sopravvivere al di fuori dell’utero (circa 24 settimane). La viabilità
consiste, in molti paesi, nella possibilità per il feto di godere di alcune
tutele legali che limitano l’accesso all’aborto, “è un compromesso con la lobby
anti-abortista e gli attivisti pro-vita”. Immaginare di spostare la
viabilità verso la fase embrionale, comprometterebbe seriamente la possibilità
di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza della donna. Infine,
se il Biobag, strutturato per accogliere un “feto” che ha meno di
22 settimane, funzionasse meglio dell’incubatrice tradizionale, i medici
intravedrebbero maggior valore nel trattamento per i nati pretermine più
giovani, sacrificando i pretermine che hanno superato la fascia critica delle
22 settimane.
Spostiamoci,
ora, fuori dall’utero, per dare uno sguardo alla digitalizzazione del sapere
genitoriale tramite app e dispositivi che monitorano lo stato di salute del
bambino: possiamo citare almeno due esempi. Innanzitutto app quali Bebè
+, che permettono ai genitori, una volta inseriti i dati sensibili del
neonato, di conoscere le sue fasi di crescita, i suoi bisogni, le sue tendenze
(espressi tramite parametri standard). Oppure Baby Connect, un
tracker all-inclusive per lo sviluppo del bambino che registra il sonno, le
poppate, i pannolini e l’umore del bambino in un’interfaccia che consente di
scambiare informazioni in tempo reale. Ancora più recente è il software alla
base dell’app Tata Digitale, che si prefigge l’obiettivo, tramite
la registrazione sonora del pianto neonatale, di decodificarne la natura,
indicando al genitore se si tratta di fame, sonno, colichette, dolore fisico o
la richiesta di attenzione. Siamo di fronte alla volontà di standardizzare e
digitalizzare un sapere pratico, soggettivo e legato all’esperienza diretta
come quello della crescita figliale, legato a un cospicuo ricavo economico.
Valore economico che si misura soprattutto attraverso l’immensa qualità di dati
raccolti, una miniera d’oro nei tempi che corrono.
Ho iniziato
l’articolo con una battuta perché fa sorridere la coincidenza temporale tra
l’uscita di EctoLife e la vicina nascita di Gesù, ma anche
perché le critiche al Transumanesimo che hanno più eco in Occidente sono di
matrice cristiana e dunque comunemente intese dalla Sinistra come retrograde.
Una strategia della classe dominante legata a interessi economici quali ad esempio
quelli della Big Tech, è anche dipingere – tramite la collaborazione con grandi
aziende di comunicazione e social network – i dissidenti come fanatici o
ignoranti, proprio per ridicolizzare e delegittimare la possibilità stessa di
critica. La contro-informazione politica e la possibilità della contestazione
dal basso sono seriamente in pericolo, buttate nel calderone del complottismo
più becero, anche quando si tratta di analisi basate su fonti accademiche o
comunque su ricerche approfondite. Inoltre questa tendenza, che abbiamo visto
già protagonista ad esempio a proposito dell’obbligo vaccinale, rispecchia una
visione classista che preclude ai “non esperti” la possibilità di esprimersi su
questioni così scientifiche da dover essere delegate ad altri, ma le cui
conseguenze poi sono vissute sulla pelle della classe dominata.
Dunque,
quale analisi per questo Transumanesimo che si vorrebbe estendere perfino alla
creazione di esseri umani in laboratorio? Dove sta il profitto e quale è il
conseguente modello sociale che ne deriva? Qui siamo ben oltre alla
mercificazione del corpo femminile impiegata nella maternità surrogata: proprietà
biologiche esclusivamente femminili sono espropriate per creare un ambiente
(l’utero artificiale) consono alla coltivazione di esseri umani. Se
“surrogare” etimologicamente significa “agire per altri”, (ed è infatti la
madre biologica, spesso denominata in modo sminuente “portatrice di embrione”,
che si fa carico del fardello della maternità), in un sistema natale simil-Ectolife le
azioni della gestazione e della gravidanza sono delegate interamente a un
dispositivo biotecnologico di proprietà privata. Il laboratorio/fabbrica
trasforma completamente il processo di nascita in un’operazione tecnica:
l’embrione è un prodotto da selezionare, migliorare, rifiutare o trasformare.
Inoltre, la possibilità di procreare, uno dei pilastri su cui si basa la
differenza sessuale, non è più prerogativa del corpo femminile, ma è affidata a
un’entourage medica al servizio dei capitali biotech e farmaceutici.
Oltre al
profitto legato alla mercificazione di un tale servizio, e al risparmio di un
sistema sanitario non più “vincolato” a curare malattie neonatali, è
impressionante immaginare la potenziale raccolta di dati e la conseguente sua
trasformazione in materiale profittevole tramite diffusione su dispositivi e
app. Gli interessi in gioco tra le varie compagnie farmaceutiche e Big Tech non
sarebbero conteggiabili.
E cosa
comporta in termini sociali l’artificializzazione e la digitalizzazione della
gravidanza? Problematiche psicologiche e mediche, connesse al coinvolgimento
del corpo nella fase del concepimento, ma anche il fondamentale diritto ai mesi
di maternità retribuita è trattato come vero e proprio ostacolo per
l’affermazione economica di quel prototipo umano costantemente produttivo e mai
a riposo. Il modello sociale che ne consegue, che rappresenta al contempo
l’esca perfetta per la sua affermazione, è la fuoriuscita dal proprio corpo di
eventuali difficoltà, complicazioni, stress, lesioni, che insieme però al
bagaglio esperienziale ed emotivo inspiegabilmente magico della gravidanza ne
rappresentano le caratteristiche costitutive e reali. Eliminare il rischio
potenziale di essere malati, avere complicanze gravi o sfiorare la possibilità di
morte sono il grimaldello propagandistico su cui fondare un tecno-uomo
invincibile e sfruttabile in ogni momento dal Capitale.
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