Nemmeno un
quarto delle persone straniere entrate in Italia per lavorare riesce a ottenere
un contratto regolare e i documenti. Di fronte ai dati della campagna “Ero
straniero” e al flop del meccanismo che regola l’ingresso di lavoratori e
lavoratrici dall’estero, il Governo Meloni ha spostato il dibattito sulle
prassi illecite. In realtà le falle sono a monte, come spiega l’avvocata e
socia Asgi Nazzarena Zorzella
“Non si può
escludere, in generale, che ci possa essere un interesse della criminalità,
organizzata o meno, rispetto al meccanismo dei decreti flussi che regolano gli
ingressi per lavoro dei cittadini stranieri in Italia ma tutto ciò è la
conseguenza di un sistema normativo irrazionale e farraginoso. Come sempre la
criminalità, piccola o grande, si organizza a seconda di dove c’è opportunità.
Non dobbiamo dimenticarlo”.
Quello di
Nazzarena Zorzella, avvocata che da trent’anni si occupa di diritto
dell’immigrazione e dell’asilo e socia Asgi, è un punto di vista privilegiato
per comprendere il dibattito esploso nelle ultime settimane in tema di quote e
ingressi per lavoro nel nostro Paese.
Un salto
indietro aiuta a fare ordine. A fine maggio la campagna “Ero straniero. L’umanità che fa bene” -promossa da A Buon Diritto, ActionAid, Asgi,
Federazione Chiese Evangeliche Italiane (Fcei), Oxfam, Arci, Cnca, Cild,
Fondazione Casa della carità Angelo Abriani con il sostegno di decine di
organizzazioni- ha pubblicato il dossier “I veri numeri del decreto flussi: un
sistema che continua a creare irregolarità”, facendo emergere il flop
istituzionale. Parlano i numeri. Nel 2023 le domande pervenute dai datori di
lavoro nei cosiddetti “click day” sono state infatti sei volte più
numerose delle quote di ingressi stabilite: 462.422 istanze inviate a fronte di
82.705 posti disponibili. Non solo: nella fase di finalizzazione della
procedura che prevede l’assunzione e il rilascio dei documenti, a fronte di
74.105 posti realmente disponibili (perché 8.600 sono conversioni di altri
permessi), sono state appena 17.435 (cioè il 23,5%) le domande effettivamente
portate a termine con la sottoscrizione del contratto e la richiesta di
permesso di soggiorno per lavoro. Tradotto: è il sistema a generare
irregolarità e ricattabilità, con una minima parte delle lavoratrici e dei
lavoratori che entrano in Italia con il decreto flussi che riescono poi a
stabilizzare la propria posizione lavorativa e giuridica, ottenendo lavoro e
documenti, mentre la stragrande maggioranza scivola in condizioni di
subalternità.
Ci sarebbe
un modo per evitare questa situazione, uno strumento previsto proprio dal Testo
unico immigrazione del 1998 riformato dalla “Bossi-Fini” nel 2002, ovvero il
permesso di soggiorno per attesa occupazione che può essere rilasciato in caso
di indisponibilità all’assunzione da parte del datore di lavoro. Peccato che,
come ricostruito dai dati raccolti da “Ero straniero”, nel 2023 ne sono stati
rilasciati la miseria di 84 (fino a gennaio 2024). Un numero del tutto
insufficiente rispetto alle decine di migliaia di persone che avrebbero
necessità di poter rimanere legalmente in Italia e cercare un nuovo lavoro.
Di fronte
all’enormità di questi dati, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni il 4
giugno ha ipotizzato invece l’infiltrazione della criminalità organizzata nella
gestione delle domande presentate. “Sono stati utilizzati come meccanismo per
consentire l’accesso in Italia, per una via formalmente legale e priva di
rischi, a persone che non ne avrebbero avuto diritto, verosimilmente dietro
pagamento di somme di denaro”, ha dichiarato, tentando di spostare il dibattito
-e riuscendoci a livello mainstream- su una stortura illecita e non invece su
quella che, a detta dell’avvocata Zorzella, è una stortura di sistema. Le abbiamo
chiesto di spiegarci dettagliatamente il perché.
Avvocata
Zorzella quali sono i principali meccanismi del sistema d’ingresso per lavoro
in Italia che causano irregolarità e contribuiscono a creare precarietà e
ricorso al lavoro nero, con tutto ciò che tale condizione comporta a livello
sociale ed economico per il nostro Paese?
NZ Il
vizio originario è proprio il meccanismo legale del decreto flussi che continua
a riproporre il sistema dell’incontro a distanza tra l’offerta e la domanda di
lavoro. Ce lo trasciniamo ormai da decenni ed è pacifico, assodato e
consolidato che è uno dei grandi produttori di irregolarità per le persone che
entrano in Italia. Nel nostro Paese oggi è presente un sistema produttivo di
piccole e medie aziende che hanno bisogno di conoscere le persone con cui
lavorano, magari anche di mettere alla prova le loro competenze. Per cui è
paradossale, anacronistico e irrazionale mantenere questo sistema di chiamata a
distanza, fingendo di non conoscere il lavoratore che si intende chiamare. Che
cosa succede quindi nella maggior parte dei casi, in un percorso sperimentato
ormai da anni: le persone entrano in Italia, regolarmente con visto turistico o
irregolarmente, trovano lavoro in nero e aspettano che esca la regolarizzazione
o il decreto flussi. Se piacciono al datore di lavoro, sarà lui a partecipare
alla “lotteria” dell’assegnazione di una quota attraverso i “click day”.
Ci sono persone che aspettano anni prima che il datore di lavoro riesca ad
ottenerne una perché vengono esaurite nel giro di pochi secondi dall’apertura
della procedura per la richiesta. Questo sistema è l’opposto di quello che
dovrebbe caratterizzare le catene migratorie tradizionali, basate sulle
famiglie o i connazionali e dunque sulla conoscenza diretta che loro hanno dei
datori di lavoro sul territorio e che consentirebbe di chiamare quel tal
lavoratore o lavoratrice. Il sistema del decreto flussi, invece, ignora quel
meccanismo e impone una chiamata fingendo di non conoscere il lavoratore o la
lavoratrice ed è evidente che se non c’è stato un pregresso periodo di
soggiorno in Italia prima della chiamata, l’alternativa è affidarsi a soggetti
italiani o stranieri che reperiscono proposte di lavoro, anche se non è detto
che tutte siano a fronte di pagamento di denaro.
Enfatizzare possibili segmenti di criminalità significa nascondere meccanismi
che derivano proprio dalla legge. È proprio il meccanismo normativo che crea
quindi irregolarità e che permette che si possano creare anche dei mercati
economici paralleli per acquisire la possibilità di entrare in Italia,
all’interno delle quali possono anche innestarsi delle vere e proprie truffe
che sono soprattutto, se non esclusivamente, a danno dei lavoratori e delle
lavoratrici che vorrebbero entrare in Italia per lavorare regolarmente.
Un’altra causa, sempre conseguenza strutturale del decreto flussi, è la
mancanza in Italia di un sistema legislativo di regolarizzazione ad personam,
cioè la possibilità di acquisire il permesso di soggiorno che è il titolo che
legittima la permanenza sul territorio nazionale, per chi arriva in Italia
(anche con un visto regolare per turismo) e successivamente trova
un’opportunità di lavoro. Il terzo fattore che spiega quello che sta succedendo
e che svela anche la strumentalizzazione e la manipolazione della realtà da
parte della politica, è l’assenza di canali di ingresso per ricerca di lavoro,
che dovrebbero essere, a mio parere, il sistema principale di ingresso
regolare. Questo era un meccanismo legale, previsto nel Testo unico sull’immigrazione
quando è stato emanato nel 1998. Si trattava dell’articolo 23 che poi è stato
riformato molte volte e che la prima grande riforma della legge nel 2002, la
cosiddetta Bossi- Fini, ha abrogato perché definito troppo libertario in quanto
lasciava la persona libera di autopromuoversi.
Da allora non è stato più ripristinato. Prevedeva infatti la possibilità,
nell’ambito sempre delle quote del decreto flussi, di entrare dimostrando una
minima capacità reddituale che era pari all’importo dell’assegno sociale annuo.
Per cui una persona chiedeva il visto per ricerca di lavoro, arrivava in Italia
e otteneva un permesso di soggiorno per ricerca occupazione, cercava lavoro,
entro un anno se lo trovava – e l’hanno trovato tutti- veniva trasformato in un
permesso per motivi di lavoro. È vero che anche nei quattro anni in cui è stata
una norma di legge non è stato molto utilizzato, però era un sistema
all’interno delle quote, cioè non si trattava di un “liberi tutti” e negli anni
in cui è stato sperimentato ha avuto buoni esiti.
Ci sono poi
diversi motivi per cui il nulla osta rilasciato al lavoratore e alla
lavoratrice può essere revocato, ce li può spiegare?
NZ Il
controllo della congruità delle domande dell’azienda, cioè il numero di
dipendenti che ha rispetto alla sua capacità reddituale, prima era affidato
all’Ispettorato del lavoro. Adesso invece viene fatto attraverso
un’asseverazione da parte di consulenti del lavoro o di commercialisti o
avvocati. Una volta che il lavoratore e la lavoratrice sono entrati in Italia,
lo Stato o l’Ispettorato possono fare dei controlli sulla veridicità e sulla
fondatezza di questa asseverazione ed eventualmente revocare il nulla osta.
Oppure, dopo l’ingresso, potrebbe arrivare il nulla osta negativo della
questura che deve verificare che il lavoratore o la lavoratrice che il datore
di lavoro vuole chiamare non abbia un’espulsione dall’Italia o da un altro
Paese dello spazio Schengen o dei precedenti penali per periodi pregressi in
Italia. Un altro scenario che può verificarsi è che il datore di lavoro non sia
più disponibile perché magari è passato troppo tempo, sono cambiate le
condizioni del mercato o le sue condizioni reddituali o altro.
In questo caso non è previsto, quantomeno formalmente, il rilascio di un
permesso di soggiorno per attesa occupazione e questo vuol dire che il
lavoratore o la lavoratrice entrato con un visto per lavoro non può
regolarizzare il proprio soggiorno sul territorio nazionale, anche se trova
un’altra occasione di lavoro. Tutto ciò crea ovviamente ulteriore irregolarità
e danno per il lavoratore e la lavoratrice che non avendo la possibilità di
rimanere regolarmente sul territorio nazionale, si immetterà nel mercato del
lavoro nero. Ci sono poi altre criticità, sempre genetiche dello stesso sistema
del decreto flussi che questo governo ha complicato, nel senso che si va sempre
più verso la selezione sia dei Paesi sia delle tipologie di lavori per i quali
può essere richiesto il nulla osta e poi il visto. Questi ultimi coincidono con
le carenze del mercato del lavoro italiano ma solo in parte. E questo succede
perché non c’è più il documento programmatico, istituito dal Testo unico
sull’immigrazione che doveva essere redatto di concerto dei vari ministeri ma
anche delle associazioni sindacali, datoriali e delle associazioni del terzo
settore. Il documento fotografava il mercato del lavoro e individuava anche le
misure di integrazione sociale per i lavoratori e le lavoratrici. L’ultimo
documento programmatico è del 2004-2006. Per cui attualmente la selezione delle
tipologie di lavoro viene fatta dal ministero del Lavoro e dal ministero
dell’Interno.
Che ruolo ha
quindi la criminalità organizzata?
NZ È un
po’ lo stesso meccanismo del traffico di esseri umani. Perché esiste il
traffico di esseri umani? Perché non ci sono canali regolari di ingresso.
Nessuno si metterebbe nelle mani dei trafficanti con il rischio di morire nel
mar Mediterraneo o nella rotta balcanica se potesse acquistare un biglietto
anche a mille e cinquecento euro. Se non dai nessuna alternativa non puoi dopo
lamentarti che ci siano questi fenomeni la cui rilevanza è comunque tutta da
accertare.
Proposte
alternative come i corridoi lavorativi potrebbero essere una soluzione?
NZ Si sta
configurando un ulteriore canale preferenziale che sono gli ingressi fuori
quota che possono presentare elementi di criticità. Si potrebbe pensare: “meno
male che gli ingressi non sono tutti ristretti all’interno delle quote” che
sono del tutto inadeguate. La possibilità d’ingresso fuori quota è riservata
alle associazioni datoriali che promuovono dei corsi di formazione nei Paesi di
origine delle lavoratrici e dei lavoratori. Una volta completati, viene
rilasciato il visto di ingresso. Insomma, c’è un collegamento molto stretto tra
questi corsi di formazione e la possibilità di ingresso in Italia. Per il Testo
unico sull’immigrazione, dalla Bossi-Fini del 2002, il datore di lavoro quando
chiede il nulla osta deve garantire anche l’alloggio e le spese di rimpatrio. È
vero che questo meccanismo in parte liberalizza, va oltre il sistema del
decreto flussi. Dall’altra però la mia preoccupazione è che sia un meccanismo
che lega indissolubilmente il lavoratore e la lavoratrice al proprio datore di
lavoro. All’interno di questo meccanismo stanno iniziando i corridoi lavorativi,
che sono nati sulla falsa riga dei corridoi umanitari (che già a mio avviso
avevano delle grossissime criticità perché non avevano né hanno una effettiva
base giuridica) basati su un’applicazione dell’art. 23 del Testo unico
immigrazione. Corridoi lavorativi che presuppongono un periodo di formazione
all’estero e poi l’ingresso in Italia per essere assunti da aziende individuate
dall’Ente promotore del Protocollo.
Il primo corridoio lavorativo che è stato stipulato fino ad ora tra il
ministero dell’Interno, degli Esteri e del Lavoro e la Comunità di Sant’Egidio,
presenta tutti i criteri selettivi dei Paesi e dei lavoratori, nel senso che
individua innanzitutto tre Paesi che sono Libano, Etiopia e Costa d’Avorio e
per adesso riguarda circa 25 lavoratori da formare, per cui un numero
abbastanza limitato. Però nell’arco del triennio di validità del protocollo
potrebbero essere trecento, un numero ancora esiguo rispetto al fabbisogno del
mercato del lavoro italiano che però comincia a essere significativo. L’assunzione
di totale responsabilità in capo al datore di lavoro sia della formazione, sia
dell’ingresso e dell’alloggio comporta secondo me un rischio: il fatto che
stiamo prefigurando un meccanismo quasi di schiavitù moderna, che non è la
classica schiavitù chiaramente, perché per legge dovranno rispettare il
contratto collettivo nazionale. Però la domanda da farsi è: se tutta la vita
lavorativa ma anche extra lavorativa, cioè l’alloggio, è a carico del datore di
lavoro e nelle sue responsabilità, come fa il lavoratore e la lavoratrice a
prendere conoscenza del tessuto sociale in cui viene immesso? Quali strumenti
avrà per “liberarsi” dal legame con il datore di lavoro nel caso voglia
cambiare lavoro? Immagino, e spero che sia un’immaginazione causata da eccessiva
preoccupazione, residence vicini all’azienda per cui i lavoratori e le
lavoratrici si muoveranno da questi all’azienda e viceversa, rimanendo fuori
dal contesto della comunità territoriale con cui chi emigra entra in contatto,
attraverso cui acquisisce anche la lingua, stabilisce relazioni, etc. E come
faranno se vogliono dimettersi per esempio, se non conoscono il tessuto
sociale? Chi li orienterà sul territorio a trovare altre opportunità di lavoro?
È un meccanismo preoccupante.
Per quanto
riguarda la competenza amministrativa: la materia dell’immigrazione è ancora
affidata al ministro dell’interno e alle questure, lei cosa ne pensa?
NZ Dopo più di
quarant’anni di realtà migratoria in Italia, affidare la materia ancora al
ministero dell’Interno, come era nel regio decreto del 1931 cioè il Testo unico
di pubblica sicurezza, non è solo anacronistico ma è irrazionale. Da tempo noi
associazioni chiediamo che le competenze passino agli enti locali, ai soggetti
che giuridicamente hanno competenza per le persone che abitano in quella
comunità territoriale. Questo non vuol dire sopprimere i controlli di
sicurezza, che è l’aspetto che più preoccupa nel senso che le questure
potrebbero comunque continuare a fare i loro controlli di pubblica sicurezza,
trasmettendoli poi all’ente locale. A questa criticità di base si aggiunge poi
l’inadeguatezza organizzativa delle questure che, anche per mancanza di
personale, oltre che spesso e volentieri per interpretazioni restrittive dei
testi di legge, determinano delle lungaggini procedurali e procedimentali
assurde. Per legge il permesso di soggiorno dovrebbe essere rilasciato entro
sessanta giorni, ma capita che una persona arrivi ad aspettare un anno o anche
di più e sia in possesso a lungo della sola ricevuta di permesso, con il
rischio dio perdere il lavoro e di non potere esercitare i diritti sociali
connessi al possesso di un permesso vero e proprio.
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