Dieci anni fa ho pubblicato questo libro e ora lo ripubblichiamo, in una nuova edizione in spagnolo e per la prima volta in catalano. La situazione di depressione pandemica in cui uscirà mi fa dubitare della sua necessità. È facile dire che la filosofia non serve a nulla, quando quel nulla di senso si vive con allegria. Il gioco dei problemi e dei concetti diventa allora la festa di un eccesso, in cui desiderio e intelligenza si moltiplicano e fecondano il linguaggio, portando i loro codici al parossismo. Ma quando il nulla si tinge di minacce, quando il vuoto è solo vuoto, quando il non senso diventa normalità, allora diventa più difficile affermare con allegria che la filosofia è inutile e per questo conta. Se vivere è un conto alla rovescia, qualsiasi cosa che non sia una risposta all’emergenza sembra una perdita di tempo.
Pensare o predicare
Gran parte del pensiero contemporaneo sembra muoversi tra due opzioni:
constatare l’apocalisse o metterle toppe e usare rimedi palliativi. Avvertire
dei disastri o muoversi al loro interno. Nel raccontare i disastri che
verranno, si percepisce come un’eccitazione, si manifesta nel pubblicarli prima
degli altri, nell’esercitare da intellettuali della fine del mondo. Il pensiero
critico cessa di essere critico quando la sua funzione è quella di commentare
una partita a cui non prende parte. Racconta con emozione come si muove la
palla, come le opzioni si perdono una giocata dopo l’altra. L’apocalisse è
sempre stata una forma di spettacolo, una promessa perversa che qualcosa di
importante sta per accadere. Che la vita vada avanti, nonostante tutto, è quasi
motivo di delusione. Ammalati di normalità, ci chiediamo, non può succedere
qualcosa una volta per tutte?
In questi dieci anni il mondo sembra essersi fatto drammaticamente comune.
Non si tratta solo della pandemia di Covid-19. L’evoluzione di internet e delle
tecnologie verso la concentrazione di monopoli privati ci fa stare tutti
sugli stessi social network e sulle stesse piattaforme di
consumo. L’evoluzione del cambiamento climatico e della scarsità di risorse
naturali ed energetiche ci collocano negli abissi della calamità globale.
L’aumento del numero e della mortalità dei movimenti migratori, la sproporzione
degli indici di disuguaglianza in ogni società e a livello globale… Tutti
questi aspetti, per citare solo i più evidenti, ci incatenano a una realtà
unica in cui l’interdipendenza di tutti i fenomeni s’è fatta pià stretta ed è
diventata una minaccia per la maggior parte della popolazione.
Come accade nel cinema più recente, sembra che qualsiasi teoria possa darci
solo ragioni e immagini, a volte solamente povere metafore, per la nostra
salvezza o la nostra condanna. La crisi dell’immaginazione è una crisi della
critica, quando gli unici limiti a cui possiamo pensare sono quelli della
nostra stessa fine. Un sentimento neoreligioso pervade gran parte del discorso
più attuale, anche se non sembra. Il domani dell’estinzione o quello di una
resurrezione “più che umana” sembrano gli unici futuri con cui possiamo
confrontarci oggi. Allora il pensiero smette di pensare e si dedica a predicare.
Un concetto latente
Il concetto di mondo comune ha una lunga storia, che comincia all’inizio
del ‘900 con la fenomenologia, quando questa corrente filosofica si azzarda a
interrogarsi su quali siano le fonti della nostra esperienza e comprensione del
mondo, prima della conoscenza che abbiamo dei suoi oggetti. Vale a dire, su ciò
che c’è “prima” della scienza e della tecnica, oppure, detto in un altro modo,
su ciò che sostiene e si nasconde sotto il nostro rapporto di sapere e dominio
sul mondo come insieme di oggetti (umani inclusi).
Questo spostamento della domanda e, quindi, dello sguardo, cambia anche la
posizione del soggetto, che non si trova più immune e frontale davanti al
mondo, ma si scopre nel “tra”, cioè nella trama di relazioni che lo compongono
e lo inscrivono in un mondo naturale e sociale. Come riassumerà il filosofo
Merleau-Ponty in una delle espressioni che guidano questo libro, l’aspirazione
a un mondo comune ci porta a “risvegliarci nei legami”. Per Merleau-Ponty,
principale ispiratore di questo libro, questo “tra” è il nostro corpo, inteso
non come unità anatomica, ma come un nodo di significati viventi. Per una
filosofa sua contemporanea come Hannah Arendt, questo “tra” sarà il luogo del
soggetto politico e del mondo comune, l’apertura di una distanza che rende
possibile l’azione e il discorso. Sono due opzioni diverse, una verso la parola
e l’altra verso il corpo, di una stessa posizione coinvolta nella pluralità
irriducibile all’unità delle vicende comuni.
Questo soggetto coinvolto in un mondo comune è quello che ha assunto
rilevanza, con nuovi significati, nella teoria critica contemporanea, perché
decentra il punto di vista, senza svincolarsi dai problemi comuni. Le
soggettività che storicamente ne hanno occupato i margini hanno voce nella
pluralità irriducibile di un mondo comune, perché da ognuna di esse il senso
del mondo appare in modo diverso, in conflitto e in disputa. Per questo
possiamo seguire la pista del concetto di mondo comune nelle filosofie
femministe, nelle teorie postcoloniali (soprattutto nell’ambito dell’attuale
filosofia africana), nella riflessione e nelle lotte contro la precarizzazione
della vita (lavoro, casa, produzione, consumo…) o nelle teorie scientifiche e
filosofiche che stanno tessendo un modo nuovo di concepire la relazione tra
l’umano e il non-umano, la natura e la cultura nell’era conosciuta come
Antropocene.
Con la globalizzazione e l’Antropocene, il mondo non s’è fatto più comune
ma, come abbiamo detto, si è drammaticamente unificato. Contro quella tendenza
e i suoi terrificanti miraggi, contro le sue metafore e i suoi predicatori,
interrogarsi su un mondo comune è un invito a pensare e immaginare ciò che ci
lega senza ridurlo all’unità, né dell’essenza, né del sistema, né
dell’identità.
Problemi comuni
La filosofia non è un programma di salvezza. Lavora con problemi comuni.
Elabora le sue mappe e così prepara il terreno per le sue soluzioni possibili.
Non è vero che non abbia risposte: le mette alla prova senza chiuderle.
Rileggere “Un mundo común” a dieci anni dalla sua prima pubblicazione è
ritrovare una mappa dei problemi che sono ancora i nostri. In alcuni casi si
sono complicati, in altri si sono arricchiti con esperienze, teorie e lotte
venute dopo.
Elaborare la mappa dei problemi comuni è la strategia critica più efficace
contro il dogma apocalittico e i suoi promotori a destra e a sinistra. È anche
la strategia più efficace per non cadere nell’altra tentazione, quella della
nostalgia e dell’idealizzazione dei tempi passati. Sebbene sia stato pubblicato
nel 2012, questo libro non è una sublimazione delle lotte che hanno scosso le
piazze di molte parti del mondo nel 2011. Fa parte della risonanza che ha
condotto molti di noi a esse, ma anche dei problemi che né allora né oggi siamo
stati in grado di risolvere. Dall’irrisolto che chiede di tornare a essere
pensato, i problemi comuni che vengono sviluppati in questo libro sono parte
della nostra attuale geografia, una geografia filosofica e politica che
possiamo situare all’incrocio di almeno cinque nozioni: interdipendenza, noi,
impegno, critica, incompiutezza. I problemi rimangono, ma i significati e le
tonalità di questi concetti si sono spostati. Per questo è interessante
ritornarvi come punto di partenza per una nuova lettura.
Maurice Merleau-Ponty e la figlia lungo la rue Canebière a Marsiglia,
estate 1948
NOI. il Novecento si è chiuso con il culmine dell’individuo come protagonista
della vita politica e sociale, con tutte le sue espressioni culturali,
commerciali e psicologiche. L’Io sembrava regnare proprio nel momento in cui
cominciava a rompersi. La sociologia, la politica, la filosofia, l’arte, ecc.
ruotavano intorno al culto dell’individuo o alla sua critica. Il paradigma
individualista sembrava confondersi con l’esistenza umana stessa, come se non
potessero mai arrivare a differenziarsi. Di fronte a questo, rivendicare il Noi
è stato un appello a reincontrare la comunità, il collettivo e ad aprire i
significati possibili della vita al plurale.
Quando abbiamo già alle spalle due decadi del XXI secolo e qualche crisi
vissuta e da vivere, l’individuo e le sue rivendicazioni cominciano a essere
una figura sfumata. La crisi terroristica del 2001, la crisi finanziaria del
2008, la crisi sanitaria del 2020 e la crisi ambientale come presente continuo
e futuro irreversibile ci hanno collocato in uno scenario in cui i privilegi si
difendono dall’interno del gruppo. Il problema è che chi ha capito meglio
questa nuova situazione sono i più ricchi, che si tutelano e si arricchiscono a
vicenda, oppure le cosiddette politiche populiste, cioè costruite sull’idea di
un gruppo (popolo, razza, cultura, ecc. ) che deve difendersi ed essere difeso
dalla minaccia degli «altri». Anche i movimenti sociali si sono spesso
rinchiusi in queste logiche autoreferenziali, sempre più di scontro ed
escludenti. Sono logiche che si son viste rafforzate, peraltro, dall’asprezza
della repressione che, a scala globale, sta esercitando un sistema di
sorveglianza e di dominio sempre più vicino al tecnofascismo.
I Noi sono protagonisti della scena sociale e politica di oggi, ma sono un
Noi in lotta per la sua esistenza e per la conservazione di ciò che considerano
i loro privilegi o le loro aspirazioni. Mentre l’Io sprofonda nel disagio
psichico, nella solitudine e nel consumo, il Noi si riarma sulla base di
identità riconoscibili, nuove ritualità politiche e leader forti. Come imparare
a dire Noi contro l’identità di gruppo che ne definisce e chiude il
significato? Come imparare a dire noi oltre il riconoscimento e la difesa “dei
nostri”? Queste domande sono state il punto di partenza di “Un mundo común”
e continuano ad essere oggi, con ancor più urgenza, le chiavi per aprire le
serrature del nostro presente. La collaborazione, la cooperazione, il sostegno
reciproco, le resistenze, l’accoglienza, l’apprendimento… sono pratiche sociali
e politiche che non possono partire dal gruppo chiuso, devono aprire e
inventare i significati possibili della vita in comune.
INTERDIPENDENZA. L’interdipendenza è passata dall’essere una rivendicazione ad essere
vissuta come una minaccia. Dalle scienze fisiche e sociali, dalla filosofia e
dai movimenti sociali come l’ambientalismo o il femminismo, si lavora da
decenni per ricomporre una visione del mondo che privilegi i legami
dell’interazione e della dipendenza sui valori dell’autonomia e
dell’autosufficienza che invece aveva elevato l’individualismo. Negli ultimi
tempi, però, l’interdipendenza è diventata una pericolosa imposizione. Ciò è
avvenuto, soprattutto, con due esperienze interconnesse: la globalizzazione del
capitalismo e delle sue catene di estrazione, produzione e consumo in tempo
reale, e la pandemia di Covid-19, che ha posto la quotidianità di un mondo
contagioso nell’intimità dei nostri corpi e delle nostre case. Con queste due esperienze
della globalizzazione abbiamo percepito il mondo come più stretto e piccolo, e
l’interazione con gli altri, umani e non-umani, come sovraccarica di pericoli.
Le voci dei media ripetevano, all’inizio della pandemia, che avevamo
scoperto l’interdipendenza e la vulnerabilità. Non le avevamo scoperte. Erano
arrivate alla porta di coloro che, per i loro privilegi, avevano vissuto fino
ad allora nella finzione della loro autosufficienza e immunità. Per il resto
del mondo, la vita è sempre stata interdipendente e vulnerabile.
L’interdipendenza può essere sperimentata come condizione per l’emancipazione
collettiva. Ma può essere vissuta anche come il suo contrario: la minaccia
costante che deriva dal fatto di vivere nelle mani di altri, appesi all’aria che
respirano, alle decisioni che prendono e ai modi di vivere che tengono. Questa
minaccia viene gestita oggi, molto efficacemente, da forze politiche di destra,
che invocano la libertà e l’autosufficienza – e perfino la secessione (dei
ricchi) e l’autogestione, di ciascuno, come modo per non dipendere dalle
zavorre e dai pericoli che comporta la vita in comune.
IMPEGNO. Le prime due questioni ci impongono di passare da analisi descrittive
a un giudizio di valore in cui si mettono in gioco opzioni e non solo situazioni.
È allora che si apre la questione concreta dell’impegno. Abbiamo scritto, dieci
anni fa, che l’impegno non è un esercizio della libera volontà, ma piuttosto
l’effetto di lasciare cadere l’immunità per chiedersi cosa ci colpisce. Vale a
dire, ciò che ci lega agli altri nel pensiero e nell’azione. Però quando
l’immunità crolla e ci lascia nella nudità della precarietà, ciò che ci
colpisce non produce legame: ci separa e ci fa scontrare. Questo libro inizia
con una domanda: cosa ci separa? Se in tempi in cui dominava l’individualismo
ciò che ci separava era la finzione immunitaria, il simulacro del fatto che
nulla potesse accaderci nelle società sviluppate, quello che ci separa oggi è
la sensazione che in ogni momento possa capitarci qualsiasi cosa.
Sentirsi coinvolti, in tempi di minacce e crisi accumulate, è diventato
fondamentalmente sostenersi e prendersi cura. Il mutuo aiuto e l’etica del
prendersi cura sono stati posti al centro di un’esperienza di impegno che ruota
intorno alla vita danneggiata e vulnerabile. La ferita è stata posta al centro,
ma non si tratta della ferita ontologica, la vita aperta che siamo, è la
distruzione che l’agire umano provoca su di noi e sul resto del pianeta.
Frenare e riparare quella distruzione sembra oggi il solo impegno possibile.
Quando questo è l’unico impegno possibile, tuttavia, la vita collettiva
comincia ad assomigliare a un pianeta di malati terminali. La cura e il
sostegno reciproco non possono essere solo pratiche di riparazione. Se fanno
parte della vita, devono essere anche un’espressione di desiderio. Stiamo
dimenticando di desiderare. Stiamo cessando di immaginare.
CRITICA. La critica è un esercizio dell’immaginazione perché è un’arte dei limiti.
Consiste nel mostrare i limiti di ciò che sappiamo e di ciò che siamo per
interrogarne il significato e rimuoverne l’assurdità, per comprenderne
l’esistenza e smantellarne la violenza. Le tradizioni più analitiche del
pensiero hanno ridotto il pensiero critico a un lavoro di dissezione e
discriminazione. Le tradizioni più moraliste all’emissione di un giudizio su
ciò che è bene e ciò che è male. Schiacciata sotto queste due approssimazioni,
la critica smette di immaginare e desiderare. Si limita a controllare e
giudicare.
Questo libro prende in esame molteplici modi di mettere in pratica
l’immaginazione critica, come collegamento attivo tra il corpo e il pensiero,
l’educazione e la cultura, l’arte e la politica. Sono tentativi, riprendendo il
termine del pedagogo Fernand Deligny che già allora facevamo nostro. Il valore
del tentativo continua ad essere un luogo instabile in cui cercare la relazione
tra le situazioni che ci tocca vivere e le opzioni che in esse si aprono.
Parlare dei fatti richiede, oggi, molta immaginazione. Vale a dire, una sfida
decisa a collegare ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo, ad apprendere nei
limiti di un mondo che può essere comune solo se si apre a significati ed
esperienze che non possediamo. Abbiamo smesso di immaginare e di desiderare
perché abbiamo interiorizzato la convinzione di sapere cosa accadrà. E,
soprattutto, come andrà a finire. Forse una delle principali funzioni del
pensiero critico oggi potrebbe essere invece di ricordarci che sappiamo molto
meno di quel che credevamo. Solo così potremo metterci in condizione di apprendere,
mettere in discussione e smettere di predicare.
INCOMPIUTEZZA. Ho cominciato a studiare filosofia quando le teorie più in voga del
momento annunciavano la fine di quasi tutto. Della storia, della filosofia,
delle ideologie, delle rivoluzioni… Trent’anni dopo, annunciano la fine del
mondo. Già allora mi ribellai a queste posizioni e scrissi una tesi in cui si
esploravano le forme in cui la filosofia aveva pensato il possibile contro il
possibile. Oggi credo di essere ancora lì, nel tentativo di fare del pensiero
uno strumento del desiderio. La tentazione della fine ha l’altra sua faccia
nella vendita di fumo, sotto forma di utopie, speranze e progetti di salvezza,
personale o collettiva. Entrambe sono forme di credulità che fanno risparmiare,
questo sì, molta energia. Pensare stanca. Però non poterlo fare deprime.
Pensare, oggi, è di nuovo una scommessa contro la depressione. Una forma di
allegria di vivere che non si inganna né vuole ingannare. Chi ha il coraggio di
non sapere per apprendere di nuovo e che parte dalla convinzione che un mondo
comune non è il mondo che riconosciamo come nostro ma il mondo che non finisce
con noi. Le lotte migliori sono quelle che non finiremo noi. Le storie
migliori, quelle che altri continueranno. L’incompiuto è ciò che non ha un
punto finale e per il quale nessuno ha l’ultima parola. Né dio, né il padrone.
Né tu, né nessuno. Contro la tentazione della fine, pensare è far pensare. Dire
è far dire, e quindi non sapere cosa diranno quelli che verranno dopo di noi,
quelli che, quando prenderanno la parola, non potremo più ascoltare.
Il mondo non finisce con noi: né con noi che viviamo oggi, né con noi
intesi come l’umanità e la sua storia. Riscoprire il concetto di mondo comune
vuol dire darci la possibilità di pensare oltre noi stessi. L’Occidente ha
pensato l’aldilà in modo gerarchico e verticale: verso il cielo, verso il
divino, verso lo spirituale, verso l’eternità. C’è però un altro aldilà che è
il continuum di esseri umani e non umani, naturali e
artificiali, di cui siamo parte responsabile ma non unica. Interrogarsi su un
mondo comune è un invito a pensare a questo aldilà terreno e fangoso, concreto
e incompiuto, a partire dall’alleanza e dalla co-appartenenza con esseri e
realtà che non saranno mai nostri.
* Questo testo è il prologo alla nuova edizione del libro Un mundo común, (Bellaterra, 2022)
Fonte e versione originale in castigliano: Comunizar
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Marina Garcés, filosofa che ha dedicato tutto il suo impegno alla vita come
problema comune fin da quando diede vita, insieme ad altri compagni e compagne
alla grande esperienza di Espai en Blanc, da 15 anni insegna alla
Universidad de Zaragoza e oggi anche alla Universitat Oberta de
Catalunya. Il suo primo libro è stato En las prisiones de lo
posible (Bellaterra, 2002), gli ultimi Un mundo común (Bellaterra,
2012 edito nuovamente nel 2022), El compromiso (CCCB,
2013), Filosofía inacabada (Galaxia Gutenberg, 2015), Fuera
de clase (Galaxia Gutenberg, 2016), Nueva ilustración radical (Anagrama,
2017) e Ciudad princesa (Galaxia Gutenberg,
2018). In italiano sono usciti, sempre per Nutrimenti, nel 2019, Il
nuovo illuminismo radicale e, nel 2022, Scuola di apprendisti.
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