domenica 30 giugno 2024

Israele e il veganismo rubato - Grazia Parolari

 

Si vuole veramente lasciare che Israele si impossessi del veganismo, ridefinendolo a suo uso e consumo?


Nel dicembre 2023, ovvero tre mesi dopo il 7 ottobre, quando l’esercito Israeliano aveva già bombardato e ucciso migliaia di Palestinesi a Gaza, e quando l’orrore aveva già dispiegato le sue instancabili ali su tutta la Striscia, tenendo in serbo l’inimmaginabile, è stata lanciata in Israele, da parte della Vegan Friendly Association, la campagna “Veganism at the Front – Call to Arms to Support Our Soldiers” (Veganismo al Fronte – Chiamata alle armi per sostenere i nostri soldati). Fondata nel 2012 da Omri Paz, la Vegan Friendly Association ha l’intento di “evidenziare le attività commerciali vegane in Israele, rendendo il veganismo più accessibile”.

La campagna aveva e ha lo scopo di aiutare circa 50.000 soldati e soldatesse veganə e vegetarianə a mantenere la loro specifica alimentazione mentre combattono a Gaza, consentendo che razioni da combattimento  vegane  raggiungano le basi dell’IDF nel nord e nel sud della Striscia. L’obiettivo, supportato da centinaia di volontari che cucinano e consegnano il cibo, è fornire razioni per 10.000 soldati al giorno. Tutto questo perché “i soldati che non mangiano carne hanno avuto e hanno difficoltà a soddisfare il loro fabbisogno nutrizionale giornaliero”.

Per riuscire a fare ciò gli attivisti di VFA hanno istituito un capillare sistema logistico, che coinvolge ‘Brothers for food’, volontari da tutte le parti del paese, ‘Vegan IDF’, ristoranti e aziende che “generosamente” donano materie prime e cibo.

E’ stato anche lanciato un appello pubblico per raccogliere donazioni e per la ricerca di volontari, con un obiettivo di raccolta di 500.000 shekel, obiettivo poi raggiunto.

Vegan Friendly ha bisogno del Popolo di Israele, che ha dimostrato tutto il suo sostegno dall’inizio dei combattimenti, e per questo abbiamo lanciato la campagna di finanziamento. Con soli 120 shekel,  si può adottare un soldato e fornirgli una dieta vegana per un intero mese. Ci assicureremo di raggiungere i soldati, consegnare loro il cibo, far sì che ricevano il nutrimento di cui hanno bisogno – anche durante i combattimenti – e continueremo a gestire il progetto finché necessario”, ha dichiarato Omri Paz, CEO e fondatore di Vegan Friendly, aggiungendo: “Con una donazione di soli 30 dollari, si può fornire a uno dei nostri soldati un pasto caldo, vegano, nutriente e di alta qualità, una fonte di forza quotidiana per un mese di servizio sul campo. Un esercito marcia anche con lo stomaco. I soldati devono essere in buona salute. Non possiamo arrivare a una situazione in cui i soldati devono mangiare carne perché non c’è altro”

“Ora è il momento dell’unità, il tempo di dimostrare la forza che deriva dal restare insieme. Quando ci uniamo, nessuna sfida può sopraffarci. Unitevi a noi in questa missione cruciale, e grazie alla vostra generosità, nessun soldato e soldatessa veganə o vegetarianə andrà mai a dormire affamatə. Per il futuro di Israele, per la forza della nostra nazione e per il benessere dei nostri devoti soldati, restiamo insieme, uniti più che mai. Insieme li raggiungeremo tutti. Viva Israele!”.

Inevitabilmente, dichiarazioni e azioni di questo tipo non possono che sollevare ancora una volta un profondo sconcerto e, personalmente, una vivida rabbia, su come il concetto e la pratica del veganismo vengano associati a parole come “soldato”, “fronte” e “guerra”, termini che portano in sé violenza, oppressione e morte, antitesi di ciò che il veganismo sostiene.

Un “veganismo”, quello veicolato da Israele, che, oltre a sostenere apertamente e ad attuare la violenza, si preoccupa di fornire pasti “etici” ai soldati e alle soldatesse al fronte, organizzando reti logistiche e raccolte fondi, per non fare “andare a dormire affamatə” quei soldati e quelle soldatesse  che prendono di mira i bambini e le bambine palestinesi ( loro sì che si addormentano affamatə, addirittura muoiono, di fame) o fanno il tiro a segno su folle di uomini che si accalcano per riuscire ad assicurarsi un pugno di farina, mentre ai valichi orde di persone, e tra di esse sicuramente anche qualche veganə o vegetarianə, si affannano ad impedire l’ingresso degli aiuti umanitari, spingendo Gaza verso un’atroce, devastante e illegittima carestia.

Se tutti uniti si deve essere, ”per la forza della nostra nazione e per il benessere dei nostri devoti soldati” – come chiesto da Omri Paz – nulla deve essere trascurato.

Molte riflessioni sono state fatte su come sia possibile che un Paese autodefinitosi (e vorrei sottolineare il prefisso di questo termine) “il più vegan“ al mondo, possa riconoscere la sofferenza degli animali non umani  e contemporaneamente ignorare la sofferenza che esso infligge agli animali umani da esso oppressi e quotidianamente uccisi, e financo dei loro animali non umani, accomunati dall’essere anch’essi “palestinesi”, quindi sostanzialmente non esseri senzienti  a cui si deve empatia e rispetto , ma “cose” di cui potersi sbarazzare senza alcuna considerazione morale. In questo articolo, ci si limita ad evidenziare che se la società israeliana, in tutte le sue componenti, è giunta a reificare e demonizzare i Palestinesi, lo deve a uno Stato che, anche attraverso narrazioni manipolate e profondamente razziste, si è sempre fortemente impegnato a fare ciò, e che nel farlo non ha trovato, da parte dei suoi cittadini, che scarse contestazioni o, men che meno,  significative e personali prese di coscienza.

La politica del washing e del ri-branding, adottata da Israele in innumerevoli ambiti della società, dovrebbe ormai essere strategia nota, riconoscibile e riconosciuta, esattamente come le ricorrenti menzogne a cui Israele fa ricorso ogni qualvolta deve giustificare le sue immonde azioni agli occhi del mondo.

Ma come quelle menzogne vengono regolarmente accettate come verità da quella parte di mondo che ha sempre sostenuto e giustificato Israele (e continua a farlo senza alcun sussulto di coscienza), così si continua ad accettare che Israele parli di veganismo e anzi, ne abbia fatto una propria bandiera.

Non sarebbe quindi finalmente ora che la comunità vegana nazionale e internazionale si esprimesse in modo forte e unanime su questo supposto “veganismo”, affermando chiaramente che ciò che viene spacciato come tale non ha nulla a che fare con i principi e l’etica stessa del veganismo, a cominciare dal fatto che non possono esistere soldati e soldatesse vegani e vegane?

Nessun vegano e vegana accetterebbe mai di opprimere, ferire e uccidere un essere senziente, umano e non umano.

Nessun vegano o vegana accetterebbe mai di bombardare e ridurre alla fame e alla sete un’intera popolazione, né di tollerare, condividere e sostenere un sistema di apartheid basato sul continuo ed incessante furto di terre e di vite.

Nessun vegano o vegana accetterebbe mai che i propri principi di vita vengano utilizzati in sempre più orrende operazioni di veganwashing.

I soldati e le soldatesse “vegani e vegane” di Israele, sono semplicemente soldati e soldatesse che hanno scelto abitudini, alimentari e non, che non prevedono l’utilizzo di prodotti animali, ma che con il veganismo non hanno nulla a che fare.

Non hanno nulla a che fare con il veganismo neppure attivisti e associazioni, come Vegan Friendly, che come solo e unico scopo hanno quello di “evidenziare le attività commerciali vegane e rendere il “veganismo” più accessibile e sperimentabile”, chiudendo consapevolmente occhi bocca e orecchie davanti ai crimini di uno Stato colonialista, colonizzatore, razzista e genocidiario e anzi, sostenendolo attivamente. (E questo, purtroppo, è in primis il normale atteggiamento di tutte le associazioni animaliste e “vegane” in Israele).

Israele ha già commesso innumerevoli furti, di beni materiali e di beni immateriali, di vite e di progetti di vita, e se, come affermato dal giornalista israeliano Gideon Levy in un suo recente articolo, ha ormai perso la sua coscienza, è anche riuscito a silenziare quella del nostro mondo, facendo accettare come legittime le più terribili e inumane atrocità e ingiustizie.

Perché permettergli di rubare anche il veganismo?

Come può la comunità vegana nazionale e internazionale accettare che uno Stato che sta attivamente attuando un genocidio – così come ormai ufficialmente comprovato anche dalla Corte Penale Internazionale – possa continuare a presentarsi come il Paese più vegano del mondo, salvo non voler accettare un’idea e una pratica di veganismo completamente svuotata dai suoi principi etici?

Come può, parte della comunità vegana nazionale e internazionale, tacere davanti ai crimini perpetrati impunemente da questo Stato assassino che si definisce vegan friendly, ma i cui esponenti politici, e non solo loro, inneggiano apertamente allo sterminio e all’annientamento di un popolo?

Israele ha da sempre ignorato qualsiasi norma del diritto umanitario internazionale e qualsiasi risoluzione dell’ONU, e ora anche della CPI.

Ha stracciato qualsiasi norma del diritto internazionale che regolamenta i conflitti.

Ha illegittimamente reinterpretato a suo favore sentenze, regolamenti e norme internazionali.

Si vuole veramente lasciare che si impossessi anche del veganismo, ridefinendolo a suo uso e consumo?

 

Fonti:

“Helping vegan and vegetarian IDF soldiers eat during the war” -Jerusalem Post  – dicembre 2023

“Volunteers, nonprofits rally to feed vegan, vegetarian soldiers in the field” . Times of Israel . novembre2023

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sabato 29 giugno 2024

Il pensiero come strumento del desiderio - Marina Garcés

 

Dieci anni fa ho pubblicato questo libro e ora lo ripubblichiamo, in una nuova edizione in spagnolo e per la prima volta in catalano. La situazione di depressione pandemica in cui uscirà mi fa dubitare della sua necessità. È facile dire che la filosofia non serve a nulla, quando quel nulla di senso si vive con allegria. Il gioco dei problemi e dei concetti diventa allora la festa di un eccesso, in cui desiderio e intelligenza si moltiplicano e fecondano il linguaggio, portando i loro codici al parossismo. Ma quando il nulla si tinge di minacce, quando il vuoto è solo vuoto, quando il non senso diventa normalità, allora diventa più difficile affermare con allegria che la filosofia è inutile e per questo conta. Se vivere è un conto alla rovescia, qualsiasi cosa che non sia una risposta all’emergenza sembra una perdita di tempo.

Pensare o predicare

Gran parte del pensiero contemporaneo sembra muoversi tra due opzioni: constatare l’apocalisse o metterle toppe e usare rimedi palliativi. Avvertire dei disastri o muoversi al loro interno. Nel raccontare i disastri che verranno, si percepisce come un’eccitazione, si manifesta nel pubblicarli prima degli altri, nell’esercitare da intellettuali della fine del mondo. Il pensiero critico cessa di essere critico quando la sua funzione è quella di commentare una partita a cui non prende parte. Racconta con emozione come si muove la palla, come le opzioni si perdono una giocata dopo l’altra. L’apocalisse è sempre stata una forma di spettacolo, una promessa perversa che qualcosa di importante sta per accadere. Che la vita vada avanti, nonostante tutto, è quasi motivo di delusione. Ammalati di normalità, ci chiediamo, non può succedere qualcosa una volta per tutte?

In questi dieci anni il mondo sembra essersi fatto drammaticamente comune. Non si tratta solo della pandemia di Covid-19. L’evoluzione di internet e delle tecnologie verso la concentrazione di monopoli privati ​​ci fa stare tutti sugli stessi social network e sulle stesse piattaforme di consumo. L’evoluzione del cambiamento climatico e della scarsità di risorse naturali ed energetiche ci collocano negli abissi della calamità globale. L’aumento del numero e della mortalità dei movimenti migratori, la sproporzione degli indici di disuguaglianza in ogni società e a livello globale… Tutti questi aspetti, per citare solo i più evidenti, ci incatenano a una realtà unica in cui l’interdipendenza di tutti i fenomeni s’è fatta pià stretta ed è diventata una minaccia per la maggior parte della popolazione.

Come accade nel cinema più recente, sembra che qualsiasi teoria possa darci solo ragioni e immagini, a volte solamente povere metafore, per la nostra salvezza o la nostra condanna. La crisi dell’immaginazione è una crisi della critica, quando gli unici limiti a cui possiamo pensare sono quelli della nostra stessa fine. Un sentimento neoreligioso pervade gran parte del discorso più attuale, anche se non sembra. Il domani dell’estinzione o quello di una resurrezione “più che umana” sembrano gli unici futuri con cui possiamo confrontarci oggi. Allora il pensiero smette di pensare e si dedica a predicare.

Un concetto latente

Il concetto di mondo comune ha una lunga storia, che comincia all’inizio del ‘900 con la fenomenologia, quando questa corrente filosofica si azzarda a interrogarsi su quali siano le fonti della nostra esperienza e comprensione del mondo, prima della conoscenza che abbiamo dei suoi oggetti. Vale a dire, su ciò che c’è “prima” della scienza e della tecnica, oppure, detto in un altro modo, su ciò che sostiene e si nasconde sotto il nostro rapporto di sapere e dominio sul mondo come insieme di oggetti (umani inclusi).

Questo spostamento della domanda e, quindi, dello sguardo, cambia anche la posizione del soggetto, che non si trova più immune e frontale davanti al mondo, ma si scopre nel “tra”, cioè nella trama di relazioni che lo compongono e lo inscrivono in un mondo naturale e sociale. Come riassumerà il filosofo Merleau-Ponty in una delle espressioni che guidano questo libro, l’aspirazione a un mondo comune ci porta a “risvegliarci nei legami”. Per Merleau-Ponty, principale ispiratore di questo libro, questo “tra” è il nostro corpo, inteso non come unità anatomica, ma come un nodo di significati viventi. Per una filosofa sua contemporanea come Hannah Arendt, questo “tra” sarà il luogo del soggetto politico e del mondo comune, l’apertura di una distanza che rende possibile l’azione e il discorso. Sono due opzioni diverse, una verso la parola e l’altra verso il corpo, di una stessa posizione coinvolta nella pluralità irriducibile all’unità delle vicende comuni.

Questo soggetto coinvolto in un mondo comune è quello che ha assunto rilevanza, con nuovi significati, nella teoria critica contemporanea, perché decentra il punto di vista, senza svincolarsi dai problemi comuni. Le soggettività che storicamente ne hanno occupato i margini hanno voce nella pluralità irriducibile di un mondo comune, perché da ognuna di esse il senso del mondo appare in modo diverso, in conflitto e in disputa. Per questo possiamo seguire la pista del concetto di mondo comune nelle filosofie femministe, nelle teorie postcoloniali (soprattutto nell’ambito dell’attuale filosofia africana), nella riflessione e nelle lotte contro la precarizzazione della vita (lavoro, casa, produzione, consumo…) o nelle teorie scientifiche e filosofiche che stanno tessendo un modo nuovo di concepire la relazione tra l’umano e il non-umano, la natura e la cultura nell’era conosciuta come Antropocene.

Con la globalizzazione e l’Antropocene, il mondo non s’è fatto più comune ma, come abbiamo detto, si è drammaticamente unificato. Contro quella tendenza e i suoi terrificanti miraggi, contro le sue metafore e i suoi predicatori, interrogarsi su un mondo comune è un invito a pensare e immaginare ciò che ci lega senza ridurlo all’unità, né dell’essenza, né del sistema, né dell’identità.

Problemi comuni

La filosofia non è un programma di salvezza. Lavora con problemi comuni. Elabora le sue mappe e così prepara il terreno per le sue soluzioni possibili. Non è vero che non abbia risposte: le mette alla prova senza chiuderle. Rileggere “Un mundo común” a dieci anni dalla sua prima pubblicazione è ritrovare una mappa dei problemi che sono ancora i nostri. In alcuni casi si sono complicati, in altri si sono arricchiti con esperienze, teorie e lotte venute dopo.

Elaborare la mappa dei problemi comuni è la strategia critica più efficace contro il dogma apocalittico e i suoi promotori a destra e a sinistra. È anche la strategia più efficace per non cadere nell’altra tentazione, quella della nostalgia e dell’idealizzazione dei tempi passati. Sebbene sia stato pubblicato nel 2012, questo libro non è una sublimazione delle lotte che hanno scosso le piazze di molte parti del mondo nel 2011. Fa parte della risonanza che ha condotto molti di noi a esse, ma anche dei problemi che né allora né oggi siamo stati in grado di risolvere. Dall’irrisolto che chiede di tornare a essere pensato, i problemi comuni che vengono sviluppati in questo libro sono parte della nostra attuale geografia, una geografia filosofica e politica che possiamo situare all’incrocio di almeno cinque nozioni: interdipendenza, noi, impegno, critica, incompiutezza. I problemi rimangono, ma i significati e le tonalità di questi concetti si sono spostati. Per questo è interessante ritornarvi come punto di partenza per una nuova lettura.

Maurice Merleau-Ponty e la figlia lungo la rue Canebière a Marsiglia, estate 1948

NOI. il Novecento si è chiuso con il culmine dell’individuo come protagonista della vita politica e sociale, con tutte le sue espressioni culturali, commerciali e psicologiche. L’Io sembrava regnare proprio nel momento in cui cominciava a rompersi. La sociologia, la politica, la filosofia, l’arte, ecc. ruotavano intorno al culto dell’individuo o alla sua critica. Il paradigma individualista sembrava confondersi con l’esistenza umana stessa, come se non potessero mai arrivare a differenziarsi. Di fronte a questo, rivendicare il Noi è stato un appello a reincontrare la comunità, il collettivo e ad aprire i significati possibili della vita al plurale.

Quando abbiamo già alle spalle due decadi del XXI secolo e qualche crisi vissuta e da vivere, l’individuo e le sue rivendicazioni cominciano a essere una figura sfumata. La crisi terroristica del 2001, la crisi finanziaria del 2008, la crisi sanitaria del 2020 e la crisi ambientale come presente continuo e futuro irreversibile ci hanno collocato in uno scenario in cui i privilegi si difendono dall’interno del gruppo. Il problema è che chi ha capito meglio questa nuova situazione sono i più ricchi, che si tutelano e si arricchiscono a vicenda, oppure le cosiddette politiche populiste, cioè costruite sull’idea di un gruppo (popolo, razza, cultura, ecc. ) che deve difendersi ed essere difeso dalla minaccia degli «altri». Anche i movimenti sociali si sono spesso rinchiusi in queste logiche autoreferenziali, sempre più di scontro ed escludenti. Sono logiche che si son viste rafforzate, peraltro, dall’asprezza della repressione che, a scala globale, sta esercitando un sistema di sorveglianza e di dominio sempre più vicino al tecnofascismo.

I Noi sono protagonisti della scena sociale e politica di oggi, ma sono un Noi in lotta per la sua esistenza e per la conservazione di ciò che considerano i loro privilegi o le loro aspirazioni. Mentre l’Io sprofonda nel disagio psichico, nella solitudine e nel consumo, il Noi si riarma sulla base di identità riconoscibili, nuove ritualità politiche e leader forti. Come imparare a dire Noi contro l’identità di gruppo che ne definisce e chiude il significato? Come imparare a dire noi oltre il riconoscimento e la difesa “dei nostri”? Queste domande sono state il punto di partenza di “Un mundo común” e continuano ad essere oggi, con ancor più urgenza, le chiavi per aprire le serrature del nostro presente. La collaborazione, la cooperazione, il sostegno reciproco, le resistenze, l’accoglienza, l’apprendimento… sono pratiche sociali e politiche che non possono partire dal gruppo chiuso, devono aprire e inventare i significati possibili della vita in comune.

INTERDIPENDENZA. L’interdipendenza è passata dall’essere una rivendicazione ad essere vissuta come una minaccia. Dalle scienze fisiche e sociali, dalla filosofia e dai movimenti sociali come l’ambientalismo o il femminismo, si lavora da decenni per ricomporre una visione del mondo che privilegi i legami dell’interazione e della dipendenza sui valori dell’autonomia e dell’autosufficienza che invece aveva elevato l’individualismo. Negli ultimi tempi, però, l’interdipendenza è diventata una pericolosa imposizione. Ciò è avvenuto, soprattutto, con due esperienze interconnesse: la globalizzazione del capitalismo e delle sue catene di estrazione, produzione e consumo in tempo reale, e la pandemia di Covid-19, che ha posto la quotidianità di un mondo contagioso nell’intimità dei nostri corpi e delle nostre case. Con queste due esperienze della globalizzazione abbiamo percepito il mondo come più stretto e piccolo, e l’interazione con gli altri, umani e non-umani, come sovraccarica di pericoli.

Le voci dei media ripetevano, all’inizio della pandemia, che avevamo scoperto l’interdipendenza e la vulnerabilità. Non le avevamo scoperte. Erano arrivate ​​alla porta di coloro che, per i loro privilegi, avevano vissuto fino ad allora nella finzione della loro autosufficienza e immunità. Per il resto del mondo, la vita è sempre stata interdipendente e vulnerabile. L’interdipendenza può essere sperimentata come condizione per l’emancipazione collettiva. Ma può essere vissuta anche come il suo contrario: la minaccia costante che deriva dal fatto di vivere nelle mani di altri, appesi all’aria che respirano, alle decisioni che prendono e ai modi di vivere che tengono. Questa minaccia viene gestita oggi, molto efficacemente, da forze politiche di destra, che invocano la libertà e l’autosufficienza – e perfino la secessione (dei ricchi) e l’autogestione, di ciascuno, come modo per non dipendere dalle zavorre e dai pericoli che comporta la vita in comune.

IMPEGNO. Le prime due questioni ci impongono di passare da analisi descrittive a un giudizio di valore in cui si mettono in gioco opzioni e non solo situazioni. È allora che si apre la questione concreta dell’impegno. Abbiamo scritto, dieci anni fa, che l’impegno non è un esercizio della libera volontà, ma piuttosto l’effetto di lasciare cadere l’immunità per chiedersi cosa ci colpisce. Vale a dire, ciò che ci lega agli altri nel pensiero e nell’azione. Però quando l’immunità crolla e ci lascia nella nudità della precarietà, ciò che ci colpisce non produce legame: ci separa e ci fa scontrare. Questo libro inizia con una domanda: cosa ci separa? Se in tempi in cui dominava l’individualismo ciò che ci separava era la finzione immunitaria, il simulacro del fatto che nulla potesse accaderci nelle società sviluppate, quello che ci separa oggi è la sensazione che in ogni momento possa capitarci qualsiasi cosa.

Sentirsi coinvolti, in tempi di minacce e crisi accumulate, è diventato fondamentalmente sostenersi e prendersi cura. Il mutuo aiuto e l’etica del prendersi cura sono stati posti al centro di un’esperienza di impegno che ruota intorno alla vita danneggiata e vulnerabile. La ferita è stata posta al centro, ma non si tratta della ferita ontologica, la vita aperta che siamo, è la distruzione che l’agire umano provoca su di noi e sul resto del pianeta. Frenare e riparare quella distruzione sembra oggi il solo impegno possibile. Quando questo è l’unico impegno possibile, tuttavia, la vita collettiva comincia ad assomigliare a un pianeta di malati terminali. La cura e il sostegno reciproco non possono essere solo pratiche di riparazione. Se fanno parte della vita, devono essere anche un’espressione di desiderio. Stiamo dimenticando di desiderare. Stiamo cessando di immaginare.

CRITICA. La critica è un esercizio dell’immaginazione perché è un’arte dei limiti. Consiste nel mostrare i limiti di ciò che sappiamo e di ciò che siamo per interrogarne il significato e rimuoverne l’assurdità, per comprenderne l’esistenza e smantellarne la violenza. Le tradizioni più analitiche del pensiero hanno ridotto il pensiero critico a un lavoro di dissezione e discriminazione. Le tradizioni più moraliste all’emissione di un giudizio su ciò che è bene e ciò che è male. Schiacciata sotto queste due approssimazioni, la critica smette di immaginare e desiderare. Si limita a controllare e giudicare.

Questo libro prende in esame molteplici modi di mettere in pratica l’immaginazione critica, come collegamento attivo tra il corpo e il pensiero, l’educazione e la cultura, l’arte e la politica. Sono tentativi, riprendendo il termine del pedagogo Fernand Deligny che già allora facevamo nostro. Il valore del tentativo continua ad essere un luogo instabile in cui cercare la relazione tra le situazioni che ci tocca vivere e le opzioni che in esse si aprono. Parlare dei fatti richiede, oggi, molta immaginazione. Vale a dire, una sfida decisa a collegare ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo, ad apprendere nei limiti di un mondo che può essere comune solo se si apre a significati ed esperienze che non possediamo. Abbiamo smesso di immaginare e di desiderare perché abbiamo interiorizzato la convinzione di sapere cosa accadrà. E, soprattutto, come andrà a finire. Forse una delle principali funzioni del pensiero critico oggi potrebbe essere invece di ricordarci che sappiamo molto meno di quel che credevamo. Solo così potremo metterci in condizione di apprendere, mettere in discussione e smettere di predicare.

INCOMPIUTEZZA. Ho cominciato a studiare filosofia quando le teorie più in voga del momento annunciavano la fine di quasi tutto. Della storia, della filosofia, delle ideologie, delle rivoluzioni… Trent’anni dopo, annunciano la fine del mondo. Già allora mi ribellai a queste posizioni e scrissi una tesi in cui si esploravano le forme in cui la filosofia aveva pensato il possibile contro il possibile. Oggi credo di essere ancora lì, nel tentativo di fare del pensiero uno strumento del desiderio. La tentazione della fine ha l’altra sua faccia nella vendita di fumo, sotto forma di utopie, speranze e progetti di salvezza, personale o collettiva. Entrambe sono forme di credulità che fanno risparmiare, questo sì, molta energia. Pensare stanca. Però non poterlo fare deprime.

Pensare, oggi, è di nuovo una scommessa contro la depressione. Una forma di allegria di vivere che non si inganna né vuole ingannare. Chi ha il coraggio di non sapere per apprendere di nuovo e che parte dalla convinzione che un mondo comune non è il mondo che riconosciamo come nostro ma il mondo che non finisce con noi. Le lotte migliori sono quelle che non finiremo noi. Le storie migliori, quelle che altri continueranno. L’incompiuto è ciò che non ha un punto finale e per il quale nessuno ha l’ultima parola. Né dio, né il padrone. Né tu, né nessuno. Contro la tentazione della fine, pensare è far pensare. Dire è far dire, e quindi non sapere cosa diranno quelli che verranno dopo di noi, quelli che, quando prenderanno la parola, non potremo più ascoltare.

Il mondo non finisce con noi: né con noi che viviamo oggi, né con noi intesi come l’umanità e la sua storia. Riscoprire il concetto di mondo comune vuol dire darci la possibilità di pensare oltre noi stessi. L’Occidente ha pensato l’aldilà in modo gerarchico e verticale: verso il cielo, verso il divino, verso lo spirituale, verso l’eternità. C’è però un altro aldilà che è il continuum di esseri umani e non umani, naturali e artificiali, di cui siamo parte responsabile ma non unica. Interrogarsi su un mondo comune è un invito a pensare a questo aldilà terreno e fangoso, concreto e incompiuto, a partire dall’alleanza e dalla co-appartenenza con esseri e realtà che non saranno mai nostri.


* Questo testo è il prologo alla nuova edizione del libro Un mundo común,  (Bellaterra, 2022)

Fonte e versione originale in castigliano: Comunizar

Traduzione per Comune-info: marco calabria

 

Marina Garcés, filosofa che ha dedicato tutto il suo impegno alla vita come problema comune fin da quando diede vita, insieme ad altri compagni e compagne alla grande esperienza di Espai en Blanc, da 15 anni insegna alla Universidad de Zaragoza e oggi anche alla Universitat Oberta de Catalunya. Il suo primo libro è stato En las prisiones de lo posible (Bellaterra, 2002), gli ultimi Un mundo común (Bellaterra, 2012 edito nuovamente nel 2022), El compromiso (CCCB, 2013), Filosofía inacabada (Galaxia Gutenberg, 2015), Fuera de clase (Galaxia Gutenberg, 2016), Nueva ilustración radical (Anagrama, 2017) e Ciudad princesa (Galaxia Gutenberg, 2018). In italiano sono usciti, sempre per Nutrimenti, nel 2019, Il nuovo illuminismo radicale e, nel 2022, Scuola di apprendisti.

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venerdì 28 giugno 2024

Frode sui vaccini: ora anche il Congresso Usa lo certifica - Alberto Capece

Nonostante la feroce resistenza alla verità da parte di quella serie di poteri concatenati che hanno messo in scena la pandemia, piano piano la luce comincia a penetrare negli angoli più bui della vicenda: lunedì il Congresso degli Stati Uniti ha pubblicato un rapporto sulle pressioni politiche legate all’approvazione dei sieri a mRna, chiamati vaccini grazie a  un rocambolesco cambio di definizione costruito proprio per giustificare il loro impiego universale e forzarne l’approvazione sebbene provvisoria. In particolare il rapporto prodotto dalla sottocommissione giustizia descrive in dettaglio come l’amministrazione Biden abbia esercitato pressioni sulla Food and Drug Administration (Fda) affinché andasse oltre la sua autorità di regolamentazione per immettere sul mercato i composti di Pfizer. Di come stessa Casa Bianca abbia ordinato alla Fda di abbassare gli standard di sicurezza dell’agenzia. Quindi è stato l’interesse politico a portare a modificare il processo di approvazione. La conclusione dell’inchiesta si è che l’amministrazione Biden voleva rendere obbligatorie le vaccinazioni e per raggiungere tale obiettivo  la Fda ha dovuto  autorizzare i cosiddetti vaccini”.

Il testo non lascia molte vie di fuga dal concetto centrale di vaccinazione politica ed è che chiaramente riassunto in un comunicato stampa della sottocommissione che naturalmente non avrete modo di leggere sui giornali:

“L’amministrazione Biden ha esercitato pressioni sulla Food and Drug Administration  affinché andasse oltre la sua autorità di regolamentazione, modificasse le sue procedure, soffocasse i dubbi e abbassasse gli standard dell’agenzia per approvare il vaccino di Pfizer e consentire le vaccinazioni di richiamo . Tale autorizzazione ha consentito all’amministrazione Biden di imporre il vaccino contro il Covid-19 nonostante le preoccupazioni che lo stesso vaccino potesse causare lesioni a giovani americani altrimenti sani.

Durante la pandemia, la politica ha preso il sopravvento sulla scienza e nelle istituzioni governative incaricate di tutelare la salute pubblica. La Fda ha abbandonato la direttiva del Congresso di proteggere i cittadini da false affermazioni ed effetti collaterali nascosti e ha invece ignorato le proprie regole per perseguire una politica di promozione del vaccino minimizzando i potenziali danni Rivelare e ammettere gli errori commessi è un passo necessario per ripristinare l’integrità e la fiducia nei nostri regolatori.

L’indagine del sottocomitato ha inoltre rilevato che l’agenzia ha gestito male le segnalazioni di danni da vaccino, anche se era tenuta a raccogliere, riassumere e segnalare attivamente feedback sulla sicurezza e l’efficacia del vaccino sotto l’autorizzazione all’uso di emergenza. Due ex scienziati della Fda, il Dr. Marion Gruber e il Dott. Philip Krause, hanno testimoniato davanti alla sottocommissione di aver sentito la pressione di lasciar perdere i dubbi nella revisione dei vaccini a causa della pressione esterna per garantire l’approvazione immediata in modo che il governo potesse imporre i vaccini.  Oggi, l’ex commissario ad interim della Fda Janet Woodcock afferma di essere “delusa da se stessa” per il danno da vaccino e che l’agenzia non ha fatto abbastanza per combattere il danno da vaccino”.

Danni che ancora si cerca di occultare. Tutto questo ovviamente è tutt’altro che nuovo ma è stato ampiamente demonizzato per oltre tre anni: se adesso viene fuori in documenti ufficiali è perché la posizione dell’amministrazione Biden si è fatta estremamente incerta e tutti cercano di abbandonare la barca che fa acqua da tutte le parti. Ma ciò a sua volta dimostra la natura politica che ha assunto la pandemia e l’eterogenesi dei fini che ha avuto. La scienza – senza nemmeno parlare della tutela della salute – ha avuto un ruolo ancillare rispetto agli obiettivi di ingegneria sociale del milieu finanziario che di fatto comanda gli Usa e le sue colonie. Anche l’aver scelto un presidente in preda a una sindrome senile e in grado solo di eseguire gli ordini, è la prova del nove di questo infame meccanismo.

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giovedì 27 giugno 2024

Chi ha ucciso Ousmane Sylla? - Gianfranco Schiavone


La tragica vicenda del giovane che a febbraio si è suicidato nel Cpr di Ponte Galeria illumina una violenza di sistema iniziata ben prima della detenzione senza reato: astruse scelte amministrative, omissioni e plurime indifferenze verso la fragilità. “L’irrazionalità della normativa è il problema”, spiega Gianfranco Schiavone

Sono passati diversi giorni dal suicidio di Ousmane Sylla avvenuto nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria, a Roma, ma proprio ora che c’è una certa distanza da quei fatti è necessario ragionare a fondo su una tragedia che, ancor più di altre, mette in luce la dimensione iniqua e violenta del sistema delle espulsioni e dei trattenimenti in Italia e nello stesso tempo impone una riflessione sull’irrazionalità della normativa italiana sull’immigrazione. È a quest’ultima infatti che dobbiamo guardare per comprendere ciò che è accaduto e capire cosa deve essere modificato con la massima urgenza.

Ousmane Sylla era nato il 3 marzo 2002 in Guinea ed era arrivato in Italia da minore non accompagnato: l’intera sua famiglia, genitori, sorelle e fratelli sono rimasti in Guinea dove tuttora si trovano. Da minore non accompagnato ha vissuto in una comunità a Ventimiglia e da neomaggiorenne in una struttura a Cassino dove si sarebbero verificati diversi problemi nella relazione con la struttura di accoglienza che non sono in grado di valutare con i dati di cui dispongo.

Ousmane viene espulso con provvedimento del 13 ottobre 2023 dal prefetto di Frosinone, all’età di 21 anni, entrando così nel meccanismo infernale dell’irregolarità, dell’espulsione e poi della detenzione senza reato. Nessuna condanna penale risulta a suo carico. Perché tutto ciò è accaduto? La norma prevede che il neomaggiorenne, per mantenere la sua regolarità di soggiorno, debba a 18 anni convertire il suo permesso di soggiorno in “studio” o “lavoro”. In alternativa risulta possibile applicare la cosiddetta misura del “prosieguo amministrativo” previsto all’art. 13 della legge 7 aprile 2017, n. 47, detta anche “Legge Zampa” (che molti vorrebbero cancellare o quanto meno ridurne la portata) che dispone che “quando un minore straniero non accompagnato, al compimento della maggiore età, pur avendo intrapreso un percorso di inserimento sociale, necessita di un supporto prolungato volto al buon esito di tale percorso finalizzato all’autonomia, il tribunale per i minorenni può disporre, anche su richiesta dei servizi sociali, con decreto motivato, l’affidamento ai servizi sociali, comunque non oltre il compimento del ventunesimo anno di età”.

Pur nell’ampiezza del dettato normativo il prosieguo amministrativo rimane una misura discrezionale fortemente dipendente da volontà politiche locali e dalla presenza o meno di risorse economiche per proseguire l’accoglienza del neo maggiorenne e quindi viene molto spesso centellinata in modo da garantirla solo ai casi più meritevoli. Possiamo supporre (ma non ne abbiano certezza) che Ousmane abbia avuto accesso al prosieguo amministrativo conclusosi a inizio marzo 2023 o forse anche prima per problemi sorti all’interno della comunità di accoglienza e sia scattato nei suoi confronti il meccanismo del cosiddetto “automatismo espulsivo” previsto dall’art. 13 del Testo unico sull’immigrazione che impone che siano inflessibilmente espulsi quegli stranieri che non sono riusciti a mantenere i requisiti iniziali dell’ingresso o, se, come Ousumane, sono arrivati in Italia come minori non accompagnati, non sono stati in grado di convertire il permesso di soggiorno in studio (ma con quale reddito farlo?) o più generalmente in lavoro autonomo o subordinato, disponendo dunque di un lavoro abbastanza stabile o comunque tale da produrre un buon reddito annuo, nonché di una idonea abitazione attestata da regolare contratto di affitto. La domanda che ci dobbiamo porre è: quanti ragazzi italiani di anni 18 o di 21 sarebbero in grado di disporre di tali requisiti?

La normativa è completamente rigida e non tiene conto del fatto che il neomaggiorenne straniero, al pari di un numero crescente di coetanei italiani, possa trovarsi in periodi di prolungata incertezza di reddito e di lavoro. In tal modo un ragazzo pur radicato in Italia viene subito di fatto “clandestinizzato” e gettato, con burocratico zelo, in una condizione di marginalità e disperazione. Si tratta di una strada senza ritorno perché la perdita del permesso di soggiorno è, per la nostra normativa, un fatto irreversibile e non sanabile, salvo che non intervenga una benevola sanatoria o, nel rispetto del diritto alla vita privata sancito dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (Cedu), il cittadino straniero, nell’ambito di una procedura di riconoscimento del diritto d’asilo (la possibilità di un’istanza diretta al questore per una più snella verifica dei requisiti è stata cassata dalla legge 50/2023, che ha convertito il cosiddetto “Decreto Cutro”) possa dimostrare di avere un adeguato grado di radicamento nel territorio nazionale sulla base di indici quali la durata della sua permanenza e il percorso sociale effettuato in Italia.

È probabile che Ousumane sia rimasto, come tanti altri, un giovane senza nessuno a cui appoggiarsi e che la procedura di cui sopra non sia mai stata esperita finché è, appunto sopraggiunta inesorabile l’espulsione amministrativa che colpisce ogni anno diverse decine di migliaia di stranieri (36.770 nel 2023 secondo i dati forniti dal Dossier statistico immigrazione) su un numero imprecisato, ma elevatissimo, di irregolari che, secondo i dati forniti dal XXVIII Rapporto sulle migrazioni 2022 della Fondazione Ismu si attesta intorno alle 506mila persone.

I provvedimenti di espulsione colpiscono dunque una minima parte degli irregolari e il lettore si chiederà se, di fronte a una evidente sproporzione tra le persone da espellere e le espulsioni comminate, la norma o almeno la prassi prevedano dei criteri di priorità e di proporzionalità. La risposta è no. Nella loro assoluta cecità e automatismo le espulsioni avvengono in modo del tutto casuale: verrà raggiunto dal provvedimento di espulsione lo straniero più visibile, quello che ha “dato fastidio” a qualcuno, quello che viene segnalato da qualche solerte cittadino, quello che incappa in un controllo e così avanti. Non si tratta di un’irrazionalità conseguente a qualche recente modifica normativa, bensì di una caratteristica presente da sempre nella normativa in materia di immigrazione. Già nel 2008 la cosiddetta Commissione De Mistura (dal nome del suo presidente), creata dal ministero dell’Interno per operare un monitoraggio della situazione di tutti i centri italiani (sia i centri di accoglienza sia di espulsione) osservava che “nella legislazione vigente la gran parte delle condizioni di irregolarità di soggiorno trovano come unica risposta l’espulsione. Si genera una spirale caratterizzata dalla produzione continua di provvedimenti espulsivi che risultano ben difficilmente eseguibili sia in ragione del loro numero eccessivo, sia in ragione del generarsi di un circolo vizioso di contrapposizione tra la Pubblica amministrazione e lo straniero” per concludere che “l’approccio normativo complessivo al fenomeno andrebbe profondamente modificato riconducendo l’espulsione alla sua natura di provvedimento necessario da applicarsi come ultima ratio, laddove tutte le altre possibilità di regolarizzare si siano rivelate in concreto non possibili”.

Sono passati 15 anni da allora ma quasi nulla è cambiato nell’irrazionale, iniqua e inefficiente normativa italiana sui soggiorni, e quindi sulle espulsioni.

Nella sua settima Relazione al Parlamento, presentata a giugno 2023, Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ha delineato un quadro accurato e sconfortante sull’inutilità delle strutture di trattenimento/detenzione amministrativa degli stranieri: “I dati che vengono descritti nella parte tabellare di questa Relazione sono eloquenti perché indicano che delle 6.383 persone che nel 2022 sono state ristrette nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) soltanto 3.154 sono state effettivamente rimpatriate. Il totale dei rimpatri è stato peraltro molto limitato: 3.916, principalmente in Tunisia (2308), in Albania (58), in Egitto (329), in Marocco (189), numeri piccoli rispetto al clamore frequente delle intenzioni dichiarate […]. Si è trattato, quindi, di una sottrazione di tempo vitale non giustificata di fatto dalla finalità che il primo comma dell’articolo 5 della Convenzione europea per i diritti umani assume come previsione per la privazione della libertà e che la stessa Direttiva europea sui rimpatri del 2008 (la direttiva Ce/115/2008) ritiene non accettabile perché non caratterizzata da una credibile possibilità di attuare il rimpatrio. Del resto, il dato si è dimostrato non correlato alla possibile durata del trattenimento nei Cpr, perché pur in periodi diversi in cui essa è oscillata considerevolmente, la percentuale di rimpatri non ha mai raggiunto il 60% delle persone ristrette anche per lungo tempo in tali strutture”.

Il grado di efficacia del sistema degli allontanamenti e dei rimpatri coattivi non va tuttavia solo valutato in relazione alla assai ridotta percentuale della esecuzione degli allontanamenti di coloro che sono trattenuti nei Cpr, bensì va valutata nel suo complesso, ovvero gli allontanamenti vanno posti in relazione al numero di espulsioni comminate e, prima ancora, al numero degli stranieri irregolari, tutti astrattamente espellibili. Il risultato è scioccante: uno straniero irregolare su cento viene espulso tramite il tremendo meccanismo della cosiddetta detenzione amministrativa.

Come ha fatto per le espulsioni, il lettore, dopo aver appreso che il meccanismo delle espulsioni è cieco, si chiederà se almeno nel decidere chi trattenere nei Cpr, sussista una norma e una prassi rispondente a principi di proporzionalità e di ragionevolezza. La normativa sul punto dispone che “il trattenimento dello straniero di cui non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione o il respingimento alla frontiera è disposto con priorità per coloro che siano considerati una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica o che siano stati condannati, anche con sentenza non definitiva, per i reati di cui all’articolo 4, comma 3, terzo periodo, e all’articolo 5, comma 5-bis, nonché per coloro che siano cittadini di Paesi terzi con i quali sono vigenti accordi di cooperazione o altre intese in materia di rimpatrio, o che provengano da essi” (Testo unico sull’immigrazione, art. 14 co.1.1).

Se in astratto la norma prevede dunque che il trattenimento avvenga con priorità per le situazioni in cui sussiste un profilo di sicurezza pubblica, o, con discutibile diversa logica, nei casi in cui gli stranieri da trattenere siano cittadini di paesi con i quali l’Italia ha sottoscritto accordi di rimpatrio, nella realtà non accade nulla di tutto ciò. I Cpr sono pieni di stranieri espulsi e trattenuti secondo modalità del tutto casuali, così come casualmente sono stati espulsi: la tragica storia di Ousumane Sylla lo dimostra. Un ragazzo giovane pure incensurato (altro che pericolosità sociale) e pure proveniente da un Paese con il quale l’Italia non ha accordi per il rimpatrio.

È sempre stato così poiché nell’oscuro e violento mondo della detenzione amministrativa nulla cambia con lo scorrere del tempo. Di nuovo, la Commissione De Mistura 15 anni fa: “La presenza, all’interno dei centri, di situazioni diversissime tra loro, sia sotto il profilo giuridico sia sotto quello dell’ordine pubblico nonché della condizione umana e sociale delle persone trattenute. Tale mescolanza, esasperata dalla elevata presenza di ex detenuti penalizza in modo particolare gli stranieri a cui carico sussistono solo provvedimenti di allontanamento conseguenti alla perdita di regolarità di soggiorno, nonché di persone più deboli e vulnerabili che sono esposte ad un clima di costante tensione e potenziale intimidazione interna ai centri”.

Il giovane Ousmane Sylla, che voleva tornare in Africa, dopo oltre quattro mesi di inutile detenzione si toglie la vita dentro il Cpr di Ponte Galeria a Roma, un luogo di violenza e degrado assoluto come lo sono, senza eccezione e da sempre, tutti i centri destinati alla detenzione amministrativa degli stranieri espulsi. Ma le scelte amministrative, le omissioni e le plurime indifferenze verso la vita concreta di un ragazzo fragile che lo hanno portato a farla finita erano iniziate molto prima.

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martedì 25 giugno 2024

Le Canarie allo stremo - Rita Cantalino

 

Nelle Isole Canarie vivono poco più di due milioni di persone ma sono assalite ogni anno da 14 milioni di turisti. Gli ecosistemi e i servizi sono oltre ogni limite, denuncia il collettivo Canarias se Agota (Le Canarie sono esauste). Lo sviluppo turistico sta travolgendo tutta la Spagna, ma il problema non sono solo i turisti occasionali

 

La crescita insostenibile del turismo, unita alla speculazione immobiliare e a una presenza esorbitante di residenti stranieri stanno mettendo alla prova la tenuta delle Isole Canarie. Meta privilegiata di tanti che inseguono il sole e il mare anche nella stagione più fredda, solo lo scorso anno l’arcipelago è stato visitato da circa 14 milioni di turisti attratti dal clima mite e perennemente soleggiato. Numeri spropositati, a fronte di quelli degli abitanti complessivi delle isole: 2,2 milioni.

I servizi, come gli ecosistemi, sono allo stremo. Lo denuncia il collettivo Canarias se Agota (Le Canarie sono esauste). Il gruppo è promotore di una grande protesta che, lo scorso 20 aprile, ha visto sfilare decine di migliaia di persone a Santa Cruz de Tenerife, Las Palmas de Gran Canaria, Arrecife (Lanzarote), Puerto del Rosario (Fuerteventura), Valverde (El Hierro), San Sebastián de La Gomera e Santa Cruz de la Palma.

Al grido di «Canarias tiene un límite» varie organizzazioni ambientaliste, tra cui Greenpeace, WWF, Ecologisti in azione, Amici della Terra e SEO/ Birdlife, hanno aderito alle proteste. Sei giorni prima delle marce, undici attivisti del collettivo hanno cominciato uno sciopero della fame a oltranza. L’obiettivo: fare pressione sulle autorità affinché intervengano su una situazione ormai insostenibile.

Alle Canarie il turismo insostenibile non paga gli affitti

C’era una volta il turismo che, prima di divenire insostenibile, ha traghettato l’arcipelago delle Canarie da una situazione di povertà estrema a una crescita vertiginosa della sua economia. Nel 2022 il gruppo di isole ha registrato un aumento del prodotto interno lordo (PIL) del 9,3%, il doppio rispetto alla media nazionale del 4,4%. Le previsioni annunciano un ulteriore 2,6% quest’anno, e l’1,6% per il 2025.

La popolarità turistica però sta diventando un problema: le isole sono sovraffollate, i servizi sono messi a dura prova e anche l’ambiente ne risente. Il progetto di due nuovi villaggi per turismo di lusso a Tenerife è stata la scintilla per l’esplosione delle proteste: l’ennesima speculazione edilizia da un lato, un ulteriore passo verso uno «sviluppo suicida» del settore turistico dall’altro. Gli abitanti sono esausti e chiedono un intervento istituzionale che tuteli le isole. Una moratoria sul turismo; una nuova tassa, a protezione dell’ambiente, per i visitatori; una regolamentazione del sistema degli alloggi che tuteli la popolazione locale.

 

I benefici del turismo sono stati presto superati dai suoi costi: sociali e ambientali innanzitutto. Il tenore degli slogan delle proteste non lascia spazio a dubbi. «Il turismo non paga il mio affitto», «Non è siccità, è saccheggio», sono alcuni tra i messaggi chiave. Nell’arcipelago la forte presenza straniera e la mancanza di regolamentazione sugli investimenti immobiliari stanno facendo aumentare i prezzi delle case. Il numero spropositato di presenze, in rapporto a quello degli abitanti ufficiali, sta esaurendo le risorse. Mentre crescono le entrate dall’estero, i salari dei lavoratori, tra i più bassi della Spagna, restano al palo.

Lo sviluppo turistico sta travolgendo la Spagna

Lo sviluppo insostenibile del turismo non è un problema che riguarda esclusivamente le Isole Canarie. Mentre Barcellona si sta confrontando con la peggiore siccità della sua storia recente, strutture turistiche come gli alberghi con piscine, a detta dei residenti, sembrano esenti da ogni tipo di regolamentazione. Qui lo scorso anno sono accorsi 25,7 milioni di visitatori. Proprio da qui sono nate le proteste contro gli effetti insostenibili di uno sviluppo turistico illimitato.

La mobilitazione si estende a tutta la Spagna che, lo scorso anno, ha registrato complessivamente più di 85 milioni di visite. A Malagasono comparsi adesivi contro i turisti sulle porte degli alloggi con affitti a breve termine. Nelle Baleari una serie di falsi cartelli all’ingresso delle spiagge più turistiche allerta i visitatori contro la caduta di massi o il pericolo meduse. Lo scorso 25 maggio più di 10mila residenti di Palma di Maiorca si sono radunati a Plaça d’Espanya per protestare «contro il turismo di massa e per il diritto a un alloggio dignitoso». Qui le proteste hanno già portato alla cancellazione di 18mila alloggi dei 430mila disponibili sull’isola. Nel frattempo si sfilava anche a Minorcail giorno successivo è stata la volta di Ibiza.

Tenerife è ormai in ginocchio, da qualche settimana piegata da una grave carenza idrica. La quantità di rifiuti cresce in maniera esponenziale, come quella delle auto in circolazione. La situazione abitativa, per i residenti, sta diventando sempre più complessa: le Canarie sono la quarta comunità autonoma spagnola per prezzi al metro quadro della case in affitto (su diciassette).

Gli attivisti chiedono una moratoria sul numero di visitatori. L’attacco non è al turismo tout court, che rappresenta in ogni caso il 35% dell’economia e nel 2022 ha portato quasi 17 miliardi di euro. Dal settore traggono occupazione il 40% dei lavoratori. Gli stipendi, però, sono tra i più bassi (1.630 euro al mese) e il tasso di disoccupazione tra i più alti (16,2%) della Spagna. Quasi il 34% della popolazione locale è a rischio povertà ed esclusione sociale: è la seconda percentuale più alta, dopo l’Andalusia, di tutta la Spagna.

Il problema non sono (solo) i turisti occasionali

Alle Canarie, però, il problema non è (solo) il turismo ormai divenuto insostenibile. Il numero dei residenti stranieri continua a crescere. Rappresentano ormai il 15% della popolazione censita: 320mila persone. Altre 160mila sono di nazionalità spagnola ma nate all’estero e successivamente trasferitesi a ingrossare del 6% il numero di residenti provenienti da altri paesi: Germania, Italia e Regno Unito innanzitutto.
La popolazione straniera è anche veicolo di crescita economica per le isole. Il 40% dei lavoratori è di origine straniera, così come molti dei medici che svolgono la propria attività alle Canarie.

Aniano Hernández, ex membro del Comitato di esperti sulla migrazione e la popolazione nelle Canarie e docente della Università di Las Palmas di Gran Canaria, denuncia il pericolo di collasso dei servizi pubblici. È vero che il forte afflusso di turisti ha aperto alle isole le porte del mondo. Ma questo, secondo il docente, sta avendo effetti catastrofici su sanità, istruzione, giustizia e qualità della vita.

È chiaro nei comuni di Arona e Adeje, dove la popolazione straniera censita super di gran lunga quella locale, mettendo a dura prova i servizi sociali. Ruth Martín, consigliera dei servizi pubblici di Arona, ha spiegato che il comune è già in difficoltà nel garantire aiuti scolastici, sicurezza alimentare o supporto per i disoccupati. Nel frattempo aumentano gli affitti e il mercato immobiliare sta crollando.

Nel frattempo il governo è al lavoro per ottenere una legge che regoli le acquisizioni immobiliari, favorendo la popolazione locale. Fernando Clavijo, presidente delle Isole Canarie, ha sollecitato la nascita di un forum dedicato al tema all’interno della Conferenza delle Regioni periferiche e marittime d’Europa. Lo scopo dovrà essere elaborare una «strategia sulla sfida demografica» a partire da approcci «scientifici e giuridici». Secondo l’esecutivo, la prossima Commissione europea dovrà farsi carico di questa iniziativa.

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lunedì 24 giugno 2024

Un Paese fatto a pezzi in nome dell’autonomia differenziata. L’addendum ecologico - Paolo Pileri (*)


Se è vero che il diavolo sta nei particolari allora la legge sulla autonomia differenziata è piena di particolari diabolici. Per fare a pezzi l’Italia usa mille modi, non ultimo andando all’attacco di natura, suolo e paesaggio, proprio mentre l’Europa approva la “Nature Restoration Law”. Antonio Cederna avrebbe marchiato tutto ciò con il suo “vandali in casa”.

Torniamo però ai particolari diabolici perché nella tossicità di leggi del genere questi contano e non vanno trascurati. Quelli che a prima vista sembrano piccoli tecnicismi su cui non vale la pena discutere ora, alla prova dei fatti sono potenti crepe che tirano giù tutto e spesso sono proprio loro gli artefici più efficienti del disastro.

Come avevamo già denunciato allibiti, alle Regioni sarà trasferita anche la competenza sulla tutela degli ecosistemi, il noto punto s) dell’articolo 117 della Costituzione. La legge ha deciso che anche per la tutela degli ecosistemi dovranno essere fissati dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni (art. 3, c. 3). Ecco la fessura diabolica. Innanzitutto, la parola “prestazione” è di per sé odiosa oggi ma accostata agli ecosistemi diviene un obbrobrio inguardabile che svela l’idea mercenaria della natura nella testa del governo.

Chi ha deciso di applicare i Lep agli ecosistemi non deve aver chiaro che cosa siano e come funzionino. Il più scarso tra gli ecosistemi è titolare di decine di migliaia di “prestazioni”.
Di conseguenza, quale tra le tante sarà scelta? Ad esempio, tra le “prestazioni” del suolo, quale sarà considerata essenziale? La capacità d’uso? Il tenore di biodiversità? La permeabilità? Il grado di saturazione? Il livello di salinizzazione? Che cosa?
E quale sarà la soglia limite di riferimento? E poi il Lep sarà il medesimo per tutte le Regioni o no? In Lombardia sarà la capacità d’uso dei suoli e in Umbria la biodiversità?
Ma poi, la prestazione diabolica di cui si parla sarà prestazione dell’ecosistema verso se stesso o verso noi umani, cronici predoni di natura? Insomma, un bosco avrà buone prestazioni se produrrà buon legno da ardere o da costruzione o se garantirà biodiversità ospitando sempre più specie di uccelli?

Ma le diavolerie non finiscono qui.
C’è la patata bollente di chi deciderà i Lep. E come li monitorerà.
La legge ne parla all’articolo 3 dove vengono concessi 24 mesi al governo in carica per definire i citati “livelli essenziali”. Le Regioni vengono sentite tramite l’acquisizione di un parere della Conferenza delle Regioni (non si capisce se vincolante o meno.
Bizzarro, perché con una mano si vuole l’autonomia delle Regioni, con l’altra non sono le Regioni a decidere: vai a capire). Insomma, a stabilire i Lep saranno i politici della maggioranza di governo. Sempre loro.
Non si fa ovviamente alcun cenno al ricorso a esperti, men che meno indipendenti (non sia mai che le cose vadano in direzioni impreviste), che nel caso della tutela degli ecosistemi sarebbero ecologi, naturalisti, forestali, pedologi, entomologi, climatologi, etc. Nessun esperto all’orizzonte, per ora dobbiamo digerire il fatto che i Lep sulla tutela degli ecosistemi saranno decisi da chi non è detto sappia qualcosa di ecosistemi, di suolo, di alberi, di come funziona una frana o un fiume.

Se è questa l’autonomia che volevano c’è solo da disperare, perché con queste premesse poggia i suoi piedi nell’ignoranza ecologica. Altre fessure diaboliche? Il non senso della norma lo ritroviamo nella figura di chi, fondamentale, dovrà monitorare i Lep (articolo 3, comma 4): “l’attività di monitoraggio è svolta dalla Commissione paritetica”.
A spiegarci i dettagli diabolici di che cosa sia e come funzioni questa commissione è l’articolo 5. Partiamo dalla sua composizione: “per lo Stato, un rappresentante del ministro per gli Affari regionali e le autonomie, un rappresentante del ministro dell’Economia e delle finanze e un rappresentante per ciascuna delle amministrazioni competenti e, per la Regione, i corrispondenti rappresentanti regionali, oltre a un rappresentante dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) e un rappresentante dell’Unione delle province d’Italia (Upi)”. Ci risiamo. Non solo i Lep sono decisi dai politici della maggioranza al governo, ma sono sempre loro a monitorarli incaricando loro fiduciari.

Controllato e controllore coincidono con perfetto stile antidemocratico e contravvenendo alla regola base di ogni valutazione ambientale, la quale dovrebbe aiutare il decisore a correggersi non a spalleggiarsi l’un l’altro. Con quella formula, addio alla efficacia di qualsiasi Lep. Peraltro, tutti questi politici che si infilano in commissioni tecniche è un’altra contraddizione sonante visto che loro stessi ogni volta che parliamo di suolo, spiegando le questioni scientifiche ed ecologiche, dicono sempre di non essere tecnici.
Ma poi quando c’è da presidiare quel che gli interessa, diventano improvvisamente tecnici dentro una commissione. Ma siccome i ravvedimenti e i colpi di coda possono capitare anche tra politici (dagli scilipotisti ai cambiacasacchisti, se ne contano tanti) la legge mette le mani avanti con un altro particolare diabolico funzionale a rendere preventivamente innocui i componenti di quella commissione: “Ai componenti della Commissione paritetica non spettano compensi, indennità, gettoni di presenza, rimborsi di spese o altri emolumenti comunque denominati”. La conclusione è ovvia: il monitoraggio dei Lep non è cosa che interessa a chi ha pensato scritto e votato il testo di legge sull’autonomia differenziata.

Insomma, andando oltre la lettura dei titoli e prefigurandosi il funzionamento di questa irricevibile legge (chissà se il presidente della Repubblica Sergio Mattarella la fermerà o la commenterà), anche per la parte relativa alla natura, si può confermare pienamente che ci sono tutte le premesse per il totale asservimento ai bisogni dell’homo oeconomicus. Non c’è nulla che faccia pensare a un corretto approccio ecologico.

La natura è vista tragicamente ed erroneamente per parti distinte (il suolo da una parte, il bosco dall’altra, il campo dall’altra ancora) e già questo è contrario a ogni idea corretta di ecosistema. In più il suo smembramento sul piano geografico-amministrativo, in quanto ogni Regione finirà per definire come (e se) tutelarla, renderà ancor più ‘prestante’ la distruzione, per usare gli stessi loro termini.
Francamente non mi risulta che qualcuno sia mai riuscito a dimostrare che una gestione dell’ambiente e della natura per parti differenziate produca una miglior tutela degli ecosistemi e del paesaggio. Né è dato per certo che abbassando di livello amministrativo le tutele, dal centro al livello locale, si ottengano maggiori e più certe garanzie.
Non è così e lo abbiamo dimostrato decine di volte attraverso i dati sul consumo di suolo: i piccoli Comuni sono meno efficienti dei grandi; i Comuni più ricchi e grandi continuano a consumare per essere sempre più attrattivi a modo loro (vedi Milano, vedi Bergamo per citare i due sindaci che si sono schierati ai tempi per l’autonomia differenziata).

L’autonomia non è quindi la riforma che aggiusterà qualcosa, ma solo la lama con la quale si squarcerà il Paese. Un’autonomia disegnata da un corpo politico che non ci dà prova di consapevolezza ecologica è, di fatto, la prova che la dissociazione del pensiero politico dall’ecologia diviene un punto di qualità in chi fa politica e non una lacuna davanti alla quale fermarsi.
Davvero un disastro davanti al quale però, ancora una volta, non dobbiamo arrenderci, ma anzi alzare la voce e denunciare questa dissoluzione in ogni anfratto della società che frequentiamo. Ognuno può farlo facendo quel che meglio sa fare per dare voce alla natura che non ha voce, disvelando quei particolari diabolici che lo storytelling di forze politiche che nulla hanno a che fare con equità e natura è abilissimo a nascondere.
Dobbiamo trovare forme di aggregazione indifferenziata, l’esatto contrario di questa sciagurata autonomia differenziata.

(*) Tratto da Altreconomia.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)

domenica 23 giugno 2024

Produzione in serie di esseri umani: per quanto tempo ancora rimarrà solo una distopia? - Arianna Cavigioli

  

In perfetto tema natalizio due settimane fa il giovane biotecnologo molecolare, divulgatore scientifico, regista e produttore Hashem Al-Ghaili ha messo in rete un video su un ipotetico futuro scenario in cui i bambini potranno essere coltivati in uteri artificiali all’interno di laboratori. Attraverso un algoritmo viene selezionato l’embrione geneticamente superiore da impiantare in una capsula trasparente che simula l’ambiente uterino. Ogni utero artificiale è pervaso da sensori per monitorare il livello di ossigeno nel sangue, il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la frequenza respiratoria, e rilevare eventuali anomalie genetiche. Grazie all’AI e tramite un’app i genitori possono conoscere in tempo reale e comodamente dal proprio smartphone lo stato (o meglio, i parametri) di salute del bambino, e scegliere suoni vocali o musicali da trasmettere nella capsula uterina. Inoltre, l’utero artificiale è dotato di telecamere a 360 gradi e indossando un visore vr è possibile vedere, toccare e udire quello che percepisce il feto nell’utero artificiale. Una tuta vr, invece, consente di sentire i calci e i movimenti compiuti dal bambino, nutrito al meglio con ormoni, fattori di crescita e anticorpi tramite un cordone ombelicale digitale.

I laboratori di EctoLife garantiscono la “produzione” di 30.000 bambini all’anno, un ottimo risultato se si vuole elevare il numero di nascite in paesi che soffrono di decrescita demografica come Giappone, Bulgaria e Sud Corea; e per fronteggiare il problema delle morti fetali dovute a complicanze in gravidanza, che secondo l’WHO sfiorano i due milioni all’anno. La retorica sottostante al progetto, ovviamente, è filantropica: permetterebbe alle madri a cui è stato rimosso l’utero a causa di malattie tumorali o altre complicazioni di oltrepassare i farraginosi iter burocratici della maternità surrogata. Ma tale speculazione dialettica è costruita ai fini della sponsorizzazione di un prodotto, che si punta a rendere disponibile per ogni coppia o single interessata/o. A conferma di ciò è la possibilità, prima dell’impianto, di programmare geneticamente l’embrione, personalizzando il colore degli occhi, dei capelli, della pelle, la forza fisica, l’altezza, e il livello di intelligenza. È facile da immaginare che ad ognuna di queste scelte in pieno stile The Sims corrisponderà un determinato valore economico. Ma il profitto non si fermerebbe qui, dato che un sistema di nascite tale andrebbe a tessere reti tra investitori in campo farmaceutico (ad esempio per le sostanze nutritive fornite ai feti e ad eventuali terapie rivolte agli stessi), tecnologico (per la strutture biotecnologiche impiegate) e comunicativo-digitale (grazie alle app di monitoraggio e vr). A ciò si aggiunge l’enorme quantità di dati medici e comportamentali che i dispositivi coinvolti possono potenzialmente immagazzinare e successivamente, tutele della privacy a parte, trasformare in valore.

Il video divulgato da Al-Ghaili non si riferisce a uno specifico progetto di ricerca, ma, oltre a voler sollecitare il dibattito su un nuovo modello di genitorialità, si basa su risultati laboratoriali ottenuti o comunque non lontani da raggiungere, e app già in uso per monitorare lo stato di salute del bambino fuori dall’utero.

Recentemente è stato finanziato dall’Unione Europea con un fondo di 3 milioni di euro il progetto PLS (Perinatal Life Support), che punta a realizzare un supporto vitale perinatale funzionante entro 5 anni. Sotto la guida dei ricercatori dell’Università Tecnica di Heindoven, il dispositivo vorrebbe supportare la vita dei “feti pretermine” (prima della 22esima settimana) tramite il loro trasloco in un utero artificiale simulato. All’interno, non sarebbero garantite solo le caratteristiche biologiche quali la presenza di uno pseudo liquido amniotico e sostante nutritive, ma i feti godranno di sensazioni tattili, uditive e olfattive paragonabili a quelle del grembo materno. In questo progetto i test sugli animali non saranno contemplati, perché manichini stampati in 3D e dotati di un vasto range di sensori permetteranno, insieme a modelli computazionali e simulazioni computerizzate ad hoc, di testare e monitorare tutti gli aspetti salienti della gravidanza, prima di immaginare un primo test sull’uomo.

Il PLS è figlio di un altro progetto che nel 2017 ha visto protagonista il Children’s Hospital, a Philadelphia, di cui è stato pubblicato uno studio sulla rivista Nature. Il team di ricercatori americano ha sviluppato la Biobag, una sacca di plastica che simula la protezione offerta dalla placenta, colma di una soluzione elettrolitica che mima il liquido amniotico, e dotata di un tubo che viene collegato al feto in via di sviluppo, per replicare le funzioni del cordone ombelicale, filtrando il sangue dalle scorie e dall’anidride carbonica e arricchendolo di nutrienti e ossigeno. L’esperimento è stato condotto attraverso l’impiego di feti di agnelli che si trovavano in una fase evolutivamente paragonabile ai nati pretermine umani nella soglia di viabilità riconosciuta: 24 settimane. Dopo 4 settimane di incubazione i feti di agnello sono stati estratti sopravvissuti, mostrando una normale crescita somatica, maturazione polmonare, crescita cerebrale e mielinizzazione. I limiti dell’esperimento, tuttavia, come è ben esposto in uno studio del British Medical Journal, riguardano soprattutto il carattere etico e legale del progetto, dato che la tecnica sottesa al Biobag, l’AWT (Artificial Womb Tecnology), non è un’estensione dell’attuale incubatrice, ma qualcosa di completamente nuovo. L’AWT, infatti, ha la capacità di sostituire completamente una funzione umana: replica e sostituisce un processo biologico, piuttosto che tentare un salvataggio.  Questo lo rende, in effetti, un passaggio nel regno dell’automazione. L’incubatrice tradizionale, invece, ha lo scopo di supportare solo quella capacità di vita che il neonato sta già esercitando o sta iniziando a esercitare. Pertanto, il neonato si fa carico di parte del fardello del sostentamento. L’AWT è più vicina alle tecnologie che sostengono gli individui con morte del tronco cerebrale, che alle forme di supporto artificiale fornite ai pazienti in coma con sistemi nervosi funzionanti, che coordinano ancora alcune importanti funzioni corporee. Subentra poi il problema terminologico, nonché etico, sulla denominazione vitale. Innanzitutto il termine “feto” (umano) per ora implica che si trovi all’interno di un gestante umano, e dunque occorre rivedere i termini scientifici. Inoltre, bisognerebbe metter mano anche alla definizione di “viabilità”, ovvero il punto dello sviluppo fetale in cui il feto può sopravvivere al di fuori dell’utero (circa 24 settimane). La viabilità consiste, in molti paesi, nella possibilità per il feto di godere di alcune tutele legali che limitano l’accesso all’aborto, “è un compromesso con la lobby anti-abortista e gli attivisti pro-vita”. Immaginare di spostare la viabilità verso la fase embrionale, comprometterebbe seriamente la possibilità di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza della donna. Infine, se il Biobag, strutturato per accogliere un “feto” che ha meno di 22 settimane, funzionasse meglio dell’incubatrice tradizionale, i medici intravedrebbero maggior valore nel trattamento per i nati pretermine più giovani, sacrificando i pretermine che hanno superato la fascia critica delle 22 settimane.

Spostiamoci, ora, fuori dall’utero, per dare uno sguardo alla digitalizzazione del sapere genitoriale tramite app e dispositivi che monitorano lo stato di salute del bambino: possiamo citare almeno due esempi. Innanzitutto app quali Bebè +, che permettono ai genitori, una volta inseriti i dati sensibili del neonato, di conoscere le sue fasi di crescita, i suoi bisogni, le sue tendenze (espressi tramite parametri standard). Oppure Baby Connect, un tracker all-inclusive per lo sviluppo del bambino che registra il sonno, le poppate, i pannolini e l’umore del bambino in un’interfaccia che consente di scambiare informazioni in tempo reale. Ancora più recente è il software alla base dell’app Tata Digitale, che si prefigge l’obiettivo, tramite la registrazione sonora del pianto neonatale, di decodificarne la natura, indicando al genitore se si tratta di fame, sonno, colichette, dolore fisico o la richiesta di attenzione. Siamo di fronte alla volontà di standardizzare e digitalizzare un sapere pratico, soggettivo e legato all’esperienza diretta come quello della crescita figliale, legato a un cospicuo ricavo economico. Valore economico che si misura soprattutto attraverso l’immensa qualità di dati raccolti, una miniera d’oro nei tempi che corrono.

Ho iniziato l’articolo con una battuta perché fa sorridere la coincidenza temporale tra l’uscita di EctoLife e la vicina nascita di Gesù, ma anche perché le critiche al Transumanesimo che hanno più eco in Occidente sono di matrice cristiana e dunque comunemente intese dalla Sinistra come retrograde. Una strategia della classe dominante legata a interessi economici quali ad esempio quelli della Big Tech, è anche dipingere – tramite la collaborazione con grandi aziende di comunicazione e social network – i dissidenti come fanatici o ignoranti, proprio per ridicolizzare e delegittimare la possibilità stessa di critica. La contro-informazione politica e la possibilità della contestazione dal basso sono seriamente in pericolo, buttate nel calderone del complottismo più becero, anche quando si tratta di analisi basate su fonti accademiche o comunque su ricerche approfondite. Inoltre questa tendenza, che abbiamo visto già protagonista ad esempio a proposito dell’obbligo vaccinale, rispecchia una visione classista che preclude ai “non esperti” la possibilità di esprimersi su questioni così scientifiche da dover essere delegate ad altri, ma le cui conseguenze poi sono vissute sulla pelle della classe dominata.

Dunque, quale analisi per questo Transumanesimo che si vorrebbe estendere perfino alla creazione di esseri umani in laboratorio? Dove sta il profitto e quale è il conseguente modello sociale che ne deriva? Qui siamo ben oltre alla mercificazione del corpo femminile impiegata nella maternità surrogata: proprietà biologiche esclusivamente femminili sono espropriate per creare un ambiente (l’utero artificiale) consono alla coltivazione di esseri umani. Se “surrogare” etimologicamente significa “agire per altri”, (ed è infatti la madre biologica, spesso denominata in modo sminuente “portatrice di embrione”, che si fa carico del fardello della maternità), in un sistema natale simil-Ectolife le azioni della gestazione e della gravidanza sono delegate interamente a un dispositivo biotecnologico di proprietà privata. Il laboratorio/fabbrica trasforma completamente il processo di nascita in un’operazione tecnica: l’embrione è un prodotto da selezionare, migliorare, rifiutare o trasformare. Inoltre, la possibilità di procreare, uno dei pilastri su cui si basa la differenza sessuale, non è più prerogativa del corpo femminile, ma è affidata a un’entourage medica al servizio dei capitali biotech e farmaceutici.

Oltre al profitto legato alla mercificazione di un tale servizio, e al risparmio di un sistema sanitario non più “vincolato” a curare malattie neonatali, è impressionante immaginare la potenziale raccolta di dati e la conseguente sua trasformazione in materiale profittevole tramite diffusione su dispositivi e app. Gli interessi in gioco tra le varie compagnie farmaceutiche e Big Tech non sarebbero conteggiabili.

E cosa comporta in termini sociali l’artificializzazione e la digitalizzazione della gravidanza? Problematiche psicologiche e mediche, connesse al coinvolgimento del corpo nella fase del concepimento, ma anche il fondamentale diritto ai mesi di maternità retribuita è trattato come vero e proprio ostacolo per l’affermazione economica di quel prototipo umano costantemente produttivo e mai a riposo. Il modello sociale che ne consegue, che rappresenta al contempo l’esca perfetta per la sua affermazione, è la fuoriuscita dal proprio corpo di eventuali difficoltà, complicazioni, stress, lesioni, che insieme però al bagaglio esperienziale ed emotivo inspiegabilmente magico della gravidanza ne rappresentano le caratteristiche costitutive e reali. Eliminare il rischio potenziale di essere malati, avere complicanze gravi o sfiorare la possibilità di morte sono il grimaldello propagandistico su cui fondare un tecno-uomo invincibile e sfruttabile in ogni momento dal Capitale.

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