mercoledì 28 febbraio 2024

Brasile, il genocidio più lungo - le origini di Survival - Francesca Casella


“Considero la fondazione di Survival come il più grande
successo della mia vita professionale.”
Norman Lewis

“La decimazione dei popoli nativi delle Americhe è come un’ossessionante domanda che fluttua nel vento: come abbiamo potuto permettere che accadesse?”
Nelson Mandela, 1996

Il 23 febbraio del 1969, il Sunday Times inglese pubblicò un articolo che scioccò i lettori di tutta la nazione. Si intitolava Genocidio e portava la firma di uno dei più grandi giornalisti di tutti i tempi, Norman Lewis.

L’editore aveva inviato Lewis a investigare sui risultati di un’indagine intrapresa dallo stesso governo brasiliano nel marzo del 1968. Voci sempre più insistenti raccontavano che nella foresta amazzonica si stava ripetendo la tragedia che aveva decimato i Nativi Americani durante l’ultimo secolo ma, questa volta, compressa in un brevissimo arco di tempo. Sembrava che laddove prima vivevano centinaia di Indiani, ne sopravvivessero ora solo poche decine, mantenute in vita solo grazie alla paternalistica sollecitudine dello SPI, il Servizio governativo per la protezione dell’Indio istituito dal governo nel 1910.

“Ma in tutti quei racconti – ed erano davvero tanti”, scriveva Lewis, “c’era una zona di silenzio, una mancanza di sincerità e di responsabilità sociale, un’evidente avversione a scavare nella direzione da cui la distruzione avanzava. Sembrava che dovessimo limitarci a supporre che gli Indiani si stessero semplicemente dissolvendo, uccisi dal duro clima dei tempi, e che fossimo tutti invitati a non porre ulteriori domande.”

Il compito di risolvere il mistero era stato lasciato nelle mani dello stesso governo brasiliano e, in verità, era stato portato a termine con una franchezza brutale e disarmante. Il procuratore generale Jader Figueiredo, spiegava Lewis nell’articolo, era stato incaricato di visitare gli avamposti dello SPI in tutto il paese alla ricerca di prove di abusi e atrocità. In 58 giorni di indagini aveva compilato un dossier di 5115 pagine da cui si evinceva chiaramente che negli ultimi 10 anni migliaia di persone erano state virtualmente sterminate “non nonostante gli sforzi dello SPI ma anzi con la sua connivenza, spesso con la sua ardente collaborazione”.

Oggetto di indagine non erano i massacri che nei secoli precedenti avevano ucciso oltre 6 milioni di Indiani brasiliani, ma le azioni criminali compiute negli ultimi anni nei confronti dei sopravvissuti. Le tragiche perdite subite dalle tribù indiane in quella drammatica decade erano catalogate solo in parte. Tuttavia, il dossier, pesante 103 chili, documentava dettagliatamente assassini di massa, torture e guerre batteriologiche, casi di schiavitù, abusi sessuali, furti e negligenze.

Il rapporto rendeva noto che alcuni gruppi di Indiani Pataxó erano stati infettati deliberatamente col vaiolo; che i fazendeiro avevano fatto ubriacare i Maxacali per poi farli più agevolmente uccidere dai sicari; che i Cinta Larga erano stati massacrati con candelotti di dinamite lanciata dagli aerei sopra i loro villaggi; che la tribù dei Beiços-de-Pau era stata sterminata con cibo intriso di arsenico e insetticida. L’autore paragonava le sofferenze degli Indiani a quelle subite dagli Ebrei nei campi di concentramento nazisti e concludeva affermando che 80 tribù si erano completamente estinte mentre di molte altre sopravviveva solo qualche singolo individuo.

L’inchiesta giudiziaria promossa in seguito alle denunce del rapporto aveva portato all’incriminazione di 134 funzionari governativi, accusati di oltre 1000 crimini diversi. 38 di loro furono licenziati ma nessuno andò mai in carcere. Il dossier non fu mai reso pubblico: al di fuori del governo lo lessero poche persone e, pochi anni dopo, bruciò in un misterioso incendio. La sua scomparsa però arrivò tardi perché aveva già causato un clamore pubblico tale da superare i confini della nazione giungendo fino in Inghilterra.

All’editore del Sunday Times giunsero centinaia di lettere di sgomento e, in pochi giorni, dall’incontro dei lettori più indignati e risoluti a intervenire nacque Survival International. Nei tre anni successivi, i missionari della Croce Rossa, Survival e l’Aborigines Protection Society visitarono decine di tribù e la pubblicazione delle loro scoperte portò finalmente la tragedia degli Indiani amazzonici all’attenzione del mondo intero.

Fondata con l’obiettivo di aiutare i popoli indigeni a difendere le loro vite e le loro terre contro ogni forma di violenza, persecuzione e razzismo, da allora Survival ha continuato a crescere e a espandere il suo raggio d’azione fino a diventare il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Lottiamo per la loro sopravvivenza, in tutto il mondo. Per i popoli indigeni stessi, per la natura, per tutta l’umanità.

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QUI si può leggere Genocide, l'articolo di Norman Lewis del 1969

lunedì 26 febbraio 2024

Larici abbattuti per la pista da bob a Cortina, il potente requiem agli alberi del violoncellista Mario Brunello – Francesca Capozzi

Il violoncellista Mario Brunello ha dato un concerto a Cortina d'Ampezzo per i larici abbattuti per far posto alla pista da bob dei prossimi Giochi olimpici e paralimpici invernali del 2026. Con il suo violoncello, il maestro chiede pietà per la natura

Note a quattro corde in ricordo degli alberi abbattuti per fare posto a una pista di bob a Cortina d’Ampezzo. Dove prima sorgeva un bosco di larici secolari vi saranno centinaia di tronchi mozzati. In questo paesaggio al rovescio si è esibito il violoncellista Mario Brunello.

Con la sua emblematica custodia rossa e la sua sublime musica, l’artista ha suonato per quei larici, un pubblico che non c’è più.  Il bosco di Ronco, sopra la località che ospiterà i Giochi olimpici e paralimpici invernali del 2026, è il suo teatro vuoto.

Il violoncellista ha voluto esprimere il dolore della natura attraverso il suo strumento, dando un ultimo saluto alla foresta e invitando le persone a prendere posizione e a opporsi a questa distruzione.

Sono qui per dare voce a questi larici, che sono qui da secoli, e non hanno avuto l’opportunità di vivere con la musica, ma una voce dovrebbero averla e dovrebbero essere ascoltati. La mia è una richiesta di pietà per lo scempio che sta avvenendo nel bosco di Ronco” ha dichiarato Mario Brunello.

Tra il rumore delle motoseghe e i dissensi di chi si è schierato contro la realizzazione di nuovi impianti risuonano canti di montagna eseguiti dal violoncellista, come già fatto per gli alberi abbattuti di Arte Sella anni fa.

Le proteste contro la nuova pista

I larici da abbattere sono più di 200 dopo l’accordo trovato per il cantiere, “vengono giù al ritmo di 1 albero al minuto” così ha dichiarato Cristina Guarda, consigliera regionale del Veneto, prima di uno stop ai lavori.

Gli ambientalisti continuano a manifestare al fianco della consigliera contro la creazione di impianti nuovi per le prossime Olimpiadi invernali, ritenendoli assolutamente non necessari.

Questi sono visti come “un’opera dannosa” usando le parole di Guarda, un spreco di fondi perché costerebbero oltre 120 milioni che potrebbero essere investiti in interventi per lo sviluppo del territorio di montagna e per più servizi alla comunità.

Invece, quelle aree montane vengono adesso rase al suolo.

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domenica 25 febbraio 2024

Sardegna, l’isola nascosta in cerca di un futuro - Costantino Cossu

 

ELEZIONI REGIONALI. Nella Sardegna profonda, dove i piccoli paesi rischiano l’estinzione e gli ultimi echi della campagna elettorale arrivano smorzati. Crisi profonde nel settore industriale, soffrono agricoltura e pastorizia. Disoccupazione al 12%. Le scuole chiudono per i tagli decisi a Roma, i trasporti sono da incubo.

Sul manifesto del 24 febbraio 2024

https://ilmanifesto.it/sardegna-lisola-nascosta-in-cerca...


Tuili è un paese alla fine del mondo. Novecento abitanti nel cuore della Giara di Gesturi, nel cuore della Sardegna. È lontano dalle città, lontano dalle coste della monocoltura turistica. Il ministro della Difesa Crosetto lo ha messo nella lista dei siti che potrebbero ospitare il deposito nazionale delle scorie radioattive.

Chi li vede qui i veleni delle vecchie centrali dismesse che nessuno vuole? A Tuili ogni anno da parecchi anni i morti sono più dei nati. Se va avanti così, dicono i demografi, nel giro di una sessantina di anni Tuili diventerà un paese fantasma, del tutto disabitato.

E non è il solo in Sardegna a rischiare l’estinzione. Ce ne sono altri trenta di piccoli centri che hanno un tasso demografico negativo. Si chiama spopolamento.

A Tuili non vorrebbero le scorie radioattive. Vorrebbero servizi. Perché se non ci sono scuole, se non ci sono ambulatori, se non ci sono uffici postali, se non c’è un cinema o una biblioteca, per quale motivo la gente non dovrebbe fuggire a Cagliari o prendere un traghetto e andarsene sul continente?

ANCHE A TUILI DOMANI si vota per eleggere il nuovo governatore dell’isola. Ma gli echi della campagna elettorale arrivano smorzati ai bordi della Giara. A pochi chilometri il profilo monotono dell’altopiano è spezzato dalle torri della regia nuragica di Barumini. Pietre millenarie, il tempo circolare delle società tradizionali.

Cagliari e Roma qui sono distanti non solo per numero di chilometri. E però è proprio per questo che è utile guardare alla Sardegna profonda ora che brillano, un po’ mesti, gli ultimi fuochi di una battaglia politica dura, con il centrodestra che s’è messo nelle mani di un nostalgico del Duce e un centrosinistra diviso.

Mentre ieri a Cagliari Alessandra Todde per l’alleanza Pd-M5S e Renato Soru per la Coalizione sarda chiudevano le rispettive campagne elettorali ripetendo le argomentazioni sulle quali hanno battuto per due mesi e dandosele ancora di santa ragione, e mentre il fedelissimo meloniano Paolo Truzzu nel suo comizio finale ripeteva che la vittoria del centrodestra è sicura, Tuili guardava e giudicava.

Guardava e giudicava dalla solitudine delle zone interne, dalla quale giovani donne e giovani uomini scappano per avere un futuro.

La situazione non è molto diversa in tante altre parti della Sardegna. Se ne sa poco, oltre Tirreno, di che cos’è quest’isola.

Si sa poco ad esempio, di che cosa sta accadendo nel Sulcis, Sardegna sud-occidentale. Le miniere di carbone hanno chiuso da tempo e il distretto metallurgico di Portovesme è in crisi profonda. Le fabbriche vendute dallo Stato negli anni Novanta alle multinazionali dell’alluminio sono tutte a un passo dalla chiusura, con migliaia di posti di lavoro a rischio. E nessuna risposta.

Difficile fare politica industriale se a prevalere, alla fine, è sempre la logica del mercato. Persino la famiglia Moratti ha mollato. È della scorsa settimana la notizia che il gruppo milanese ha venduto lo stabilimento petrolchimico di Sarroch alla holding svizzero-olandese Vitol. I sindacati sono in allarme: sanno che cosa può succedere quando le proprietà si spostano fuori dai confini nazionali.

MA NON È SOLTANTO il settore industriale a soffrire. Vanno male agricoltura e pastorizia, alle prese con una crisi strutturale che ha dimensioni europee e alla quale l’assenza di visioni di lungo periodo impedisce di trovare rimedi che tengano insieme tutela dei redditi e transizione ecologica.

L’amministrazione pubblica è in stallo, penalizzata dalla lentezza con la quale la politica regionale gestisce l’altra decisiva transizione, quella digitale.

La scuola è in sofferenza: gli istituti chiudono per i tagli decisi a Roma (il dimensionamento scolastico) e la Sardegna è tristemente al primo posto nella classifica dei ragazzi che abbandonano gli studi prima di terminare il corso obbligatorio.

I trasporti sono da incubo. Sali su un treno e ti sembra di entrare in una macchina del tempo, su binari che seguono le tratte progettate dai pionieri delle ferrovie nell’Ottocento e con tempi di percorrenza da scoraggiare chiunque: per arrivare da Cagliari a Sassari – 220 chilometri – si impiegano tre ore e mezza.

Restano le strade, ma anche quelle sono un disastro. La statale 131, che percorre da Nord a Sud la regione, è una delle arterie più pericolose d’Italia, interrotta com’è da eterni cantieri di manutenzione. E le strade provinciali, su vecchi e tortuosi tracciati, abbandonate da decenni sono un colabrodo di buche.

Per non parlare dei collegamenti con la penisola: con le politiche della destra, che privilegiano il mercato, i biglietti degli aerei e quelli dei traghetti sono diventati salatissimi. E che dire dei poligoni?

Un recente studio di un gruppo di economisti dell’università di Cagliari ha dimostrato che le zone occupate dalle basi sono quelle che in Sardegna hanno avuto i tassi di crescita più bassa: reddito sotto la media regionale e dinamismo imprenditoriale prossimo allo zero.

Soltanto il turismo va bene, in Sardegna, aiutato da salari vergognosamente bassi e dalla diffusione del precariato e del lavoro nero.

LA CONSEGUENZA di tutto ciò è che nell’isola il tasso di disoccupazione è al 12%, 5 punti in più della media nazionale. E con la disoccupazione riparte l’emigrazione. I sardi se ne vanno via e se le cose non cambiano si prepara, per i prossimi decenni, uno scenario demografico nerissimo.

Questa è la Sardegna in cui domani si vota. Un quadro rispetto al quale le responsabilità della destra al governo negli ultimi 5 anni sono forti ed evidenti. Ma i problemi hanno radici che affondano ben al di là nel tempo. E sono in pochi a potersi dire assolti.

da qui

sabato 24 febbraio 2024

Aquí tamén se fala galego

 

 

Il galiziano è la seconda lingua più parlata in Europa tra quelle non ufficiali. Ha più parlanti di slovacco, sloveno, maltese, islandese o gaelico, ed è tra i trenta idiomi più diffusi su internet, spiega la Real academia galega, l’istituto che da più di un secolo ne promuove lo studio. È una lingua dinamica, vitale, ma rispetto al passato lo parlano molte meno persone, soprattutto tra i giovani e gli abitanti delle città della Galizia, la comunità autonoma nel nordovest della Spagna. Per colpa di politiche che da sempre cercano di screditarlo, e per il pregiudizio sociale.
 

 

In occasione delle ultime elezioni comunali a La Coruña, per esempio, un cittadino indignato ha scritto a un giornale locale perché nella cassetta delle lettere riceveva solo volantini elettorali in galiziano. Quella lettera ha spinto Carla, un’utente venticinquenne di X (ex Twitter), a condividere il suo calvario da parlante galiziana. Carla racconta di essere cresciuta con i nonni in una zona rurale e che il galego è stata la prima lingua che ha imparato. Alla scuola d’infanzia lo parlavano tutti i bambini, ma quando è passata alle elementari, in un villaggio vicino, solo due compagni su trenta lo conoscevano. E se le scappava qualche frase in galiziano la maestra la riprendeva subito. “Ci hanno fatto credere che il galiziano fosse una lingua di seconda scelta”, e che chi lo usava fosse “stupido, ignorante, strano”, continua la ragazza. “E sì, so parlare spagnolo”, ha concluso, “ma non so come essere completamente me stessa in spagnolo. Non so essere divertente, per esempio, so amare solo in galiziano. So arrabbiarmi solo in galiziano”. Le sue riflessioni hanno aperto un dibattito tra gli insegnanti della regione, denunciando una discriminazione e una pressione sociale contro cui le scuole fanno poco o nulla.

In Galizia quasi un giovane su tre sotto i vent’anni non sa cavarsela con il galego, anche se la legge prevede che una parte delle attività didattiche sia svolta in questa lingua. Circa l’8 per cento ha dichiarato di non saperlo “per niente” e un altro 22 per cento ha detto di avere “difficoltà” a capirlo, scrive El País riportando gli ultimi dati disponibili.

Il quotidiano spagnolo ha chiesto a tre adolescenti che frequentano le superiori a La Coruña e che provengono da famiglie in cui si parla galiziano come vivono il loro rapporto con la lingua che hanno imparato da piccoli. Uno di loro, Román Rojo Campaña, dice che nella sua scuola ci sono studenti di quaranta nazionalità diverse, per cui “anche capirsi in spagnolo è un problema”. Lui ha deciso di seguire una sorta di “bilinguismo armonioso” con i compagni. Raúl Martínez Leis, di diciassette anni, spiega invece di essere cresciuto in un paesino di ottocento abitanti dove tutti parlavano galego, a cominciare dagli amici con cui passava i pomeriggi a giocare a calcio. Quando si è trasferito in città, il cambiamento è stato brutale e ha dovuto abbandonare il galiziano per integrarsi. Ora però partecipa a una campagna di promozione linguistica che è partita dal suo istituto e si è già diffusa in 180 scuole della comunità autonoma. Si chiama “Aquí tamén se fala”: anche qui si parla (il galiziano).


(da Internazionale)

 

venerdì 23 febbraio 2024

India: esperti denunciano il rischio di genocidio per gli Shompen incontattati

 

Trentanove studiosi internazionali di genocidio hanno scritto al governo indiano per denunciare che il progetto di convertire l’isola di un popolo incontattato in un mega-porto e in una città sterminerà la tribù.

L’isola di Gran Nicobar, nell’Oceano Indiano, è la casa di circa 300 cacciatori raccoglitori Shompen, di cui due terzi sono incontattati. È una delle tribù più isolate della Terra e vive nelle dense foreste pluviali che occupano l’interno dell’isola.  

Il progetto da 9 miliardi di dollari che il governo indiano ha varato per l’isola comprende un porto gigantesco, una nuova città, un aeroporto internazionale, una centrale elettrica, una base di difesa, una zona industriale e l’arrivo di 650.000 coloni – con un aumento della popolazione di circa l’8000%. 

“Se il progetto andasse avanti, anche in forma più ridotta, crediamo sarebbe una condanna a morte per gli Shompen, equivalente al crimine internazionale di genocidio” hanno affermato gli esperti, provenienti da istituzioni accademiche di tredici paesi. Tra loro storici, sociologi e l’ex Presidente dell’International Association of Genocide Scholars. 

Secondo gli esperti, "il semplice contatto tra gli Shompen – che hanno poche, o nessuna, difese immunitarie verso le malattie infettive importate – e coloro che provengono dall’esterno porterà con certezza a un forte crollo della popolazione. Ne seguirà la morte di massa dell’interno popolo degli Shompen. Il solo modo per evitare la distruzione degli Shompen è abbandonare il progetto.”

Survival International chiede che il progetto sia abbandonato e che i diritti di proprietà territoriale degli Shompen sulle loro terre ancestrali siano riconosciuti. Oltre 7.000 persone hanno scritto al governo indiano per sostenere questo appello.

“Questo è un chiaro avvertimento a cui il governo indiano deve prestare ascolto: procedere con il progetto per Gran Nicobar distruggerà l’isola in cui vivono gli Shompen, causandone il genocidio” ha dichiarato oggi la Direttrice generale di Survival International, Caroline Pearce. 

https://www.survival.it/notizie/13881

giovedì 22 febbraio 2024

Per una Nuova Agricoltura Contadina - Miguel Martinez

Nel contesto della rivolta europea dei trattori, un gruppo di contadini e loro amici ha lanciato questo manifesto per la “Nuova Agricoltura Contadina“, proprio qui, a Firenze. Se volete aderire, potete mandare una mail a nuovagricolturacontadina@gmail.com

La nuova agricoltura contadina si distingue alla radice dall’agricoltura industriale, quindi stronchiamo subito le due obiezioni che tanti solleveranno contro questo manifesto.

Uno…

“Eh, ma senza tonnellate di chimica e montagne di burocrazie, non si sfama il mondo”.

Qui ci sarebbe tanto da discutere – come la “chimica” (per semplificare) desertifichi il suolo; o di come i controlli formali siano tarati sulle grandi imprese industriali.

Ma tagliamo la testa al toro (senza averlo riempito prima di ormoni): qui stiamo parlando della possibilità per chi vuole di fare un’agricoltura senza “chimica” e senza “burocrazia”.

Però c’è anche un punto che mi affascina perché sovverte tutti i nostri punti di riferimento.

Qui si propone di decommercializzare le attività di autoproduzione.

Oggi, l’artigiano che costruisce con le sue mani un violino, o la pastora del Chianti che fa il formaggio di pecora e lo vende in Piazza Tasso, sono equiparati al negoziante, ma anche allo speculatore immobiliare o al trafficante in investimenti bancari: sono “imprenditori” che fanno “commercio“, su cui opera una tassa specifica, l’Iva, diversa dalle “tasse” ordinarie che giustamente paghiamo tutti per avere strade o scuole o ospedali.

Mi dicono che da qualche parte nel Capitale di Marx che io non ho letto, c’è scritto che esistono due modi radicalmente diversi di scambiare beni e denaro.

Il primo: coltivo rape/trasformo il legno in violino; poi vendo rape/violino a qualcuno, che mi dà un po’ di soldi; e trasformo quei soldi in una cosa importante per me, un pasto, una casa, un libro.

Bene – Denaro – Bene 1

 

Il secondo modo è… mi trovo tra le mani dei soldi, e voglio averne ancora di più. In mezzo, qualunque cosa può fungere come la schedina di Totò:

 

Ogne semmana faccio na schedina:
mm a levo ‘a vocca chella ciento lire,
e corro quanno è ‘o sabbato a mmatina
‘o Totocalcio pe mm’ ‘a ji a ghiucà.

 

Per cui scommetto su… i ceci boliviani, gli schiavi neri, il film di successo, la lotteria di capodanno, i missili da lanciare sul nemico, il cantante di Sanremo, il vino del Chianti, il palazzone di cento piani, il grano da sfruttare per farne biocarburante…

Denaro – Bene – Denaro 1

E’ una scommessa anche la nostra, che si possa escogitare una maniera per distinguere chi ci vende il vino in piazza da chi specula sulle armi in borsa.

Ma è parallela e tanto vicina a una battaglia che abbiamo già vinto: quella che ha fatto saltare la mostruosa dicotomia “pubblico/privato”, e ha introdotto l’idea di cittadini attivi, che non ricercano un guadagno personale, ma agiscono per il Bene Comune.

OBBIETTIVI PER UNA NUOVA AGRICOLTURA CONTADINA

Centro Studi per la nuova agricoltura contadina

Firenze,18 febbraio 2024

Le manifestazioni dei trattori, nate dall’evidenza di essere nel vicolo cieco, senza futuro perché il dominio dell’industria, dopo la rincorsa all’agricoltura 3.0, 4.0, 5.0, porterà alla fine ad alimenti prodotti in fabbriche/laboratorio, alla ricerca dei prezzi più bassi e di profitti più alti, vengono astutamente interpretate dalle istituzioni politiche come richieste allineate a quelle della finanza, che vuole più glifosate, più tecnologia, più veleni, cioè proprio quegli strumenti che hanno portato l’agricoltura in fallimento, e perciò bisognosa di finanziamenti, che bastano sempre meno a remunerare i contadini ma a sostenere un apparato sempre più invasivo. La crisi dell’agricoltura impone una via di uscita dalla catena infernale dell’agricoltura industriale.

La costruzione di un nuovo mondo contadino è la base necessaria della transizione ecologica, della messa in sicurezza del territorio, della salvezza delle città, della bonifica della terra, delle acque, dell’aria e del cibo da ogni forma di inquinamento.

Tali scopi del più alto interesse pubblico passano dalla promozione di un’agricoltura autonoma dall’industria, senza inquinanti, dalla forestazione e/o piantumazione con i maggiori assorbitori di anidride carbonica, dalla difesa della biodiversità, dalle policolture, dalla produzione di alimenti della più alta qualità.

È nuova agricoltura contadina ogni podere o unità produttiva coltivata da una comunità familiare, amicale, associata in qualunque modo, orientata a utilizzare macchine di potenza totale sempre minore, eliminando la chimica di sintesi, producendo soprattutto per l’alimentazione, allevando animali non in batteria e operando in policoltura, come tale non è un’attività speculativa.

  • È riconosciuto ai contadini agro-ecologici il diritto all’analfabetismo burocratico e digitale. Tutte le pratiche pubbliche saranno a carico pubblico, espletate da funzionari appositi e itineranti, a cui deve essere dato l’incarico di completarle senza lavoro-ombra a carico del contadino.
  • Da questo e dall’assenza di scopi speculativi discende che la nuova agricoltura contadina dev’essere esentata dall’obbligo di iscriversi alla camera di commercio e dall’IVA.
  • Saranno finanziati dal pubblico a misura sul lavoro compiuto le opere di pubblico interesse di manutenzione del territorio con sistemazioni agrarie come: la costruzione o ricostruzione dei muri a secco, della rete idrografica, la manutenzione delle strade vicinali, la bonifica di terreni degradati, la piantumazione di varietà migliorative del microclima.
  • Riservare una quota parte del terreno a siepi, alberature, fossi e sistemazioni agrarie, mantenere e accrescere la fertilità del suolo. Tutto ciò non rappresenta solo un valore di bellezza del paesaggio, ma aumenta la qualità e quantità delle produzioni.
  • Istituire cantieri di lavoro per i nuovi insediamenti contadini con impiego di disoccupati, operai in cassa integrazione, tirocinanti, studenti con borse di studio e immigrati. I cantieri saranno centri di istruzione e sperimentazione, comprendente ogni aspetto della nuova vita rurale e a cui si potranno aggregare anche le scuole di ogni ordine e grado nelle attività pratiche inseparabili dalla formazione. Le associazioni che da anni lavorano in queste materie e rappresentano le varie forme di agricoltura ecologica, organizzeranno il personale docente. In particolare si studieranno e sperimenteranno gli strumenti per la migliore trasformazione artigianale dei prodotti, le tecniche per l’uso di animali nelle attività di trasporto, le piccole attività di trasformazione dei prodotti agroalimentari e altre, come molitorie ad acqua o micro-impianti di produzione energetica rinnovabile nella prospettiva di una rinnovata sovranità tecnica.
  • Istituire per cinque anni un salario di contadinanza per chi intraprende un’attività di nuova agricoltura contadina.
  • Istituire un servizio per l’istruzione, la verifica e i controlli delle buone pratiche e della qualità dei prodotti alimentari delle attività della nuova agricoltura contadina.
  • Sostituire le certificazioni biologiche con autocertificazione comprovate da controlli chimici anche da parte di un servizio di controllo all’interno della comunità sull’ambiente e sui prodotti alimentari che verifichino l’assenza di chimica di sintesi.
  • Riportare in vigore per i nuovi contadini la vendita diretta al dettaglio o al pubblico in regime di esenzione e quindi senza pagamento del suolo pubblico, garantendo la tracciabilità del prodotto con l’autocertificazione.
  • Facilitare l’accesso alla terra promuovendo la concessione delle terre agricole demaniali o pubbliche o private alla nuova agricoltura contadina, e a tale scopo concesse per periodi crescenti in base ai risultati per attività, liberalizzando il rapporto fra proprietà e conduttori; sono parimenti liberalizzati i rapporti di collaborazione e di volontariato in agricoltura anche sotto forma di cooperazione di comunità;.
  • Premiare le filiere corte attraverso reti di comunità alimentari tra produttori e utenti. In particolare, agevolare cooperative di cibo contadino che non solo venda a domicilio ma incentivi il mestiere per attirare nuove generazioni; ed è giusto che siano a carico di tutta la società comunale, regionale, nazionale.
  • Vista al momento la scomparsa quasi totale della trasmissione diretta delle conoscenze pratiche di coltivazione e di vita agricola nelle giovani generazioni, ogni contadino della nuova agricoltura che lascia per malattia o limiti di età dovrà essere sostituito solo da comunità di apprendimento o di analoga produzione, col contributo pubblico.
  • Liberalizzare lo scambio, la vendita e selezione dei semi da parte delle attività dei nuovi contadini, purché prodotti da loro.
  • Il territorio agricolo non potrà essere urbanizzato e le nuove costruzioni rurali necessarie saranno realizzate in materiali naturali facilmente rimovibili. A questo scopo occorre allestire un nuovo catasto agricolo comprendente i terreni utilizzati in agricoltura contadina o a essa vocati, che si tratti di terreni demaniali o privati.
  • Fissare il prezzo minimo di ingresso in Italia di tutti i prodotti agroalimentari secondo il livello medio del costo di produzione nel nostro paese, purché coltivati secondo le norme vigenti.
  • L’Unione Europea deve garantire il diritto alla sovranità e all’autonomia alimentare di ogni paese nel rispetto delle usanze o tradizioni, e basata sulla solidarietà per compensare tutte le situazioni di necessità alimentari anche provocate da eventi straordinari.

Le leggi e regolamenti attualmente vigenti per l’agricoltura restano in vigore per l’agricoltura industriale. Per la nuova agricoltura contadina si costruirà un nuovo codice.

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mercoledì 21 febbraio 2024

Farmaci per il raffreddore, Aifa: Da evitare quelli a base di pseudoefedrina

 

La nota dell’Agenzia enfatizza l’importanza di interrompere l’uso dei farmaci contenenti pseudoefedrina al primo sospetto di sintomi correlati

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), ha sollevato alcune importanti questioni sull’uso di farmaci comunemente prescritti per il raffreddore e la congestione nasale. La pseudoefedrina, un ingrediente attivo presente in numerosi farmaci da banco per il raffreddore, ha attirato l’attenzione delle autorità sanitarie italiane e internazionali per un motivo di grande rilievo: i rischi potenziali per la salute dei pazienti. Questo composto, utilizzato per alleviare i sintomi nasali associati a raffreddori e allergie, è stato oggetto di indagini approfondite volte a valutarne la sicurezza e l’efficacia.

L’ultimo comunicato dell’AIFA, redatto in collaborazione con le autorità regolatorie europee, ha messo in luce una serie di rischi associati all’utilizzo di medicinali contenenti pseudoefedrina. Tra le problematiche sollevate figurano la sindrome da encefalopatia posteriore reversibile (PRES) e la sindrome da vasocostrizione cerebrale reversibile (RCVS), che sono state riscontrate in pazienti che hanno fatto uso di tali farmaci per il raffreddore. Questa scoperta ha sollevato una serie di interrogativi riguardo all’idoneità di tali medicinali per determinate categorie di pazienti. Secondo quanto riportato dalla nota dell’AIFA, l’uso di farmaci contenenti pseudoefedrina è sconsigliato per specifiche categorie di pazienti. Tra questi figurano coloro che soffrono di ipertensione grave o non controllata, nonché coloro che sono affetti da malattie renali acute o croniche. Queste precauzioni sono state adottate con l’obiettivo di mitigare i potenziali rischi di sviluppare sindromi cerebrali gravi. È quindi di vitale importanza che i pazienti, soprattutto coloro con condizioni preesistenti, siano informati sui potenziali rischi associati all’uso di farmaci per il raffreddore contenenti pseudoefedrina e consultino un medico prima di iniziare qualsiasi trattamento.

Per coloro che potrebbero essere a rischio, è essenziale essere consapevoli dei segnali d’allarme. Mal di testa improvvisi e intensi, accompagnati da altri sintomi quali nausea, vomito, confusione mentale, e disturbi visivi, possono indicare la presenza di condizioni gravi che richiedono immediata attenzione medica. Questi sintomi, se trascurati, potrebbero portare a complicazioni serie e persino mettere a rischio la vita del paziente. Pertanto, è fondamentale che coloro che sospettano di avere reazioni avverse ai farmaci contenenti pseudoefedrina cercino assistenza medica senza indugi.

La nota dell’AIFA enfatizza l’importanza di interrompere l’uso dei farmaci contenenti pseudoefedrina al primo sospetto di sintomi correlati. Tuttavia, ciò potrebbe essere solo il primo passo in un percorso verso il recupero. È fondamentale cercare assistenza medica per valutare l’entità del danno e intraprendere un trattamento adeguato, specialmente nei casi in cui i sintomi persistono o peggiorano. La tempestività dell’intervento è cruciale per garantire il miglior risultato possibile e prevenire potenziali complicazioni a lungo termine. Nonostante l’allarme suscitato da questa scoperta, c’è motivo di sperare. Tutti i casi segnalati di PRES e RCVS si sono risolti positivamente con la semplice interruzione dell’uso del farmaco e un trattamento appropriato dei sintomi. Nessun caso di decesso è stato documentato, offrendo una luce di speranza nel mezzo delle preoccupazioni. Questi risultati incoraggianti dovrebbero essere fonte di conforto per i pazienti e i professionisti della salute, evidenziando che, se rilevati tempestivamente, i rischi associati all’uso di farmaci contenenti pseudoefedrina possono essere gestiti in modo efficace.

È essenziale che le autorità sanitarie e i regolatori continuino a monitorare da vicino l’uso di pseudoefedrina nei farmaci da banco e ad agire di conseguenza per proteggere la salute pubblica. Solo attraverso uno sforzo collaborativo e coordinato sarà possibile mitigare efficacemente i rischi associati a questo composto e garantire un uso sicuro e responsabile dei farmaci.

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martedì 20 febbraio 2024

Nelle città italiane negli ultimi dieci anni sono “spariti” 111.000 negozi - Giovanni Caprio

 

C’era una volta il commercio nelle nostre città. Non è l’inizio di una favola, ma la sintesi di un fenomeno che di anno in anno assume contorni sempre più rilevanti: https://www.pressenza.com/it/2023/03/cera-unavolta-il-negozio-sotto-casa/. Una desertificazione commerciale, soprattutto dei centri storici dove la riduzione dei livelli di servizio è acuita anche dalla perdita di commercio ambulante, che compromette servizi, vivibilità, sicurezza e attrattività delle nostre città. Una desertificazione confermata dall’Ufficio Studi di Confcommercio che ha presentato nei giorni scorsi la nona edizione dell’indagine “Città e demografia d’impresa: come è cambiato il volto delle città, dai centri storici alle periferie, negli ultimi dieci anni” (qui il link alle slide in pdf), effettuata in collaborazione con il Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne.

Così, se l’anno scorso quasi 100.000 attività di commercio al dettaglio e oltre 15.000 imprese di commercio ambulante erano “sparite” nei dieci anni precedenti, stavolta – nel conteggio 2024 – il totale sale rispettivamente a più di 110mila e a oltre 24mila. Crescono invece in maniera esponenziale i bed and breakfast: +168% nei centri storici del Sud e +87% in quelli del Centro-Nord.  E crescono anche le vendite online,  passate da 17,9 miliardi di € nel 2019 a 35 miliardi di € nel 2023 (+95,5% i beni e +42,2% i servizi), con l’online che nel 2023 vale ormai il 17% degli acquisti di abbigliamento e il 12% del beauty. La crescita dell’e-commerce è la maggiore responsabile della riduzione del numero di negozi, anche se resta comunque un’opportunità per il commercio “fisico” tradizionale.

Concentrando l’analisi sulle 120 città medio-grandi, la riduzione di attività commerciali è più accentuata nei centri storici rispetto alle periferie, un fenomeno che interessa tanto il Centro-Nord che il Mezzogiorno, fino allo scorso anno caratterizzato – quest’ultimo – da una maggiore vivacità commerciale. Nei centri storici sono sempre meno le attività tradizionali (carburanti -40,7%, libri e giocattoli -35,8%, mobili e ferramenta -33,9%, abbigliamento -25,5%) e sempre più quelle che offrono servizi e tecnologia (farmacie +12,4%, computer e telefonia +11,8%), oltre alle attività di alloggio (+42%) e ristorazione (+2,3%). Appare evidente quindi come nelle nostre città sia diventato sempre più accentuato il fenomeno della desertificazione commerciale: negli ultimi dieci anni sono scomparse dai 120 Comuni oggetto di analisi oltre 30.000 unità locali di commercio al dettaglio e ambulanti (-17%), tanto che la densità commerciale è passata da 12,9 a 10,9 negozi per mille abitanti, pari a un calo del 15,3%. Un fenomeno che non dipende se non in minima parte dal calo della popolazione, scesa solo del 2%.

Che fare per cercare di fermare questa “desertificazione”? Occorre che il commercio di prossimità – come sottolineato da Confcommercio – continui a perseguire sempre più la strada dell’efficienza e della produttività, anche attraverso una maggiore innovazione e una ridefinizione dell’offerta. E resta la necessità di puntare su progetti di riqualificazione urbana, come – per esempio – il progetto Cities di ConfcommercioUn progetto che si prefigge l’obiettivo di fornire alcuni strumenti strategici per contrastare la desertificazione commerciale, mettendo a disposizione una piattaforma, con accesso riservato al Sistema Confcommercio, per favorire lo scambio e l’apprendimento collettivo sui temi delle città e delle economie urbane. Uno strumento interattivo e in continua espansione attraverso cui è possibile conoscere i risultati delle sperimentazioni Cities, consultare i progetti promossi dalle Associazioni, discutere nei forum tematici, rafforzare le competenze attraverso corsi di formazione multidisciplinari.

L’indagine di Confcommercio presenta anche un’analisi, regione per regione, con i dati dei 120 Comuni medio-grandi italiani, di cui 110 capoluoghi di provincia 10 Comuni non capoluoghi di media dimensione (escluse le città di Milano, Napoli e Roma perché multicentriche, dove non è possibile, cioè, la distinzione tra centro storico e non centro storico). I file excel delle Regioni contengono singoli fogli con i dati relativi a ogni città osservata.

Qui per scaricare tutti i dati: https://www.confcommercio.it/-/demografia-impresa-citta-italiane.

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lunedì 19 febbraio 2024

UNA STORIA PER GLI AGRICOLTORI IN LOTTA E I CITTADINI CHE LI SOSTENGONO


con Giovanni Pandolfini


Qualche anno fa mi trovai a parlare con un agricoltore, un collega, che gestiva la sua impresa agricola cerealicola familiare nelle terre fertili e pianeggianti della zona del parco Milano-sud. Era molto preoccupato per il futuro della sua attività che sosteneva economicamente la sua famiglia da più generazioni.

I conti non tornano più, diceva :

“Le spese sono sempre in crescita così come gli obblighi burocratici, gli adempimenti fiscali, le norme per la sicurezza sui luoghi di lavoro, quelle per la sostenibilità ambientale, quelle per l’adeguamento delle strutture , quelle per l’acquisto e la manutenzione delle macchine necessarie per lavorare la terra, per i semi, per le cure colturali (diserbanti,concimi e pesticidi) e per il trasporto dei prodotti, per non parlare poi del costo dell’energia, delle consulenze agronomiche, di quelle legali e commerciali di cui ho assoluto bisogno per lavorare e per sentirmi minimamente in regola e non correre rischi .”

Lamentandosi ancora aggiungeva :

“Dall’altro lato dei costi dovrebbero esserci adeguati ricavi ma.. il raccolto ha dei prezzi che a malapena coprono le spese correnti quando tutto fila liscio senza considerare i mille possibili intoppi che ormai sono sempre più frequenti, nuove avversità come insetti nocivi invadenti, attacchi fungini particolarmente forti, danni da selvaggina come ungulati e molti altri, lunghi periodi siccitosi senza pioggia, periodi con troppa pioggia e alluvioni, grandine e forti temporali con venti distruttivi, temperature fuori dall’usuale con escursioni termiche giornaliere intorno ai 20° e molte altre, l’unica nostra salvezza sono i contributi della PAC e le agevolazioni per gli acquisti delle macchine come contributi in conto capitale del psr (ovvero a fondo perduto, da non restituire) e i crediti di conduzione come le cambiali agrarie che le banche rinnovano senza troppe pretese .

L’associazione di categoria mi ha consigliato di specializzarmi, di ammodernare la mia impresa, di innovare le mie attrezzature, di investire con più decisione nella mia attività, di credere in me stesso e di affidarmi a loro per la consulenza finanziaria, per districarmi nella giungla dei contributi e nelle paludi degli obblighi di legge .

D’altronde sono sempre loro che hanno le cooperative ed i consorzi che mi vendono tutto ciò di cui ho bisogno e poi mi ritirano il prodotto nei loro centri di lavorazione e stoccaggio, non posso non considerarli.

Ovviamente per poter beneficiare dei contributi, che sempre loro mi aiutano ad ottenere, gli acquisti per l’innovazione e lo sviluppo della mia azienda devono rigorosamente essere effettuati con macchine nuove, sempre più costose e sofisticate. Un tempo i trattori e le attrezzature con una piccola officina, una saldatrice e un flessibile le riparavo io stesso oggi invece la meccanica si è fusa con l’elettronica e devo rivolgermi ad officine specializzate che costano un patrimonio,

La banca mi ha concesso crediti, scoperti,anticipi fatture perché faccio girare i soldi ma adesso mi sta dicendo che la mia impresa non è più tutta mia ma è un po’ anche loro e pertanto se veramente ci credo nella mia attività, così come ci hanno creduto loro, non posso rifiutarmi di mettere una firmetta per garantire con la mia proprietà immobiliare, la casa e la terra, tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che la mia famiglia ha costruito con tanto lavoro e tanta fatica nel tempo .

Ho le mani legate. Non so più come fare, devo lavorare di più ma ho bisogno di più terra, devo aumentare il mio giro di affari e di contributi.

Alla fine del suo ragionamento arrivava ad una conclusione :

 Ho solo 150 ettari ed oggi con 150 ettari di terreni seminativi non si riesce a campare la famiglia ne occorrerebbero almeno il doppio per stare tranquilli ”.

Incredibile e completamente assurdo. Con quale contorcimento di pensiero si può arrivare ad una simile convinzione?

Il ragionamento del povero imprenditore agricolo modernizzato, specializzato, industrializzato e al passo più o meno col grado minimo di “legalità” occorrente alla sua attività, è più o meno questo:

Per lavorare la terra, assistere le colture, raccogliere e stoccare i prodotti che ottengo ho bisogno di attivare molti investimenti. Il loro ammortamento mi costa in modo sproporzionato a quello che posso realizzare vendendo sul mercato, a prezzi correnti, il frutto del mio lavoro (ammesso che vada tutto bene e con i rischi a mio carico). La mia attività diventa “possibile” solo se al prodotto vendibile aggiungo una quota di sussidio proveniente dal sistema di incentivazione agricola messo in campo dalla Comunità Europea con il suo complicato meccanismo di assegnazione.

E poiché il principale meccanismo di erogazione dei fondi PAC si riferisce ad un premio ad ettaro, ho bisogno di una superficie “minima” di cui disporre per rendere economicamente vantaggiosa la mia impresa . Si capisce che chi possiede una superficie di terra sotto questo limite non riesce a fare fronte ai costi di produzione e se non lo ha già fatto deve smettere, chiudere l’attività, chi è nei pressi di questo limite rischia molto lavora tanto e guadagna poco, chi invece possiede dieci o venti volte questo limite ha ben altri margini di tranquillità e di profitti interamente offerti dalla comunità europea attingendo al prelievo fiscale di milioni di lavoratori.

Avete mai visto un meccanismo più ingiusto?

Una superficie tale che mi consenta di investire sempre di più in innovazione tecnologica e maggior impiego di imput energetici e di coltivazione affinché riesca ad ottenere il massimo possibile e il più velocemente possibile dalla mia terra e al tempo stesso di attingere agli investimenti che il sistema propone via via più vantaggiosi nel momento.

Avete mai visto qualcosa di più pericoloso per l’ambiente e per la salubrità degli alimenti ?

Il livello di questa quantità minima di terra necessaria a questo tipo di sopravvivenza è estremamente variabile di anno in anno con la tendenza all’aumento e al favorire le grosse aziende ai danni delle più piccole .

Un percorso perverso e diabolico destinato a portare alla rovina quasi tutti i praticanti per farne emergere solo alcuni, i più strutturati, i più dotati di capitali alle spalle, i già grossi, i più predatori, a danno di tutti gli altri .

Questo rapporto fra superficie e sostenibilità economica è più evidente sulla specializzazione cerealicola o foraggera ma lo possiamo estendere a tutte le altre specializzazioni agricole più intensive come l’orticoltura, la frutticoltura, la viticoltura ecc ecc fino alla zootecnia con i sui mega allevamenti industriali.

Intermediari e GDO hanno tutto da guadagnare da un sistema simile e il produttore agricolo che si troverà immancabilmente ad avere in un preciso e limitato momento dell’anno una grande massa di prodotto quasi sempre deperibile è l’anello più debole dell’intero sistema .

Avete mai visto qualcosa di più pericoloso?

Invece.

150 ettari sono, per chi non avesse dimestichezza nelle proporzioni della superfici da coltivare, un campo di 1 Km per 1,5 Km, pari più o meno a 215 campi da calcio .

Come è possibile sostenere che con una superficie così grande di buona terra fertile di pianura con acqua a sufficienza in un clima temperato come il nostro, se pur in variazione, non si possa arrivare ad un reddito sufficiente per campare una famiglia.

Approssimativamente in 150 ettari potrebbero vivere e lavorare dalle 180 alle 200 e oltre persone e produrre cibo per loro stesse e per altre 800, con un livello di meccanizzazione minimo e con la quasi completa autosufficiente dal punto di vista energetico e di materie prime necessarie.

Sarebbe possibile solo praticando agricoltura contadina agroecologica .

Con un sistema di distribuzione locale e diretto dei propri prodotti, senza intermediari, senza consulenti, senza azzeccagarbugli, con l’assunzione diretta delle proprie responsabilità ambientali e sociali, con un meccanismo semplice ed efficace di garanzia partecipata sulla salubrità dei propri prodotti a livello locale, con un sistema di credito autogestito, con la possibilità di trasformare e conservare i propri prodotti in piccoli impianti artigianali, con regole diverse da quelle dell’agroindustria, si potrebbe ottenere anche un reddito dignitoso senza troppi sforzi e senza autosfruttamento.

Cosa è accaduto e cosa accade tuttora nelle nostre campagne? Perché un agricoltore arriva a sostenere il paradosso che non riesce a campare se stesso e la propria famiglia con soli?? 150 ettari.

Inutile chiedere e rivendicare alle istituzioni maggior investimenti, maggior attenzione ai lavoratori del settore primario, condizioni di vendita dei propri prodotti più dignitose, un reddito sufficiente alle proprie aspettative e ai propri bisogni, risponderanno sempre con più burocrazie, con più tecnologia, con più specializzazione e con più asservimento al loro sistema. E’ necessario uscire dalla condizione di impresa agricola in un mercato globalizzato e costruire un tessuto comunitario locale e decentralizzato che autonomamente possa disporre del proprio territorio, controllarlo e difenderlo.

Mille e mille autonomie di villaggio che attraverso la produzione del proprio cibo possano rappresentare il modo economicamente ed ecologicamente più sostenibile ed umanamente più piacevole di stare a questo mondo.

Avete mai visto qualcosa di più facile?

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venerdì 16 febbraio 2024

Belgio: Code Rouge blocca l’aeroporto di Anversa per protestare contro l’inquinamento da aerei privati

 

Resoconto di due azioni dell’organizzazione ambientalista belga Code Rouge, ad Anversa e Liegi

Ricordiamo: Code Rouge è un gruppo di cittadini preoccupati per il cambiamento climatico ma soprattutto per l’irresponsabilità politica: questo è il motivo che li spinge ad agire di fronte alla lentezza e all’incompetenza delle istituzioni (?!). Ed è così che l’azione “legittima” si oppone talvolta ai vincoli “legali”, “supervisionati” dai nostri difensori del sistema: la polizia. In questo articolo che riporta l’azione intrapresa dal gruppo, ecco un video con alcune testimonianze. Un grande esempio di disobbedienza civile. 

1.500 persone, di cui 200 venute dall’estero per sostenerci, hanno bloccato l’aeroporto di Anversa e il magazzino di Alibaba all’aeroporto di Liegi per quasi tutto il fine settimana, come parte di una delle più grandi azioni di disobbedienza civile di massa mai organizzate in Belgio.

Alibaba ha registrato una perdita di profitto di 2 milioni di euro e nessun jet privato è riuscito ad atterrare o decollare da Anversa! L’aftermovie di Code Rouge 3 è pronto!
Buona visione!

Conseguenze legali
È stato scioccante il modo in cui le forze di polizia hanno reagito ai nostri attivisti. Molti di loro sono stati vittime della violenza della polizia, alcuni ancora prima di lasciare il luogo del briefing. Sono state arrestate 500 persone e, troppe volte, durante la detenzione sono stati violati i loro diritti fondamentali, come il diritto all’acqua e all’assistenza sanitaria.

Per denunciare la violenza della polizia, Code Rouge ha pubblicato comunicati stampa e video, ed è stata presentata una denuncia al Comitato P riguardante casi di lesioni dovute alla violenza della polizia. Il team legale di Code Rouge continuerà a lavorare sui metodi per contrastare la violenza della polizia.

Traduzione dal francese di Enrica Marchi. Revisione di Maria Sartori.

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giovedì 15 febbraio 2024

La Open Arms ha lasciato il porto di Crotone dopo 20 giorni di ingiustificato fermo amministrativo

La nostra nave, la Open Arms, era partita il 17 gennaio scorso dal porto di Salerno per la sua Missione 108. Subito dopo aver raggiunto la zona di ricerca e soccorso, si era trovata a dover intervenire su tre differenti imbarcazioni in pericolo, riuscendo a trarre in salvo un totale di 57 persone, tra cui 5 minori e un bimbo di otto anni che viaggiava con lo zio.

Durante le operazioni di soccorso, tutte coordinate dalla Guardia Costiera italiana, l’equipaggio del nostro rimorchiatore era venuto a conoscenza di una quarta imbarcazione in pericolo a poche miglia di distanza. Su indicazioni delle autorità competenti, una nostra lancia veloce era stata inviata verso la posizione indicata per effettuare una prima valutazione della situazione.

Una volta giunta in zona, l’equipaggio della nostra Rhib aveva constatato la presenza di una motovedetta libica, già impegnata a recuperare le persone a bordo dell’imbarcazione in distress. Informata la nave madre, la lancia aveva immediatamente invertito la rotta, tornando verso la Open Arms.

Una volta giunti nel porto di Crotone, POS assegnato dalle autorità, il comandante era stato chiamato in questura per riferire come persone informata sui fatti. Al termine di un lungo interrogatorio durato fino a notte tarda, gli era stato notificato poi il fermo di venti giorni della nave e una possibile multa dai 3 ai 10 mila euro per aver “intralciato le operazioni di soccorso della Guardia Costiera libica”, come si legge nel verbale consegnato al Comandante stesso.

Come ribadito più volte, in alcun modo la nostra lancia ha potuto intralciare le operazioni della cosiddetta Guardia Costiera libica, essendosi limitata a constatare la presenza della motovedetta lasciando immediatamente l’area di interesse.

Insistiamo tuttavia su una questione per noi molto importante: la Libia non può essere in alcun modo considerata un luogo sicuro, come ribadito più volte dalle più importanti organizzazioni internazionali  e dalle Nazioni Unite che in quei territori lavorano. La vita delle persone vulnerabili che proprio da lì fuggono è costantemente messa in pericolo e le violenze a cui vengono sottoposte nei centri di detenzione presenti sul territorio rappresentano una gravissima violazione dei diritti umani che le democrazie europee dovrebbero condannare con forza.

“Più di 100.000 persone sono state rimpatriate con la forza in Libia dopo essere state intercettate nel Mediterraneo centrale, subendo gravi violazioni dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie, torture e sparizioni forzate da parte delle autorità libiche. E’ inaccettabile che queste persone, che hanno già sofferto così tanto, siano sottoposte a ulteriori violenze e abusi in luoghi di detenzione sconosciuti. Ciò non solo viola i principi fondamentali del diritto internazionale e dei diritti umani, ma dimostra anche una chiara mancanza di rispetto per la dignità e la vita degli esseri umani. Inoltre, la legislazione interna libica consente ai migranti irregolari di essere puniti con la detenzione e il lavoro forzato, il che costituisce una chiara violazione dei loro diritti fondamentali.

È preoccupante che ingenti somme di denaro, come i 100 milioni di euro stanziati con la firma dell’accordo Italia-Libia del 2017, vengano utilizzate per fermare i flussi migratori e rafforzare la cosiddetta Guardia Costiera libica, nonostante le gravi accuse di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani che sono state portate avanti dagli organismi internazionali. E’ chiaro che il traffico di esseri umani in Libia è stato gestito con la complicità di alcune istituzioni del Paese, il che è inaccettabile”. Così Oscar Camps, fondatore della ONG.

Durante la Missione 108 inoltre, abbiamo registrato episodi che destano preoccupazione e di cui abbiamo immediatamente informato le autorità competenti. Al termine dei soccorsi, sulle tre imbarcazioni, 5 persone hanno rifiutato di salire a bordo della nostra nave, decidendo di allontanarsi autonomamente senza tuttavia essere fermate dalla cosiddetta Guardia Costiera libica, pur presente in zona. Il fatto che alcune persone si siano rifiutate di essere soccorse suggerisce che i trafficanti di esseri umani stiano usando nuove tattiche per sfruttare migranti e rifugiati vulnerabili. Come osservatori di quanto sta accadendo nel Mediterraneo, abbiamo immediatamente segnalato questi eventi alle autorità italiane, consegnando un report dettagliato e agendo in totale e completa trasparenza.

Si tratta di un fenomeno nuovo, a cui assistiamo per la prima volta in tanti anni di operatività in mare. Non siamo in grado di dire a cosa sia dovuto, né sappiamo chi fossero le persone a bordo che hanno rifiutato il soccorso; per noi la priorità rimane il soccorso tempestivo delle donne, dei bambini, degli uomini che ogni giorno rischiano la vita in mare. Questa è e resterà la nostra sola missione, consapevoli del fatto che le navi umanitarie rappresentano oggi l’unico presidio in mare capace di garantire la vita e di documentare ciò che accade nel Mediterraneo.

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Brindisi, sit-in di solidarietà contro il fermo della Ocean Viking - Lucio de Candia

Nel pomeriggio di domenica 11 febbraio, grazie ad una mobilitazione spontanea delle associazioni territoriali, si è tenuto sul lungomare di Brindisi un sit-in di solidarietà nei confronti dell’equipaggio dell’Ocean Viking in seguito al nuovo decreto di fermo imposto dalle autorità italiane, il terzo in pochi mesi.

Il personale della nave è stato accolto dalla comunità locale che ha voluto manifestargli il proprio supporto e la propria vicinanza in un periodo storico in cui si assiste a una vera e propria opposizione politica ad interventi di salvataggio in mare; l’operato della Ocean Viknig non solo è conforme alle convenzioni internazionali in materia, ma di fatto risponde a un dovere di soccorso nei confronti di persone in pericolo di vita.

E’ stato lasciato spazio all’intervento del personale della nave, composto non solo da esperti dell’assistenza in mare, ma anche da professionisti di comunicazione, logistica e mediazione culturale: il blocco è stato imposto perché l’Ocean Viking avrebbe ostacolato l’attività della Guardia Costiera libica, ritenuta al contrario responsabile di una condotta ambigua e pericolosa per le sorti di persone in evidente stato di pericolo.

Erano presenti al raduno anche volontarie del Gruppo salvagente di SOS Mediterranee di Bari, sezione locale del network organizzativo che gestisce l’imbarcazione…

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